La persona con disabilità ha diritto a non nascere? La Cassazione dice no

Con l’ordinanza in commento, la Cassazione ha confermato che una persona nata con gravi anomalie genetiche non ha diritto al risarcimento, per il fatto di essere venuta al mondo.

Nel caso di specie, un ragazzo con disabilità (prima, per tramite dei genitori, poi, raggiunta la maggiore età, in proprio) agiva in giudizio nei confronti del ginecologo e dell’azienda sanitaria locale, sostenendo che, a causa della mancata diagnosi delle sue malformazioni congenite, la madre non avesse, a suo tempo, potuto scegliere di interrompere la gravidanza: chiedeva, conseguentemente, la rifusione del danno subito, per essere costretto a vivere in una condizione psico-fisica che gli era insopportabile.

In precedenza per una situazione sovrapponibile la Cassazione aveva riconosciuto la responsabilità del medico, condannandolo al risarcimento in favore dei genitori. Con l’ordinanza in commento, la Corte ha dichiarato invece inammissibile il ricorso promosso dal figlio, confermando le decisioni già prese nei due antecedenti gradi di giudizio. 

Il provvedimento si pone in linea coi precedenti di legittimità (Cass. civ. n. 16574/2021, Cass. civ. n. 9251/2017, Cass. civ. n. 25767/2015, con nota della Redazione, Obbligo informativo del medico, danno da “nascita indesiderata” e possibile conflitto di interessi tra genitore e figlio minore; Cass. civ. n. 16123/2006; Cass. civ. n. 14488/2004) ed è coerente con le norme sull’IVG (interruzione volontaria di gravidanza) e il cd. “fine vita”:

-    la l. n. 194/1978 riconosce, infatti, alla gestante il diritto all’interruzione volontaria della gravidanza, anche dopo i primi novanta giorni, quando siano accertati processi patologici, tra cui quelli relativi a rilevanti anomalie o malformazioni del nascituro, che determinino un grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna: il diritto di non affrontare una nascita indesiderata appartiene, però, esclusivamente alla madre, non al nascituro.
(Sul punto, si veda anche Corte Cost. n. 229/2015 che ha stabilito che non può essere vietata la selezione, a scopo eugenetico, degli embrioni e dei gameti, nei casi in cui sia esclusivamente finalizzata ad evitare l’impianto nell’utero della donna di embrioni affetti da malattie genetiche trasmissibili, rispondenti ai criteri di gravità e accertate da apposite strutture pubbliche);

-    la l. n. 219/2017 stabilisce, inoltre, che ogni persona capace di agire ha il diritto di rifiutare e/o interrompere qualsiasi trattamento sanitario indicato dal  medico per la sua patologia: l’opposizione presuppone, però, l’indicazione esplicita, volontaria e consapevole, di una persona capace di autodeterminarsi e, pertanto, uno stato di coscienza incompatibile con quello di un soggetto che deve ancora venire ad esistenza.
(Sul punto, si vedano anche Corte Cost. n. 242/2019, con nota della Redazione, La sentenza della Corte Costituzionale n. 242/2019, che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 580 c.p., nella parte in cui punisce, a determinate condizioni, il suicidio medicalmente assistito, e Corte Cost. n. 135/2024, con nota di Arata, Brevi riflessioni sull’assistenza medica nel morire e di Carnio, La dignità della persona e il fine vita: l’ultimo intervento della Corte Costituzionale, che ha ampliato la portata dei trattamenti di sostegno vitale che possono essere rifutati dalle persone che versano in situazione di malattia terminale e sofferenza).

L'ordinamento tutela, dunque, il diritto a vivere in maniera dignitosa, ma non contempla un diritto incondizionato a morire. In questo contesto, a maggior ragione, non vi è spazio per un presunto diritto a non nascere se non sani e ciò, anche per i seguenti motivi:


i)    in primo luogo, perché, se la patologia è congenita, non c’è alcun nesso di causalità tra l’errore del medico e la condizione di vita del nato: le sue sofferenze non derivano, infatti, dall’omessa diagnosi prenatale, ma sono frutto di un’eredità biologica;

ii)    in secondo luogo, perché ragioni logiche, prima che giuridiche, impediscono di considerare la nascita come un danno risarcibile per il nascituro: dal punto di vista di quest’ultimo, infatti, l’alternativa, rispetto all’ipotesi di nascere non sano, non è quella di nascere sano bensì quella di non nascere affatto;

iii)    in terzo luogo, perché si tratterebbe di un diritto adespota: posto che la capacità giuridica si acquista solamente al momento della nascita e la legge subordina a tale evento i diritti che ravvisa a favore del concepito, la situazione giuridica soggettiva che si pretende non avrebbe un titolare legittimato a farla valere, fino al momento in cui l’individuo non viene alla luce.

In una visione laica e, pure, eticamente orientata del biodiritto, è difficile restare indifferenti, di fronte alle istanze di chi manifesta una profonda e comprensibile sofferenza umana. Tuttavia, la decisione di non vivere è espressione di un diritto personalissimo e, prima del parto, non vi è, perché non è ancora venuto ad esistenza, un soggetto capace, deputato ad espletare tale scelta. Persino la madre, nella misura in cui si trova nel difficile dilemma se accedere o meno all’interruzione volontaria di gravidanza, assume una determinazione che, dal punto di vista strettamente giuridico, è sempre effettuata in funzione del proprio benessere, mai in ragione di una prognosi sulle chance di vita felice del figlio. 

Quel che è certo, perciò, è che nessun giudice può arrogarsi il diritto di stabilire, col senno di poi, quale vita merita di essere vissuta e quale no

Affermare il contrario significherebbe abbandonarsi a pericolose derive concettuali che, in passato, hanno giustificato anche tragici orrori nella Storia (dalla rupe del Monte Taigeto, nell’antica Sparta, alla Germania nazista il cui motto “lebensunwertes leben” faceva, appunto, riferimento ai segmenti della popolazione che, secondo il regime, conducevano una “vita indegna di essere vissuta” e andavano, pertanto, eliminati per eutanasia).

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