Il minore affidato ad un cittadino europeo in regime di kafala ha diritto al soggiorno non come discendente diretto, ma come familiare

Con la sentenza in commento la Corte di Giustizia dell’Unione Europea (CGUE) si è pronunciata in sede di ricorso pregiudiziale sul diritto di ingresso e di soggiorno nel Regno Unito di una minore algerina affidata secondo il regime algerino della kafala ad una coppia di cittadini francesi, sposati nel Regno Unito e ivi residenti.

Il rinvio pregiudiziale alla CGUE è stato effettuato dalla Corte suprema del Regno Unito, adita in ultima istanza dalla minore, e per essa da un avvocato appositamente assegnatole in base al diritto inglese, contro il provvedimento di rifiuto del permesso di ingresso nel Regno.
Le questioni pregiudiziali riguardavano l’interpretazione dell’art. 2 alla luce degli artt. 27 e 35 della Direttiva n. 2004/38 relativa al diritto dei cittadini dell'Unione e dei loro familiari di circolare e di soggiornare liberamente nel territorio degli Stati membri, che in Inghilterra è stata trasposta nell’Immigration Regulation 2006, mentre in Italia è stata attuata con il d.lgs n. 30/2007.

La Corte è stata chiamata ad interpretare l’art. 2 punto 2 lett. c) della Direttiva, il quale riconosce i discendenti diretti tra i familiari che beneficiano del permesso di soggiorno, sul punto se tale potesse essere considerato un minore posto sotto il regime della kafala algerina.

La kafala è un istituto di origine islamica, che nasce dal divieto del Corano di stabilire una filiazione giuridica; più precisamente la sura 33 vieta al figlio non biologico di assumere il cognome del tutore e di addivenire alla sua eredità, cosa che invece è ammessa nell’adozione.
Per questo motivo gli ordinamenti islamici non prevedono un’adozione del tipo di quella da noi conosciuta come adozione piena con la quale si crea un rapporto di filiazione di natura giuridica e si attribuisce una famiglia al minore che ne è privo.
Gli ordinamenti islamici utilizzano l’istituto della kafala per i minori che si trovano in stato di abbandono, o anche per quelli che hanno una famiglia che però non si può occupare di loro. L’istituto consiste nell’attribuzione della custodia del minore (makful) ad un affidatario (kafil) al di fuori di un rapporto di filiazione giuridica.
La kafala copre, quindi, le ipotesi che in Italia corrispondono all’adozione piena e all’adozione non legittimante, che non recide cioè tutti i legami tra il minore e la famiglia di origine, che la giurisprudenza faceva rientrare nell’adozione “in casi particolari” interpretando in maniera estensiva il requisito di cui alla lett. d) dell’art. 44 l. n. 184/1983 sull’impossibilità dell’affidamento preadottivo (che veniva riconosciuta anche quando il minore aveva una famiglia che però non si poteva prendere cura di lui. Cfr., ad esempio, Corte EDU sent. Zhou c/ Italia 21-I-2014).
La kafala algerina prevede che il o i kafil si impegnino a mantenere il minore sano fisicamente e moralmente, provvedendo alle sue necessità, ad occuparsi della sua istruzione, a trattarlo come se fossero i genitori naturali, a rappresentarlo dinanzi alle autorità giudiziarie e ad assumerne la responsabilità civile per atti pregiudizievoli.

La principale differenza con l’adozione piena consiste nel fatto che un minore posto sotto kafala non recide i legami con la sua famiglia d’origine, se ne ha una, non instaura un rapporto di filiazione giuridica (vietato, come è detto dal Corano, con il kafil), e non acquisisce lo status di erede del kafil (può diventarlo solo con una disposizione dell’affidatario in vita); inoltre la kafala cessa al momento in cui il minore raggiunge la maggiore età̀ ed è revocabile su richiesta dei genitori biologici o del kafil.

