Sulla revoca della disposizione testamentaria in favore del legittimario se il testatore conferisce al bene un’altra destinazione

27 GENNAIO 2022 | Successioni e donazioni

A cura di Alessandra Buzzavo, avvocato in Treviso

Con l’ordinanza n. 27377 dell’8 ottobre 2021 la Sezione Seconda della Corte di Cassazione si è pronunciata in un caso relativo alla revoca di disposizione testamentaria nel caso di trasformazione della cosa legata, oltre che su altre questioni in materia successoria.

IL CASO. Tizia, coniuge del de cuius Tizio, conveniva in giudizio i figli del medesimo Primo, Secondo e Terzo. Il de cuius, con testamento pubblico, aveva istituito eredi in parti uguali i figli Primo e Secondo, lasciando al coniuge ed al figlio Terzo la quota di legittima. Con riguardo alla disposizione in favore del figlio Terzo, il testatore aveva previsto che la quota di legittima doveva essere formata a mezzo del distacco di una porzione dalla maggior superficie del fondo tusculano.

Inoltre, in aggiunta alla quota di legittima, il de cuius aveva disposto, in favore del coniuge, dell’usufrutto di un terreno e dell’usufrutto sui mobili che arredavano la casa di abitazione del defunto.

Nella decisione di secondo grado, la Corte d’Appello, per quanto qui interessa, aveva - da un lato - riconosciuto l’inefficacia della rinuncia all’eredità fatta da Tizia in quanto la rinuncia era intervenuta allorché la chiamata aveva già tenuto una pluralità di comportamenti che integravano tacita accettazione di eredità; - dall’altro - aveva escluso errori del Giudice di primo grado nel determinare le quote spettanti ai due eredi istituiti in base al testamento, ovvero i figli Primo e Secondo, in quanto agli stessi era stato riconosciuto in parti uguali la divisione dell’asse ereditario, al netto dei legati e delle quote di legittima lasciate al coniuge ed al figlio Terzo. Infine, confermava la decisione di primo grado nella parte relativa alla formazione della quota di legittima del figlio Terzo, dando atto che il Tribunale aveva dato seguito all’indicazione contenuta nel testamento, in assenza di disposizioni di revoca o di modifica provenienti dal testatore. La sentenza di secondo grado veniva impugnata avanti la Corte di Cassazione.

L’ORDINANZA

Con la citata ordinanza, la Corte di Cassazione si è pronunciata sui vari motivi di ricorso promosso dalle parti.

In primo luogo, la Corte ha rigettato il secondo motivo di ricorso principale, per violazione e falsa applicazione degli artt. 460 e 476 c.c., assumendo che i comportamenti tenuti dalla coniuge del de cuius, assunti dalla Corte d’appello come atti di accettazione tacita dell’eredità, non integravano atti di amministrazione che il chiamato avrebbe potuto compiere ai sensi dell’art. 460 c.c., come sosteneva Tizia.

Gli Ermellini hanno rilevato che, tra gli atti compiuti dalla coniuge Tizia, c’era anche la vendita di prodotti dei terreni facenti parte dell’asse ereditario. L’art. 460, co. 2, c.c., in aggiunta agli atti conservativi di vigilanza e di amministrazione temporanea dei beni ereditari, legittima il chiamato a procedere alla vendita delle cose che non si possono conservare. La procedura relativa è quella stabilita dagli artt. 747 e 748 c.p.c., ovvero il chiamato deve chiedere l’autorizzazione al Tribunale il quale provvede con decreto.

L’autorizzazione ha lo scopo di impedire che l’atto di vendita possa costituire accettazione tacita di eredità. Pertanto la vendita compiuta senza l’autorizzazione non è invalida, ma produce l’effetto di rendere il chiamato erede puro e semplice.

La Suprema Corte ha invece ritenuto fondato il motivo di ricorso che lamentava l’errata ripartizione dell’asse ereditario tra i due coeredi istituiti, ovvero il figlio Primo ed il figlio Secondo.

La Corte di Cassazione ha rilevato che i Giudici di secondo grado hanno menzionato l’esistenza di donazioni ricevute dai due figli in vita dal de cuius, ciò nonostante hanno poi fatto luogo ad una divisione del relictum in parti uguali in conformità all’istituzione testamentaria. In questo modo, la Corte d’Appello non ha tenuto conto delle donazioni fatte in favore dei discendenti. Una simile conclusione potrebbe essere stata legittima in astratto a condizione che le donazioni fossero stato elargite con dispensa dalla collazione. Infatti, la dispensa fa sì che la successione si svolge e la determinazione delle quote di eredità si attui come se la donazione non fosse stata mai fatta, e il bene non fosse mai uscito dal patrimonio del de cuius a titolo gratuito.

