La dignità della persona e il fine vita: l’ultimo intervento della Corte Costituzionale

di avv. Barbara Carnio

Non esiste una morte naturale: di ciò che avviene all’uomo, nulla è mai naturale, poiché la sua presenza mette in questione il mondo.” Così Simone De Beauvoir nella sua opera “Una morte dolcissima” (ET Scrittori – 2015): un diario che racconta un mese di realtà ospedaliera vissuta per la malattia conclusasi con la morte della madre.

Nonostante i solleciti della Corte Costituzionale contenuti sia nell’ordinanza n. 207/2018 sia nella sentenza n. 242/2019 (relative alla nota vicenda di DJ Fabo) il legislatore italiano non è ancora intervenuto a normare il fine vita.

La Consulta è stata, quindi, chiamata ad intervenire nuovamente: M.S. è affetto da sclerosi multipla dal 2017 con quadro clinico rimasto stazionario fino al 2021, poi peggiorato in modo rapido e significativo;  ha quindi vissuto prima con l’ausilio di una sedia rotelle e poi, da aprile 2022, a letto con una immobilizzazione pressoché totale anche degli arti superiori, salva una residua (ma minima) capacità di utilizzazione del braccio destro.

M.S. già nel 2021 tramite ricerche on line svolte in autonomia, era venuto a conoscenza dell’esistenza di associazioni che supportano i pazienti interessati ad accedere alla procedura di suicidio assistito all’estero. Nel 2022, visto l’aggravarsi delle sue condizioni, aveva contattato un’organizzazione svizzera e in Svizzera l’08.12.2022 alla presenza della sorella, del padre e delle due persone che lo hanno accompagnato guidando il furgone, ha confermato la sua volontà: utilizzando il braccio destro che ancora poteva in parte controllare, ha assunto per bocca un farmaco letale morendo pochi minuti dopo.

Indagati per il reato di aiuto al suicidio ex art. 580 cp (essendo le loro condotte intervenute quando il proposito di M.S. era già compiutamente maturato) il legale rappresentante della clinica elvetica (che si era assunta alcune spese della procedura tra cui le spese di trasporto di M.S. in Svizzera) e le due persone che hanno guidato il mezzo di trasporto.

La Procura formulava richiesta di archiviazione che il G.I.P. del Tribunale di Firenze aveva ritenuto, allo stato, non accoglibile sollevando, in riferimento agli artt. 2, 3, 13, 32 e 117 della Costituzione, quest’ultimo in relazione agli artt. 8 e 14 della Convenzione Europea dei diritti dell’uomo, questione di legittimità costituzionale dell’art. 580 cp come modificato dalla sentenza della Corte Costituzionale n. 242/2019 nella parte in cui subordina la non punibilità di chi agevola l’altrui suicidio alla condizione che l’aiuto sia prestato ad una persona “tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale”.

Con la sentenza in commento (n. 135/2024) la Corte Costituzionale, pur ritenendo la questione di legittimità non fondata, coglie l’occasione per una precisazione di grande importanza che ha ampliato in modo non indifferente la nozione di “trattamenti di sostegno vitale

La Consulta ha anzitutto ricordato che l’art. 580 c.p. (istigazione o aiuto al suicidio) è posto “a tutela della vita umana”: bene che “si colloca in posizione apicale nell’ambito dei diritti fondamentali della persona” e che è “presupposto per l’esercizio di tutti gli altri diritti inviolabili”.

L’ordinamento ha, quindi, il dovere di “proteggere la vita delle persone rispetto a scelte irreparabili che pregiudicherebbero definitivamente l’esercizio di qualsiasi ulteriore diritto o libertà, al fine di evitare che simili scelte, collegate a situazioni, magari solo momentanee, di difficoltà e sofferenza o anche soltanto non sufficientemente meditate possano essere indotte, sollecitate o anche solo assecondate da terze persone per le ragioni più diverse”.

