L’etica della responsabilità: i beni comuni tra interesse privato e interesse pubblico. Sviluppo sostenibile, tutela del patrimonio ambientale e del territorio

di avv. Giusi Punzi e Paola Pisani

 

La tematica relativa all’etica della responsabilità non può prescindere dalla comprensione e identificazione del concetto di “bene comune” e della sua evoluzione nel tempo.

La Costituzione italiana non contempla una definizione di “bene comune”: il nostro codice civile identifica solo la distinzione tra beni privati e beni pubblici e, all’interno di questi ultimi, menziona le tre categorie dei beni demaniali, dei beni patrimoniali disponibili e dei beni patrimoniali indisponibili.

Fino a quando, infatti, lo Stato ha avuto la gestione esclusiva dei beni pubblici, non vi era la necessità di introdurre un concetto simile: opportunità che è, invece, emersa nel momento in cui la gestione di taluni beni essenziali è passata anche ai soggetti privati.

Dunque, pur in assenza di una definizione legislativa e pur non essendovi dubbi sul fatto che il “bene comune” sia una categoria in evoluzione in quanto “incerto, fluido, sfuggente, polisemico: quasi “in cerca di identità” è altrettanto vero che “esso identifica l’esistenza di una specie di beni fondamentali che devono rimanere condivisi” (Dani, “Historia et ius”, 2014).

Un tassello importante in tal senso è stato inserito in esito ai lavori della Commissione Rodotà, istituita nel 2007 presso il Ministero della Giustizia, con l’obiettivo di inserire nel Codice Civile la definizione di “beni comuni” e la distinzione rispetto ai beni pubblici e privati.

La Commissione nello specifico aveva identificato come tali: “le cose che esprimono utilità funzionali all’esercizio dei diritti fondamentali nonché al libero sviluppo della persona” e in particolare “fiumi, torrenti e le loro sorgenti, i laghi e le altre acque, l’aria i parchi, e le zone boschive; le zone montane di alta quota, i ghiacciai e le nevi perenni; i lidi ed i tratti di costa dichiarati riserva ambientale; la fauna selvatica e la flora tutelata: i beni archeologici, culturali ambientali e le zone paesaggistiche tutelate, l’atmosfera, il clima, gli oceani, la sicurezza alimentare ecc.”.

In quest’ottica, quindi, l’ambiente diviene il “bene comune” per eccellenza ed il suo uso deve essere garantito a tutti, indipendentemente dalla sua forma pubblica o privata.

È infatti ferma ed immutata la consapevolezza che i “beni comuni” esistano perché appartengono alla comunità e devono essere custoditi anche a beneficio delle generazioni future, in quanto indispensabili a garantire una vita dignitosa a tutti.

A pieno titolo, quindi, come detto, in questa definizione, rientra l’ambiente, tant’è vero che, sebbene il disegno di legge elaborato dalla Commissione Rodotà non sia divenuto legge, sono intervenute, nel tempo molteplici e univoche sentenze della Corte di Cassazione dalle quali si evince che i “beni comuni” sono tutti quei beni ex se deputati alla realizzazione degli interessi delle “persone”.

Un esempio sono le valli da pesca della Laguna di Venezia, che, secondo le Sezioni Unite, alla luce dei “principi combinati dello sviluppo della persona, della tutela del paesaggio e della funzione sociale della proprietà”  sono qualcosa di più di un bene pubblico, inteso come “oggetto di diritto reale spettante allo Stato”, perché rappresentano uno “strumento finalizzato alla realizzazione di valori costituzionali” (ex multis Cass, sez. un., n. 1465/2011), confermando così il principio elaborato dalla Commissione Rodotà.

Nel tempo, dunque, si è venuta formando una categoria di beni comuni classificati in ordine al criterio oggettivo - funzionale della destinazione del bene, divenendo recessivo l’aspetto dell’appartenenza, tant’è che, essendo la categoria in evoluzione costante, sulla spinta di situazioni che travalicano i confini geografici, quali la globalizzazione, il riscaldamento globale, la depauperazione di ecosistemi unici o la perdita di biodiversità, è sempre più chiaro che l’ambiente è il bene comune per eccellenza.