In assenza di dispensa, le donazioni fatte in favore del coniuge e/o dei discendenti devono essere oggetto di collazione ex art. 737 c.c. e condizionano il riparto dell’asse ereditario in quanto il valore delle quote si calcola anche sulle donazioni.

Ne consegue che, se i coeredi sono stati beneficiati di donazioni di diverso valore, il coerede donatario che ha ricevuto meno avrà diritto di recuperare la differenza sui beni relitti.

La notazione della Corte d’appello secondo cui il relictum andava diviso in parti uguali tra i due figli perché ciascuno dei coeredi donatari aveva ricevuto una quota maggiore della legittima allo stesso spettante, è irrilevante in quanto

ai sensi dell’art. 737 c.c. citato, le donazioni sono sempre soggette a collazione anche se non sono state lesive della quota di legittima.

La Corte di Cassazione ha, quindi, concluso nel senso che il coerede, il quale abbia ricevuto di meno a titolo di donazione in vita del de cuius, avrà diritto di concorrere alla ripartizione del relictum in misura maggiore in modo che, conteggiate anche le donazioni ricevute in vita, sia assicurata la proporzione stabilita dal testatore.

Infine, sul quinto motivo del ricorso, per violazione e falsa applicazione degli artt. 667, 686 e 733 c.c., la Suprema Corte ha osservato che la disposizione testamentaria relativa alla formazione della porzione spettante al legittimario figlio Terzo, doveva intendersi revocata per effetto di successivi comportamenti del testatore.

Secondo gli Ermellini non è privo di significato il raffronto con la disciplina del legato dettata dall’art. 686 c.c., secondo cui la disposizione a titolo particolare è revocata anche quando la cosa oggetto del legato sia stata trasformata dal testatore.

Nella specie sussistevano una pluralità di atti di disposizione posti in essere dal de cuius, nell’ampio lasso di tempo intercorso tra la redazione del testamento e l’apertura della successione, da cui risultava che il medesimo aveva dato al fondo una destinazione incompatibile con la volontà espressa nel testamento di ricavarne una porzione in favore del legittimario Terzo.

Ha, in particolare, rilevato la Suprema Corte che le norme dettate dal testatore ai sensi dell’art. 733 c.c., devono inquadrarsi nella categoria dei legati obbligatori: l’assegno divisionale semplice integra un legato obbligatorio a carico degli altri coeredi, i quali sono obbligati a far sì che il bene indicato dal testatore sia incluso nella porzione ereditaria del beneficiato.

La dottrina riconosce che la norma dell’art. 686 c.c., benché dettata in tema di legato di proprietà, debba trovare applicazione anche al legato di credito.

E l’art. 686 c.c. prevede la presunzione di revoca non solo nel caso di alienazione, ma anche nel caso della trasformazione della cosa legata e, ai sensi del secondo comma della norma citata, si ha trasformazione quando la cosa abbia perduto la precedente forma e la primitiva denominazione.

La dottrina interpreta la previsione legislativa anche nel senso del mutamento della funzione economica - sociale del bene: a titolo di esempio, se il fondo rustico è stato legato in quanto tale, il mutamento della coltura non importerà revoca del legato, se invece è stato oggetto del legato il vigneto, il mutamento della coltura importerà presunzione di revoca.

La trasformazione deve sempre essere riconducibile alla volontà del testatore e non dipendere da cause naturali o dipendenti da persona terza.

Pertanto, quando si configurano i presupposti di cui all’art. 686 c.c. ovvero l’alienazione del bene oggetto del legato o la sua trasformazione, opera la presunzione di revoca. Si tratta di una presunzione iuris tantum che può essere vinta da prova contraria.

Secondo gli Ermellini non c’è motivo per escludere l’ipotesi della trasformazione anche in relazione a una disposizione impartita dal testatore ai sensi dell’art. 733 c.c., sempre che la trasformazione sia riconducibile alla volontà del testatore.

Alla luce dei principi sopra espressi, la Corte di Cassazione ha ritenuto che le considerazioni svolte dal CTU, che aveva ritenuto che le successive scelte del testatore avessero sottratto il fondo tusculano alla sua originaria destinazione, imponevano di verificare e di indagare se il complesso degli atti materiali e giuridici realizzati dal testatore, nel lungo lasso di tempo tra la predisposizione della scheda testamentaria e l’apertura della successione, avessero comportato la trasformazione del fondo e pertanto la revoca del legato in favore di Terzo.

Tale indagine è invece mancata nei pregressi gradi di giudizio e pertanto la Corte ha cassato la sentenza di secondo grado, rinviando alla Corte d’appello, in diversa composizione.

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