Quando l’adozione non può essere mite

Con la sentenza 15 del 16 luglio 2021 in commento, la Corte di appello veneziana ha offerto un importante contributo chiarificatore sull’applicabilità dell’adozione mite, cioè su quella forma di adozione che modellata sulla previsione dell’art 44 legge 184/83, a differenza dell’adozione legittimante, non comporta l’esclusione dei rapporti tra l’adottato e la famiglia di origine e cerca comunque di preservare anche i legami di sangue.

E’ un’esigenza che nasce da una sensibilità nuova, che a sua volta si fonda anche sull’orientamento espresso dalla Corte EDU , come ha nitidamente precisato la Suprema Corte nella sentenza 25/01/2021 n.1476.

«in applicazione dell’art 8 CEDU, art 30 Cost, Legge 184/83 art 1 e art 315 bis comma 2 c.c., nonché delle sentenze in materia della Corte EDU, il giudice chiamato  a decidere sullo stato di abbandono del minore e quindi sulla dichiarazione di adottabilità deve accertare  la sussistenza dell’interesse del medesimo a conservare il legame con i suoi  genitori biologici pur se deficitari nelle loro capacità genitoriali, costituendo l’adozione legittimante l’extrema ratio cui può pervenirsi nel solo caso in cui non si ravvisi tale interesse; il modello di adozione in casi particolari e segnatamente la previsione di cui alla l.184/83 art 44 lett. d, può nei singoli casi concreti  e previo compimento delle opportune indagini istruttorie, costituire un idoneo strumento giuridico per il ricorso alla cd. adozione mite al fine di non recidere del tutto, nell’accertato interesse del minore, il rapporto di quest’ultimo e la famiglia di origine.»

Dalla Suprema Corte giunge dunque una pragmatica e ormai granitica indicazione: l’interruzione del rapporto con la famiglia biologica non deve avere effetti pregiudizievoli sul minore (Cosi anche Cass. 227206/2019); di conseguenza, là dove emerga invece il pregiudizio, il Giudice, volgendo lo sguardo all’interesse del minore, dovrà privilegiare il “legame familiare di cuore” della famiglia adottante, al posto di quello biologico che potrà essere definitivamente reciso.

Sostanzialmente, è quanto accaduto nella vicenda veneziana che qui si riporta.

 

IL CASO

Con sentenza n. 12/2021 il Tribunale per i Minorenni di Venezia aveva dichiarato la decadenza della responsabilità genitoriale e lo stato di adottabilità del minore R. nato il XX.04.2015 ed affetto da autismo; lo aveva affidato ai Servizi sociali per il suo mantenimento presso la famiglia ove già era collocato, gli aveva nominato un tutore e disposto la sospensione dei contatti del ragazzino con i genitori e i parenti.

Il Tribunale motivava lo stato di abbandono del minore, in ragione anche del progressivo disinteresse mostrato dal padre verso il figlio e, del mancato superamento della madre del grave stato di compromissione psichiatrica perdurante dall’anno 2001 da cui erano dipesi vari TSO essendo affetta da un «disturbo schizoaffettivo con esacerbazione acuta.»

I genitori appellavano la sentenza innanzi alla Corte territoriale veneziana opponendosi entrambi alla dichiarazione dello stato di adottabilità, ex art 17 L.184/83 ed alla dichiarazione di decadenza della responsabilità genitoriale e chiedendo, in subordine, che la Corte disponesse l’adozione in casi particolari ex art 44 L.184/83, al fine del mantenimento dei rapporti del minore con la famiglia di origine.

Queste le censure degli appellanti, le prime due  della madre, la terza del padre:

  1. erronea valutazione degli elementi probatori relativi alla salute psichica della madre; alle sue capacità genitoriali abitative, lavorative e familiari
  2. viziato giudizio del Tribunale di prime cure, sul mancato raggiungimento da parte della madre di un’autonomia abitativa e lavorativa, avendo la stessa fatto richiesta di un’abitazione popolare e, percependo una retribuzione media di 650 euro mensili oltre al mantenimento del figlio fissato in 280 euro al mese
  3. omessa considerazione da parte del Tribunale della causa del disinteresse paterno verso il figlio, riconducibile solo  al rapporto conflittuale con la madre del piccolo.

Il tutore del minore si costituiva chiedendo il rigetto dell’appello ed insistendo affinchè venisse disposta l’adozione legittimante.

A motivo di ciò rammentava come il piccolo affetto da autismo, avesse subito il disinteresse   dei genitori anche in ordine alla sua malattia; avesse assistito inerme ad episodi di violenza familiare anche a danno del nonno materno e, solo a seguito dell’affidamento al servizio sociale con collocamento eterofamiliare, aveva dimostrato significativi miglioramenti anche nel contesto scolastico.

 

LA DECISIONE

La Corte di appello veneziana, esaminate anche le relazioni del Servizio sociale, rigettava l’appello

Rilevava infatti che il piccolo R. dopo un periodo di collocamento eterofamiliare di tre anni, era rientrato per 4 mesi nella famiglia di origine con riscontro negativo, a seguito della ripresa da parte della madre di abuso di stupefacenti ed alcol , dei maltrattamenti della stessa  verso il padre del minore ed il nonno materno, cui R. aveva assistito.

I giudici veneziani  richiamano testualmente  (Cassazione 7391 del 14.04.2016)  secondo la quale « ai fini dell’accertamento dello stato di abbandono quale presupposto della dichiarazione di adottabilità non basta che risultino insufficienze o malattie mentali, anche permanenti o comportamenti patologici dei genitori» ed   «necessario accertare la capacità genitoriale in concreto di ciascuno di loro, a tal fine verificando l’esistenza di comportamenti pregiudizievoli per la crescita equilibrata e serena dei figli e tenendo conto della positiva volontà dei genitori di recupero del rapporto con essi»

In ragione di tale principio sottolineavano come nel caso di specie

«l’atteggiamento materno fosse ben lontano dal porsi in ascolto dei bisogni complessi del minore che vanno al di là dell’assolvimento delle funzioni concrete nella gestione del figlio; che la madre ravvisava nel figlio la risposta a proprie esigenze di accudimento personale e di consolazione  e che il bambino era considerato come un possibile collante della coppia genitoriale»

La madre, in concreto non aveva manifestato di possedere risorse necessarie a rispondere ai bisogni del figlio, sia dal punto di vista organizzativo che emotivo.

Il padre (che peraltro risultava aver proposto l’appello al fine di sostenere l’analogo appello proposto dalla donna) a sua volta, pur richiamandosi ad un desiderio di condivisione col figlio della cultura e delle usanze nigeriane, dimostrava in concreto di non avere recuperato in maniera effettiva quella capacità genitoriale necessaria alla particolari esigenze di Ryan né di essere in grado di recuperarla in tempi brevi.

La Corte censurava anche la scarsa collaborazione del padre col servizio sociale al quale mai aveva inteso rivolgersi per avere un aiuto/sostegno.

Alla luce delle criticità emerse nella coppia genitoriale, tenuto conto anche della malattia autistica del figlio, la Corte aveva dunque focalizzato l’attenzione sull’interesse del minore da proteggere e sulla sua  necessità ad avere punti fermi e precise figure genitoriali di riferimento.

Siccome invece, la coppia genitoriale biologica, per le caratteristiche emerse, risultava fonte di confusione e destabilizzazione, la Corte rigettava l’appello dei genitori biologici, ritenendo contrario all’interesse del piccolo R.  la previsione del mantenimento di una relazione con i genitori biologici.

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