Il Giudice deve verificare la situazione interna del Paese per valutare il fondamento della domanda di protezione internazionale

di Barbara Bottecchia, avvocato in Venezia

IL CASO. Un cittadino musulmano del Pakistan aveva richiesto alla Commissione territoriale competente il riconoscimento dello status di rifugiato in Italia, la protezione sussidiaria o quella umanitaria poiché era stato costretto ad abbandonare il proprio paese a causa della persecuzione religiosa subita dai cristiani nel proprio villaggio, avendo intrattenuto stretti rapporti di lavoro con un cristiano.

In particolare aveva raccontato di aver subito un’aggressione feroce da parte di concittadini che avevano appiccato un incendio alla casa familiare, incendio nel quale era morto il padre. Da qui la fuga in Italia e il diniego opposto in sede amministrativa dalla competente Commissione territoriale.

La Corte d’appello di Bologna confermava la pronuncia di rigetto della sezione specializzata del Tribunale ordinario.

Avverso la sentenza d’appello il richiedente la protezione ha proposto ricorso per cassazione per tre motivi: a. con il primo motivo ha lamentato che la Corte non avrebbe valutato la condizione oggettiva del paese di origine prima di escludere la protezione sussidiaria; b. con il secondo motivo ha lamentato che la Corte non avrebbe riconosciuto che la minaccia grave alla propria incolumità poteva provenire anche da soggetti non statali, visto che il sistema giuridico interno non offriva protezione; con il terzo motivo ha lamentato che non gli sia stata accordata la protezione umanitaria benché egli si trovasse in condizione di oggettiva vulnerabilità, e tenuto conto della sua condizione sociale e lavorativa in Italia.

LA DECISIONE La Suprema Corte, con ordinanza depositata il 10 gennaio 2022, ha accolto tutti i motivi del ricorso.

In particolare il Supremo Collegio ha rilevato come la Corte territoriale bolognese non avesse assegnato alcuna credibilità al racconto del richiedente, senza una valutazione complessiva dello stesso e delle circostanze documentate, limitandosi ad affermare non credibile la vicenda persecutoria narrata perché motivata da ragioni di odio religioso nei confronti dei cristiani, pur essendo il richiedente e la sua famiglia di religione musulmana: argomentazione non coerente con la vicenda narrata ed idonea a ritenere che non sia stato correttamente adempiuto il dovere di cooperazione istruttorio.

Il Supremo collegio quindi ha cassato la sentenza rinviando ed indicando alla Corte bolognese i seguenti principi consolidati di diritto:

  1. quanto all’assolvimento dell’onere di prova, questa Corte ha già affermato (Cass. N.28974 del 8.11.2019) che in tema di protezione internazionale, ai sensi del D.Lgs n.251 del 2007, art. 3, comma 5, le lacune probatorie del racconto del richiedente asilo non comportano necessariamente inottemperanza al regime dell’onere della prova potendo essere superate dalla valutazione che il giudice del merito è tenuto a compiere delle circostanze indicate alle lettere da a) ad e) della citata norma”;

  2. quando il richiedente alleghi il timore di essere soggetto nel suo paese di origine ad una persecuzione a sfondo religioso o comunque ad un trattamento inumano e degradante fondato su motivazioni a sfondo religioso, il giudice deve effettuare una valutazione sulla situazione interna del Paese di origine del richiedente, indagando espressamente l’esistenza di fenomeni di tensione”;

  3. né in tema di protezione sussidiaria e, avuto riguardo alla libertà religiosa dello straniero, il diritto a tale forma di protezione può essere escluso dalla circostanza che il danno grave possa essere provocato da soggetti privati, qualora nel Paese d’origine non vi sia un’autorità statale in grado di fornire adeguata ed effettiva tutela, con conseguente dovere del giudice di effettuare una verifica officiosa sull’attuale situazione di quel Paese e quindi sull’eventuale inutilità di una richiesta di protezione alle autorità locali”.

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