Rammenta, inoltre, che ogni paziente capace di assumere decisioni libere e consapevoli ha il diritto, avente effetti vincolanti nei confronti di terzi, di esprimere il proprio consenso informato a qualsiasi trattamento sanitario ed anche a rifiutarlo o ad interromperlo seppur necessario ad assicurarne la sua sopravvivenza.

In tal modo “l’ordinamento riconosce in sostanza al paziente la libertà di lasciarsi morire”, o meglio di vivere la propria malattia senza interventi sanitari farmacologici o di supporto ulteriori alla sempre dovuta terapia del dolore, seguendo la traiettoria segnata dalla evoluzione naturale della propria condizione.

Il diritto a rifiutare le cure è chiaramente disciplinato nella 219/2017 e si basa su un “consenso informato nel quale si incontrano l’autonomia decisionale del paziente e la competenza, l’autonomia professionale e la responsabilità del medico”. Spetta comunque al paziente la decisione ultima di sottrarsi  (o di continuare a sottoporsi) ai trattamenti, seppur ritenuti dal medico necessari alla sua sopravvivenza previa adeguata e completa informazione ed eventuale supporto psicologico.

Già con le precitate pronunce (n. 207/2018 e n. 242/2019) la Corte Costituzionale aveva ritenuto “irragionevole mantenere ferma l’operatività del divieto di cui all’art. 580 c.p. anche nell’ipotesi di pazienti che abbiano già la possibilità - alla luce della legge n. 219 del 2017 – di porre termine alla propria esistenza attraverso il rifiuto delle cure necessarie per tenerli in vita”.

Far operare il divieto anche in tali situazioni, infatti “costringerebbe il paziente ad affrontare la morte attraverso un processo più lento, in ipotesi meno corrispondente alla propria visione della dignità del morire e più carico di sofferenze per le persone che gli sono care” con una “insostenibile compressione della libertà di autodeterminazione del malato nella scelta delle terapie, comprese quelle finalizzate a liberarlo dalle sofferenze…”.

Di qui la dichiarazione di illegittimità costituzionale dell’art. 580 c.p. nella parte in cui non prevedeva un’eccezione alla generale punibilità di ogni forma di aiuto al suicidio nelle particolari ipotesi in cui la persona aiutata sia:

  • affetta da una patologia irreversibile;
  • fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che trova assolutamente intollerabili;
  • sia tenuta in vita a mezzo di trattamenti di sostegno vitale;
  • resti capace di prendere decisioni consapevoli

con la precisazione che a tutela dei soggetti deboli e vulnerabili le condizioni e le modalità di esecuzione della procedura siano verificate nell’ambito della “procedura medicalizzata” di cui alla l. n. 219/2017, da una struttura pubblica del Servizio sanitario nazionale, previo parere del competente comitato etico per la pratica clinica.

Il g.i.p. del Tribunale di Firenze nell’ordinanza di rimessione sollecita la Consulta a ritenere lecite le condotte di aiuto al suicidio incriminate dall’art. 580 c.p. anche qualora il paziente non sia mantenuto in vita da trattamenti di sostegno vitale (ferma restando la necessità degli altri requisiti).

La Corte Costituzionale precisa di non aver mai riconosciuto un generale diritto di terminare la propria vita in ogni situazione di intollerabile sofferenza determinata da una patologia irreversibile essendosi, invece, limitata a ritenere irragionevole precludere l’accesso al suicidio assistito a chi - ex art. 32 Cost comma 2 e ex art. 1 e 2 l. n. 219/2017 - abbia già il diritto di porre fine alla propria vita rifiutando od interrompendo il trattamento necessario ad assicurane la sopravvivenza.

Tale ratio non può, quindi, estendersi a chi NON dipende da trattamenti di sostegno vitale perché non hanno la possibilità di lasciarsi morire rifiutando le cure: è la nozione di trattamento di sostegno vitale che – come vedremo – per la Corte può essere ampliata in coerenza con i principi fondamentali dell’ordinamento.

Mantenere il requisito della dipendenza da trattamenti di sostegno vitale, per la Corte Costituzionale, non viola il diritto all’autodeterminazione del paziente (artt. 2, 13 e 32 secondo comma Costituzione).