La speciale conformazione di tale istituto ha dato origine a molte pronunce sul suo riconoscimento in Italia, dove si è dibattuto se esso sia un tipo di adozione (Cassazione, sent. 23 settembre 2011, n. 19450) o se non integri piuttosto una forma di protezione dei minori assimilabile all’affidamento.
Inducono a ritenere la kafala un istituto di protezione dei minori piuttosto che un’adozione sia l’assenza di un rapporto di filiazione giuridica, sia il modo in cui esso è configurato da due importanti strumenti di diritto convenzionale: la Convenzione di New York sui diritti del fanciullo (Convenzione sui diritti dell'infanzia, approvata il 20 novembre 1989 dall'Assemblea Generale delle Nazioni Unite, ratificata dall'Italia con l. n. 176 del 27 maggio 1991) all’art. 20, comma 3 annovera la kafala fra le misure di protezione del minore, sostitutive della famiglia di cui egli sia temporaneamente o definitivamente privo, con la seguente previsione: “Tale protezione sostitutiva può in particolare concretizzarsi per mezzo dell'affidamento familiare, della kafalah di diritto islamico, dell'adozione o, in caso di necessità, del collocamento in adeguati istituti per l'infanzia”.
Alla stessa classificazione si giunge attraverso la lettura dell’art. 3 della Convenzione dell’Aja del 1996 sulla competenza, la legge applicabile, il riconoscimento, l'esecuzione e la cooperazione in materia di responsabilità dei genitori e di misure di protezione dei minori (ratificata dall’Italia con l. n. 101 del 18 giugno 2015), che considera anch’essa la kafala una misura di protezione del minore.

In questo stesso ordine di idee, nella sentenza in commento, la CGUE ha escluso che il minore affidato in regime di kafala sia qualificabile quale “discendente diretto” ai sensi dell’art. 2 punto 2 della Direttiva n. 2004/38 (§§ 56 e 73 della motivazione), in quanto l’istituto sciaraitico non “crea un legame di filiazione giuridica tra il minore e il cittadino dell’Unione” (§ 54 della motivazione).

Una volta esclusa l’applicabilità dell’art. 2 della Direttiva n. 2004/38, la Corte ha preso spunto dalle osservazioni del giudice a quo per individuare, invece, nell’art. 3, la base giuridica applicabile al minore posto sotto la tutela legale di cittadini europei secondo il regime della kafala ai fini dell’ingresso nel territorio dell’UE (§§ 57 e 59 della motivazione). Il comma 2 di tale articolo stabilisce infatti che “... lo Stato membro ospitante, conformemente alla sua legislazione nazionale, agevola l'ingresso e il soggiorno delle seguenti persone:
a) ogni altro familiare, qualunque sia la sua cittadinanza, non definito all'articolo 2, punto 2, se è a carico o convive, nel paese di provenienza, con il cittadino dell'Unione titolare del diritto di soggiorno a titolo principale o se gravi motivi di salute impongono che il cittadino dell'Unione lo assista personalmente
”.
La Corte ha interpretato questo articolo nel senso che lo Stato membro deve agevolare l’ingresso di persone che pur non essendo “discendenti diretti” ai sensi dell’art. 2 hanno “vincoli familiari stretti e stabili con un cittadino dell’Unione in ragione di circostanze di fatto specifiche, quali una dipendenza economica, un’appartenenza al nucleo familiare o gravi motivi di salute” (§ 60 della motivazione).