A ciò si aggiunga che l’esigenza di sostenibilità ambientale ha profondamente mutato anche l’approccio alla gestione dei beni comuni, valorizzando sempre più modelli di comportamento improntati all’etica della responsabilità.

In quest’ottica, dunque, l’etica della responsabilità è strettamente connessa alla sostenibilità ambientale: il raggiungimento di buone condizioni di vita umane per il futuro non potrà, infatti, che determinarsi per mezzo dello sviluppo sostenibile, come ineludibile bilanciamento tra consumi e risorse rinnovabili per tutti gli abitanti della Terra.

Già Platone, nel secondo libro del dialogo “Repubblica”, aveva identificato nei “consumi smodati” la causa della “insostenibilità” della vita di una città, che determinando una maggiore richiesta di spazi, diveniva fonte di contrasto e ingiustizia.

Attualmente, la questione della sostenibilità ambientale si pone in termini di sfruttamento delle risorse da parte dell’uomo, tant'è che per la Commissione Mondiale sull’Ambiente e lo Sviluppo dell’ONU tenutasi nel 1987: “Lo sviluppo sostenibile è ciò che soddisfa i bisogni del presente senza compromettere la possibilità delle generazioni future di soddisfare i propri bisogni”.

Se è vero, pertanto, che per un determinato periodo di tempo l’intervento umano nell’utilizzo delle risorse naturali poteva definirsi “trascurabile”, la situazione è cambiata radicalmente a partire dal diciannovesimo secolo, allorquando l’evoluzione e l’affermazione prorompente delle tecnoscienze hanno determinato la seria convinzione – successivamente divenuta certezza – che ad esse potessero collegarsi effetti “impattanti” sull’ambiente.

Gli effetti negativi dell’azione umana sulla natura, soprattutto nella fase di accelerata industrializzazione e di aumento dei consumi, sono evidenti: la bioaccumulazione degli inquinanti, il loro trasporto attraverso l’atmosfera e la loro concentrazione nelle zone fredde del pianeta, l’accentuazione dell’effetto serra, il surriscaldamento globale, ecc.

Ad Hans Jonas filosofo tedesco del Novecento di origini ebraiche, naturalizzato statunitense, va il merito di avere aggiornato i concetti etici dai quali la società tecnologica, a fronte della evoluzione delle tecnoscienze, non può prescindere.

L’obiettivo, dunque, è quello di collocare lo sfruttamento delle risorse naturali da parte dell’uomo nel giusto rango. Ed infatti, secondo Hans Jonas, allorquando l’uomo acquisirà la consapevolezza che le trasformazioni irreversibili indotte dallo sviluppo tecnico sui processi naturali e gli effetti a lungo e a lunghissimo termine rappresentano pericolo e minaccia per le future generazioni, detta consapevolezza condurrà l’uomo ad un nuovo impegno etico, facendolo sentire responsabile nei confronti della natura e, quindi, della sua stessa esistenza. Perciò il pensiero etico di Hans si esprime in termini di precetto imperativo: “Agisci in modo che le conseguenze della tua azione siano compatibili con la permanenza di un’autentica vita umana sulla terra”.

È risaputo, infatti, che in conseguenza dello sfruttamento ambientale incontrollato e del depauperamento del territorio, cause di disastri climatici, sta emergendo una nuova generazione di “rifugiati ambientali o climatici”: cioè coloro che a causa degli effetti di disastri ambientali sono costretti a migrare. Si tratta di una categoria di persone che, pur non essendo tutelata con il diritto di asilo dalla Convenzione di Ginevra del 1951, merita comunque la messa a punto di programmi di intervento a sostegno.