La Consulta, pur concordando con il rimettente che “la decisione su quando e come concludere la propria esistenza possa considerarsi inclusa tra quelle più significative della vita di un individuo” e che “ogni scelta di legalizzazione di pratiche di suicidio assistito o di eutanasia amplia gli spazi riconosciuti all’autonomia della persona di decidere liberamente sul proprio destino”, ritiene che tale decisione al tempo stesso crea dei rischi che l’ordinamento deve evitare a tutela della vita umana che pure discende dall’art. 2 della Costituzione: il rischio maggiore per la Corte è la possibilità che si crei una “pressione sociale indiretta sulle persone malate o, semplicemente, anziane e sole le quali potrebbero convincersi di essere divenute ormai un peso per i propri familiari e per l’intera società e decidere così di farsi anzitempo da parte”.

La Consulta puntualizza come non sia suo compito quello di sostituirsi al legislatore nell’individuare il punto di equilibrio in astratto più appropriato tra il diritto all’autodeterminazione di ciascun individuo sulla propria esistenza e le contrapposte esigenze di tutela della vita umana, potendo soltanto “fissare il limite minimo, costituzionalmente imposto alla luce del quadro legislativo oggetto di scrutinio, della tutela di ciascuno di questi principi, restando poi ferma la possibilità per il legislatore di individuare soluzioni che assicurino all’uno o all’altro una tutela più intensa”.

Dovrà essere il legislatore ad “offrire una tutela equilibrata a tutti i diritti di pazienti che versino in situazioni di intensa sofferenza” … fermo restando il dovere della Repubblica di “assicurare a questi pazienti tutte le terapie appropriate, incluse quelle necessarie a eliminare o, almeno, a ridurre a proporzioni tollerabili le sofferenze determinate delle patologie di cui sono affetti”.

Per il rimettente il requisito della dipendenza dai trattamenti di sostegno vitale finirebbe per costringere il paziente ad un lento processo di morte, quanto meno sino al momento in cui si renda in concreto necessaria l’attivazione di trattamenti di sostegno vitale (che poi potrebbe rifiutare) con modalità che egli potrebbe considerare non conformi alla propria concezione di dignità nel vivere e nel morire.

Per la Corte Costituzionale, invece, il principio di tutela della dignità umana non è violato perché “dal punto di vista dell’ordinamento, ogni vita è portatrice di una inalienabile dignità, indipendentemente dalle concrete situazioni in cui essa si svolga”. Precisa la Corte di non essere affatto insensibile alla nozione “soggettiva” di dignità cui fa riferimento il rimettente ma ritiene che tale concetto coincida con quello di autodeterminazione della persona per il quale richiama le considerazioni già svolte.

L’ordinanza di rimessione lamenta, infine, la violazione dell’art. 117, primo comma Costituzione per il tramite degli artt. 8 (tutela della vita familiare) e 14 (divieto di discriminazione) della CEDU.

Sul punto la Consulta riconosce, anzitutto, che per la Corte EDU “il diritto di decidere con quali mezzi e a che punto la propria vita finirà” costituisce “uno degli aspetti del diritto al rispetto della propria privata” (cfr. sentenza Haas contro Svizzera) e che “una disciplina che vieti, sotto minaccia di pena, l’assistenza al suicidio di un paziente, necessariamente interferisce con il diritto di quest’ultimo rispetto della propria vita privata” (cfr. Corte EDU, sentenza Daniel Karsai contro Ungheria)

Tuttavia rammenta che è la stessa Corte EDU a ribadire che in tale materia i Paesi del Consiglio d’Europa dispongono di un “considerevole margine di apprezzamento” (cfr. Corte Edu sentenza Karsai contro Ungheria; sentenza Mortier contro Belgio, sentenza Haas contro Svizzera) in ordine al bilanciamento tra il diritto al rispetto della vita privata e gli interessi tutelati dalle incriminazioni volte a garantire la vita umana. Tale bilanciamento può legittimamente portare gli Stati a mantenere politiche restrittive circa la regolamentazione delle forme di assistenza al suicidio o di eutanasia.

