Crisi familiare: quali regole per il figlio maggiorenne con grave disabilità?

di avv. Anna Sartor

L’ordinanza n. 2670/2023 della Cassazione Civile, ha precisato che il secondo comma dell’art.337 septies c.c. nel prevedere l’estensione integrale ai figli maggiorenni con gravi disabilità delle disposizioni previste in favore dei figli minori, deve intendersi riferito alle sole disposizioni in tema di visite, cura e mantenimento da parte dei genitori non conviventi, oltre all’assegnazione della casa coniugale, ma non certo alle disposizioni sull’affidamento, condiviso o esclusivo.

Il Tribunale di Isernia nel dichiarare la cessazione degli effetti civili del matrimonio tra due coniugi, rigettava la domanda della moglie alla corresponsione dell’assegno divorzile, poneva a carico del padre, quale contributo al mantenimento dei due figli maggiorenni non economicamente autosufficienti, il versamento di un assegno di mantenimento di € 1.500,00 e dichiarava inammissibile la domanda avanzata dalla moglie di ampliamento dei tempi di visita del padre al figlio maggiorenne con disabilità grave.

La Corte d’appello di Campobasso accoglieva il ricorso proposto dalla moglie: in parziale riforma della sentenza di primo grado, poneva a carico del marito l’assegno divorzile di € 2.500,00 mensili e disponeva le modalità di visita del padre, ampliando i tempi di permanenza del figlio con disabilità grave.

La Corte territoriale riteneva, infatti, che la previsione di cui all’art. 337 septies, secondo comma, c.c. secondo cui “ai figli maggiorenni portatori di handicap grave si applicano integralmente le disposizioni previste in favore dei figli minori” andasse interpretata nel senso che possono trovare applicazione le norme sulla presenza, le visite, la cura ed il mantenimento da parte del genitore non convivente ma non le norme sull’affidamento.

Il marito proponeva ricorso per la cassazione della sentenza con tre motivi, esponendo in particolare che la Corte territoriale aveva errato nell’applicazione dell’art.337 septies, secondo comma, c.c. ritenendo l’equiparazione dettata dalla norma riferibile solo alle disposizioni di natura patrimoniale.

La Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso, precisando che l’art. 337 septies c.c. (che ha ripreso il contenuto dell’art.155 quinques c.c.) “non ha inteso determinare in via generale una generalizzata dichiarazione di incapacità dei portatori di handicap, equiparandoli ai minorenni” considerato che “la categoria di portatori di handicap grave comprende anche portatori di handicap solo fisico e che quindi l’applicazione indiscriminata sia delle norme sull’affidamento, sia di quelle sul mantenimento previste per i minori, finirebbe per produrre risultati paradossali e anzi profondamente discriminatori nei confronti dei figli maggiorenni disabili che conservino pienamente integra la propria capacità di intendere e volere”.

La disposizione, quindi, non deve essere letteralmente interpretata ma coordinata con i principi generali del nostro ordinamento propri degli istituti a tutela delle persone con disabilità: in tal senso richiama una datata pronuncia (Cass. civ. n.16027/2001) che evidenzia come il quadro normativo, già allora fosse ispirato “ad una sempre più avvertita esigenza di solidarietà sociale in un sistema integrato di interventi e servizi dal quale emerge uno “statuto del portatore di handicap”, come soggetto debole di cui la collettività è tenuta a darsi carico mediante opportune misure di sostegno che si sviluppa in uno “statuto della famiglia del portatore di handicap”.

Ribadito quindi che “va esclusa l’applicazione automatica e generalizzata delle norme sull’affidamento ai figli maggiorenni portatori di handicap grave, nel disposto dell’art.337 septies, comma 2, c.c., è possibile cogliere l’intento del legislatore di creare una vera e propria figura protettiva dei figli maggiorenni portatori di handicap, ulteriore rispetto a quelle perviste dalla legge” con la conseguenza che “è così applicabile al figlio maggiorenne portatore di handicap l’art.337 ter c.c. nella parte in cui attribuisce ai genitori il potere di spartirsi tra loro, secondo la più conveniente regolamentazione, i compiti di accudimento e di soddisfazione delle primarie esigenze di vita del figlio al quale anche dopo la rottura della convivenza coniugale essi devono prestare cura e assistenza.”

In applicazione di questo principio e nell’ambito di quello che viene definito “statuto della famiglia del portatore di handicap” è consentito qualificare il “diritto di visita” del genitore non collocatario, non più come semplice diritto, ma come “un dovere di partecipazione e condivisione dell’assistenza e delle cure del figlio”.

Gli ermellini ritengono, quindi, che spetti al giudice il potere di intervenire nella crisi familiare per disciplinare le frequentazioni del genitore non convivente con il figlio maggiorenne con disabilità, ribadendo il seguente principio di diritto:

In tema di regolamentazione della crisi familiare in relazione ai figli maggiorenni portatori di handicap grave, ai sensi della legge n.104 del 1992, in forza dell’art. 337 septies c.c. (già art.155 quinquies c.c.) trovano applicazione le sole, disposizioni in tema di visite, di cura e di mantenimento da parte dei genitori non conviventi e di assegnazione della casa coniugale, previste in favore dei figli minori, ma non quelle sull’affidamento, condiviso od esclusivo”.

Va segnalata l’improprietà del linguaggio descrittivo della condizione di fragilità che ritroviamo sia nelle decisioni giurisdizionali, sia nelle disposizioni codicistiche, sia nella legge n. 104/1992: per la Convenzione ONU del 2006 (ratificata in Italia nel 2009) l’unica locuzione ammessa è “persona con disabilità”, oggi divenuta uno standard internazionale.

A tale locuzione la legge delega n. 227/2021 impone di adeguare anche le disposizioni normative già vigenti che si occupano di disabilità.

Nel mentre, gli operatori del diritto potranno già utilizzare questa definizione maggiormente rispettosa della dignità delle persone.

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