Quanto fin qui evidenziato, quindi, non può che condurre alla consapevolezza che la tutela dell’ambiente e del territorio come “beni comuni” troverà la sua applicazione attraverso l’etica della responsabilità: ciascun soggetto, come cittadino del mondo, nel suo interfacciarsi con la realtà circostante, dovrebbe tenere conto dell’impatto che una sua determinata condotta avrà sul patrimonio ambientale, cercando di prendere in considerazione la totalità delle prevedibili conseguenze e di scegliere in funzione delle prospettive ritenute migliori o peggiori.

Poiché è evidente che le nostre azioni hanno un carattere “moltiplicativo e cooperativo”, in ragione dell’interazione tra scienza, industria ed economia, va da sé che l’etica della responsabilità in ambito ecosostenibile non può più limitarsi a considerare solo il patrimonio ambientale di prossimità, ma l’intera biosfera, in quanto inevitabilmente coinvolta con evidenti ripercussioni in termini di impatto ambientale. A ciò si aggiunga che nel tempo, anche a livello globale è accresciuta la sensibilità verso l’ambiente, “bene comune” per eccellenza.

Anche a fronte dei molteplici eventi catastrofici ambientali degli ultimi cinquant’anni, questa nuova concezione dell’ambiente, non più inteso come “risorsa da sfruttare senza regole”, ma come valore da custodire anche a beneficio delle generazioni future, in quanto indispensabile a garantire una vita dignitosa per tutti, ha portato a molteplici interventi a vari livelli, nazionali e sovranazionali, volti a diffondere modelli di comportamento, anche limitativi della libertà di impresa, con l’obiettivo di arginare, per quanto possibile, i fenomeni degenerativi e violentemente impattanti sull’ambiente.

Rientrano in questa finalità gli Accordi di Parigi del 2015, adottati dai rappresentanti di centonovantasei nazioni, in seno ai quali viene stabilito un “quadro globale di azione” per bloccare, per quanto possibile, pericolosi cambiamenti climatici. Tale documento programmatico auspicava l’introduzione di pratiche comuni finalizzate a limitare il riscaldamento globale al di sotto dei 2ºC.

Del pari rilevanti in questo senso sono gli obiettivi di sviluppo sostenibile individuati dall’Assemblea delle Nazioni Unite con “Agenda 2030” di cui si dirà appresso.

L’Italia, peraltro, complici anni di cementificazione incontrollata che hanno condotto a una grave situazione di emergenza idrogeologica, ha dovuto assumere negli ultimi anni impegni sempre crescenti in materia di sicurezza dell’ambiente, tant’è che la normativa inerente la tutela ambientale ha avuto la sua massima espressione nel Codice dell’ambiente (d.lgs. n. 152/2006), oltre che nella recente modifica degli articoli 9 e 41 Cost.

Non può sfuggire alla nostra attenzione che all’art. 3-ter del predetto codice è ben esplicato il principio dell’“azione ambientale”: “La tutela dell’ambiente e degli ecosistemi naturali e del patrimonio culturale deve essere garantita da tutti gli enti pubblici e privati e dalle persone fisiche e giuridiche pubbliche o private, mediante una adeguata azione che sia informata ai principi della precauzione, dell’azione preventiva, della correzione, in via prioritaria alla fonte, dei danni causati all’ambiente, nonché al principio ‘chi inquina paga’ che, ai sensi dell’articolo 174, comma 2, del Trattato delle unioni europee, regolano la politica della comunità in materia ambientale”.