La stessa EDU ha evidenziato “la difficoltà ad accertare che la decisione del paziente di accedere al suicidio assistito sia realmente autonoma, libera da influenze esterne e da preoccupazioni cui si dovrebbe fornire una diversa risposta” ed ha sottolineato come “l’accertamento della genuinità della richiesta del paziente divenga particolarmente difficoltoso in situazioni cliniche, come le patologie neurodegenerative, in cui i pazienti, in stati avanzati della malattia, possono perdere la stessa capacità di comunicare” (cfr. Corte EDU sentenza Karasai contro Ungheria). Pertanto per la corte EDU “spetta ai singoli Stati valutare le vaste implicazioni sociali e i rischi di abuso e di errore che ogni legalizzazione delle procedure di suicidio medicalmente assistito inevitabilmente comporta” (cfr. Corte EDU sentenza Karasai contro Ungheria).

La Corte Costituzionale non ravvisa motivi per discostarsi da tale lettura dell’art. 8 CEDU.

Quanto al contrasto sollevato dal rimettente col divieto di discriminazione posto dall’art. 14 della CEDU la Consulta ribadisce che non può ritenersi irragionevole rendere lecito l’aiuto al suicidio ai soli pazienti che già abbiano la possibilità di porre fine alla loro vita rifiutando o interrompendo i trattamenti di sostegno vitale.

A questo punto la Corte introduce un’importante precisazione sulla nozione di “trattamenti di sostegno vitale” ritenendo che debba essere interpretata dal Servizio sanitario nazionale e dai giudici in conformità alla ratio delle precedenti decisioni n. 207/2018 e n. 242/2019 già più volte richiamate.

Per la Consulta il paziente

ha il diritto fondamentale di rifiutare ogni trattamento sanitario praticato sul proprio corpo, indipendentemente dal suo grado di complessità tecnica e di invasività. Incluse, dunque, quelle procedure che sono normalmente compiute dal personale sanitario e la cui esecuzione richiede certo particolari competenze oggetto di specifica formazione professionale, ma che potrebbero essere apprese da familiari o caregivers che si facciano carico dell’assistenza del paziente”.

Vi rientrano, quindi, ad esempio anche l’evacuazione manuale dell’intestino del paziente, l’inserimento di cateteri urinari, l’aspirazione del muco dalle vie bronchiali.

Quando queste proceduresi rivelino in concreto necessarie ad assicurare l’espletamento di funzioni vitali del paziente al punto che la loro omissione o interruzione determinerebbe prevedibilmente la morte del paziente in breve lasso di tempo, esse dovranno certamente essere considerate quali trattamenti di sostegno vitale, ai fini dell’applicazione dei principi statuiti dalla sentenza n. 242 del 2019”.

Il paziente può legittimamente rifiutare tutte queste procedure, così come l’idratazione, l’alimentazione o la ventilazione artificiale e, in tal modo, ha già il diritto di esporsi ad un rischio prossimo di morte.

Precisa la Corte che in tale contesto è fondamentale l’esistenza di una patologia incurabile, la permanenza della condizione di piena capacità del paziente (incompatibile con una patologia psichiatrica) e la presenza di sofferenze intollerabili di natura fisica non controllabili con appropriate terapie palliative, o comunque derivanti dalla situazione complessiva di intensa “sofferenza esistenziale” tipica degli stati avanzati delle patologie neurodegenerative.

Devono, inoltre, essere rispettate le condizioni procedurali stabilite nella Sentenza n. 242/2019 (coinvolgendo, quindi, il Servizio sanitario nazionale e con il parere del comitato etico).

La Corte Costituzionale conclude ribadendo la necessità di un pronto intervento del legislatore e del servizio sanitario nazionale per assicurare concreta e puntuale attuazione ai principi di cui alle sue precedenti pronunce del 2018 e del 2018 ribaditi in quella oggi oggetto di commento “ferma restando la possibilità per il legislatore di dettare una diversa disciplina, nel rispetto dei principi richiamati dalla presente pronuncia”.

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