Il comma 3 dell’art. 3 della Direttiva n. 2004/38 sembra peraltro attribuire agli Stati un potere discrezionale nel riconoscimento di questi vincoli familiari nella parte in cui stabilisce che “lo Stato membro ospitante effettua un esame approfondito della situazione personale e giustifica l'eventuale rifiuto del loro ingresso o soggiorno”.
Un limite importante a tale potere discrezionale consiste peraltro nel fatto che l’autorità dello Stato membro deve leggere l’articolo 3 alla luce dell’art. 7 della Carta di Nizza (Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea), che stabilisce il diritto al rispetto della vita privata e familiare.
Il diritto al rispetto della vita privata e familiare riconosciuto dall’art. 7 della Carta di Nizza ha lo stesso contenuto del corrispondente diritto previsto dall’art. 8 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), come interpretato dalla giurisprudenza della Corte EDU che anche la CGUE deve prendere a base per l’interpretazione della Carta di Nizza ai sensi dell’art. 52 della Carta stessa.
E la Corte EDU ha più volte riconosciuto che il rapporto effettivo che intercorre tra un minore affidato in kafala e il suo affidatario rientra nella nozione di vita familiare di cui all’art. 8 CEDU (e quindi all’art. 7 della carta di Nizza), che va individuata “considerato il tempo trascorso insieme, la qualità delle relazioni e il ruolo assunto dall’adulto nei confronti del minore” (§ 66 della motivazione).
Va poi considerato che secondo la CGUE l’art. 7 della Carta di Nizza deve essere letto in modo da garantire il superiore interesse del minore, enunciato all’art. 24 della Carta.

In sostanza, la valutazione che gli Stati membri sono chiamati ad eseguire nell’esercizio del potere discrezionale ex art. 3 comma 3 della Direttiva n. 2004/38 deve prendere in considerazione “l’età in cui il minore è stato sottoposto al regime della kafala algerina, l’esistenza di una vita comune che il minore conduce con i suoi tutori a partire dalla sua sottoposizione a tale regime, il grado delle relazioni affettive che si sono instaurate tra il minore e i suoi tutori, nonché il livello di dipendenza del minore nei confronti dei suoi tutori, per il fatto che questi ultimi assumono la potestà genitoriale e l’onere legale e finanziario del minore”, nonché i rischi, concreti e individualizzati, che il minore sia vittima di un abuso o di sfruttamento (§§ 69 e 70 della motivazione).
Nella sentenza in commento la Corte conclude asserendo che, ove la valutazione (condotta alla luce dell’art. 7 della Carta di Nizza) abbia evidenziato la sussistenza effettiva di una vita familiare e la dipendenza del minore affidato in kafala dai suoi tutori, si deve riconoscere, in linea di principio, un diritto di ingresso e soggiorno al minore.

La CGUE risolve così il problema se il minore affidato in kafala abbia o meno il diritto al ricongiungimento, problema che è stato affrontato più volte anche dalla Corte di Cassazione italiana, che talvolta lo ha ammesso (sent. 28 gennaio 2010, n. 1908 e SS.UU., 16 settembre 2013 n. 21108), talvolta lo ha escluso (sent. 1° marzo 2010, n. 4868).

La Corte di Giustizia ha, dunque, affermato che il minore affidato in kafala può avere diritto al ricongiungimento, non però come discendente diretto ai sensi dell’art. 2 (perché la kafala non instaura un rapporto di filiazione giuridica), ma invece come familiare ai sensi dell’art. 3.

Più precisamente, ove si ravvisi uno stretto legame tra minore affidato in regime di kafala e il suo tutore, con una relazione di affettività e di dipendenza economica del primo dal secondo, il principio dell’interesse superiore del minore e il diritto alla vita familiare esigono che lo Stato membro conceda l’ingresso al minore al fine di potergli consentire di vivere con i suoi tutori.

In Italia il d.lgs 30/2007, che attua la Direttiva n. 2004/38, prevede che le disposizioni contenute nel decreto si applichino non solo ai familiari di cittadini UE, ma anche ai familiari di cittadini italiani (art. 23).
Il principio affermato con questa sentenza della CGUE si può quindi applicare per riconoscere il diritto al ricongiungimento del minore straniero affidato in regime di kafala ad un cittadino italiano che ne chieda l’ingresso nel territorio italiano.

 

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