La previsione normativa esplica chiaramente taluni principi fondamentali – codificati anche dall’Atto Unico Europeo del 1986 – tra cui: il principio di “precauzione” che prevede l’adozione di misure cautelari commisurate al rischio; quello di “prevenzione” che è attuazione di una condotta necessaria a prevenire possibili danni ecologici gravi e conosciuti; quello di “correzione” dell’inquinamento alla fonte, che presuppone che la risoluzione di un problema collegato all’inquinamento sia rivolta non solo a limitare i danni, ma anche a evitare lo sviluppo del danno stesso, estirpando le cause alla radice. A ciò si aggiunga il principio di “sussidiarietà” che riconosce agli enti preposti la gestione di questioni di tutela ambientale. In ultimo, ma non meno importante, il principio denominato “chi inquina paga”. Si tratta dell’attuazione del principio di responsabilità ambientale che prevede, a carico del singolo o dell’azienda responsabile del danno ambientale, l’obbligo di pagarne la riparazione.

Vi è da dire, però, che nonostante la sua importanza, questo principio ha finora conosciuto una difficile applicazione, soprattutto nel contesto dei rapporti tra l’Unione europea ed i singoli Stati, sebbene la tutela ambientale inizi a fare capolino anche all’interno della giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo.

Dal canto suo, prima della riforma del Titolo V, la Costituzione non menzionava il concetto di ambiente che, solo con la riforma costituzionale del 2001, ha assunto rilievo come materia di potestà legislativa esclusiva dello Stato, all’interno dell’art. 117 Cost.

A partire dalla metà degli anni Ottanta del secolo scorso, peraltro, si è consolidato un vero e proprio diritto costituzionale all’ambiente di matrice esclusivamente giurisprudenziale, in ragione delle numerose pronunce della Corte costituzionale, intervenuta più volte sul tema.

In particolare, la Corte Costituzionale ha dato spessore alla tutela dell’ambiente, stabilendo che: “La disciplina ambientale, che scaturisce dall’esercizio di una competenza esclusiva dello Stato, investendo l’ambiente nel suo complesso, e quindi anche in ciascuna sua parte, viene a funzionare come un limite alla disciplina che le Regioni e le Province autonome dettano in altre materie di loro competenza” (Corte Cost., n. 378/2007).

Nella visione del giudice costituzionale italiano: “L’ambiente è protetto come elemento determinativo della qualità della vita. La sua protezione non persegue astratte finalità naturalistiche o estetizzanti, ma esprime l’esigenza di un habitat naturale nel quale l’uomo vive ed agisce e che è necessario alla collettività e, per essa, ai cittadini, secondo valori largamente sentiti; è imposta anzitutto da precetti costituzionali (artt. 9 e 32 Cost.), per cui esso assurge a valore primario ed assoluto” (Corte cost n. 641/1987).

D’altronde, la dinamica di reciproca aggressione tra l’uomo e la natura, non poteva che spingere la comunità giuridica, in assenza di una pronta risposta del legislatore, ad adottare idonei strumenti per dare regole di utilizzo delle risorse che, per definizione, sono sempre più scarse e non possono sopportare, oltre certi limiti, il carico imposto da uno sfruttamento sempre più spinto ed incontrollato.

Fu peraltro già la Dichiarazione di Stoccolma del 1972 ad aver posto coerentemente in evidenza che: “L’uomo è al tempo stesso creatura e artefice del suo ambiente”, con ciò operando una netta distinzione tra i “due elementi del suo ambiente, l’elemento naturale e quello da lui stesso creato”. Successivamente, anche la Dichiarazione di Rio de Janeiro del 1992 si è orientata nella stessa direzione, enunciando il principio che: “Gli esseri umani sono al centro delle problematiche per lo sviluppo sostenibile. Essi hanno diritto ad una vita sana e produttiva in armonia con la natura”.

È in quest’ottica di rinnovata valorizzazione della natura, nella sua valenza più ampia, che vanno lette, dunque, le recenti modifiche della Costituzione, approntate con la legge costituzionale n. 1 del 2022. L’art. 9 Cost., oggi, pertanto, precisa che la Repubblica: “tutela l’ambiente, la biodiversità e gli ecosistemi, anche nell’interesse delle future generazioni. La legge dello Stato disciplina i modi e le forme di tutela degli animali”; l’art. 41 Cost. contempla, invece, nuovi limiti all’esercizio della libertà privata, aggiungendo all’elenco anche il riferimento al danno alla salute e all’ambiente.

