Il comportamento remissivo della vittima nel reato di maltrattamenti contro familiari o conviventi

di avv. Anna Silvia Zanini

La Suprema Corte, con la sentenza n. 8729 del 18 gennaio 2023, chiarisce quale rilevanza possa avere il comportamento della vittima nel reato di maltrattamenti contro familiari e conviventi di cui all’art. 572 c.p.

Nel caso in esame, il Giudice per le Indagini Preliminari applicava ad un soggetto, indagato per il reato di maltrattamenti in danno della moglie, la misura cautelare del divieto di avvicinamento con obbligo di utilizzo del braccialetto elettronico, ritenendo sufficienti i gravi indizi di colpevolezza a carico del predetto. Il Tribunale del Riesame confermava l’ordinanza impugnata.

Avverso tale provvedimento l’indagato proponeva ricorso per Cassazione, lamentando anzitutto l’insussistenza della gravità dell’assetto indiziario, sostenendo che i fatti oggetto di contestazione si erano limitati a sporadici episodi, peraltro molto lontani tra loro, e neppure confermati dalle persone informate sui fatti escusse nel corso delle indagini preliminari.

L’indagato, inoltre, deduceva la violazione di legge con riferimento alla corretta qualificazione giuridica del reato contestato, rilevando come la persona offesa non avesse mai avuto un comportamento remissivo e timoroso nei confronti del coniuge, atto ad integrare gli estremi dell’art. 572 c.p., tanto da avere incaricato un investigatore privato di pedinare il marito per comprovarne una relazione extraconiugale e di avere, altresì, chiesto il divorzio.

La Corte di Cassazione ha dichiarato il ricorso inammissibile, rilevando, in ordine ai gravi indizi di colpevolezza, che alla luce delle dichiarazioni della persona offesa, delle figlie e dei fidanzati di queste, era stato accertato come l’indagato, definito da tutti uomo violento ed irascibile, avesse usato da sempre nei confronti della moglie, anche approfittando della sua fragilità, condotte umilianti e sopraffattorie, sia sotto il profilo psicologico che fisico, con schiaffi, tentativi di strangolamento, spintonamenti e minacce di morte, tanto da avere imposto ai figli di intervenire per salvare la donna da gravi e continuative violenze, condotte che, in linea con l'indirizzo esegetico seguito in materia dalla Suprema Corte, integrano il delitto di maltrattamenti.

La Corte ha ritenuto, sotto il profilo dell’assenza nella persona offesa di un "comportamento remissivo e timoroso nei confronti del marito", che tale dato rimane estraneo alla fattispecie di reato, che non prevede che la vittima tenga comportamenti di passività, soggezione, docilità e accondiscendenza e, dunque, di non reazione alle condotte umilianti e violente.

E’ stato quindi ribadito come l'oggetto dell'accertamento debba essere la condotta dell’autore. La Corte anzi valuta alla stregua di un  “paradosso” la volontà dell’indagato di attribuire “rilievo scriminante al diritto inalienabile e personalissimo della persona offesa di chiedere il divorzio dall'uomo delle cui violenze è vittima e di acquisire prove utili all'eventuale addebito”.

Come noto, il delitto in esame si configura laddove i ripetuti comportamenti molesti, vessatori, ingiuriosi, violenti arrechino pregiudizio all’integrità psico-fisica della vittima, escludendo che l’atto di promuovere l’azione di divorzio da parte di questa comporti il venir meno del fatto contestato.

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