Il nuovo dettato costituzionale sulla tutela dell’ambiente, della biodiversità e degli ecosistemi assume particolare rilevanza, perché, essendo inserito tra i principi fondamentali della Carta costituzionale, si rafforza l’indicazione al legislatore di accogliere la configurazione dell’interesse alla tutela ambientale come valore di rango primario affidato alle politiche pubbliche, al pari del paesaggio e del patrimonio storico e artistico della Nazione.

Ambiente, dunque, da intendersi non come diritto o interesse complesso soggettivamente imputabile e rivolto a un bene giuridico oggettivamente definibile, bensì come “valore costituzionale”, ossia interesse o esigenza non predefinibile a priori, ma di volta in volta da individuare nei suoi contenuti in concreto.

Gli stessi Trattati europei, d'altronde, fanno una fondamentale suddivisione tra le due grandi direttrici strategiche dell’intervento pubblico rivolto alla tutela dell’ambiente: in primo luogo, la politica ambientale in senso stretto, rivolta a per seguire direttamente finalità di tutela degli ecosistemi e della loro funzionalità, in secondo luogo, l’integrazione delle esigenze ambientali, all’interno di tutte le altre azioni pubbliche, quali il “green deal” o la “transizione ecologica”.

La modifica della nostra Costituzione, dunque, è espressione, a livello nazionale, di una strategia più ampia, che, nel riconoscere l'ambiente quale bene primario di rango costituzionale, si inserisce in un contesto di tutela “globale” che trova la sua esplicazione anche nelle istituzioni mondiali e sovranazionali.

Un passo decisivo su questa linea di tutela sempre più definita è dato dalla sottoscrizione, nel settembre 2015, dell’Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile, da parte dei Governi di centonovantatré Paesi membri dell’ONU.

L’Agenda 2030, oltreché espressione di un progetto di pianificazione di tutela ambientale globale è conferma che la trasformazione ecologica ed energetica passa attraverso una trasformazione sociale, a livello geopolitico. In essa sono contemplate infatti, le tre dimensioni dello sviluppo sostenibile: quella economica, sociale ed ecologica. Proteggere l’ambiente per le generazioni future è infatti l’obiettivo che accomuna trasversalmente tutti gli Stati, dove l'etica della responsabilità porta alla consapevolezza che: “Il pianeta Terra e i suoi ecosistemi sono la nostra casa”.

Con l'adesione al programma, dunque, tutti i Paesi aderenti sono tenuti a impegnarsi per definire una propria strategia interna di sviluppo sostenibile che consenta di raggiungere gli obiettivi comuni fissati. In ambito europeo, la risposta all'invito delle Nazioni Unite è un altrettanto ambizioso documento programmatico il Green Deal europeo, che è parte integrante della strategia della Commissione Europea per l’attuazione dell’Agenda 2030.

L'obiettivo di tale documento programmatico europeo è quello di trasformare l’Unione europea in un mercato con economia moderna ed efficiente, anche sotto il profilo delle risorse e della sostenibilità ambientale, promuovendo la transizione ecologica ambientale.

L’azione congiunta di istituzioni globali, sovranazionali e nazionali va, quindi, sempre più decisamente verso la tutela dell’ambiente, cercando di dare espressione anche alle esigenze di chi è diretto interessato, ma “non ha voce”: cioè le future generazioni.

Tuttavia, a fronte della innegabile maggiore sensibilità raggiunta in tema di eco sostenibilità ambientale, come descritto dall’excursus sopra riportato, da più parti sovviene la necessità di potenziare e sviluppare un sistema di educazione civica ambientale finalizzato ad una maggiore e più intensa “educazione” e consolidamento dell'etica della responsabilità nelle nuove generazioni, centrali ed essenziali, in questo percorso di cambiamento e riconoscimento dell'ambiente come bene primario.

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