Patti successori: una generica promessa verbale vincola la libertà del testatore?

05 MAGGIO 2022 | Successioni e donazioni

di avv. Fulvia Catarinussi

In tema di divieto di patti successori ex art. 458 c.c., la Corte di cassazione, con ordinanza n. 5555 del 21.2.2022, ha ribadito il principio di diritto secondo cui non deve sussumersi nella fattispecie astratta del patto successorio la semplice e generica promessa verbale manifestata all’interessato (o a terzi) di disporre dei propri beni in un determinato modo, poiché tale manifestazione, non creando di fatto un vincolo giuridico, non può ritenersi idonea a limitare la libertà del testatore, che è oggetto di tutela legislativa.

IL CASO. Il dott. Tizio e sua moglie dott.ssa Caia citavano Sempronio dinanzi al Tribunale affinché venisse accertato il loro diritto di credito professionale nei confronti di quest’ultimo.

Il Tribunale si pronunciava con una prima sentenza non definitiva con cui veniva accertato in punto di an debeatur il diritto di credito professionale de quo, e con una successiva sentenza definitiva, resa nei confronti di Mevia in qualità di erede di Sempronio, deceduto nel corso del giudizio di primo grado, con cui veniva quantificato il credito in Euro 75.548,39 in capo al dott. Tizio ed accertato, invece, negativamente, sempre in punto di quantum, per la dott.ssa Caia.

La Corte d’appello, in riforma delle due suindicate sentenze, dichiarava nulli, poiché in violazione del divieto di patti successori ex art. 458 c.c., gli accordi intercorsi tra gli originari attori dott. Tizio e dott.ssa Caia con Sempronio, aventi ad oggetto prestazioni professionali mediche ed assistenziali svolte dai primi in favore del secondo, in corrispettivo all’assegnazione di beni facenti parte della sua futura successione.

Per tale ragione, rigettava la domanda di condanna al pagamento delle prestazioni degli attori in favore di Sempronio.

A questo riguardo, il Tribunale aveva ritenuto che l’eccezione di nullità ex art. 458 c.c., sollevata in comparsa conclusionale dal convenuto, fosse inammissibile perché tardiva, e comunque infondata.

Sulla base di dichiarazioni rese in sede di interrogatorio formale da parte di Tizio, nonché sulla scorta del testamento di Sempronio, acquisito nel giudizio d’appello, che disponeva un lascito testamentario in favore di Tizio e Caia, i giudici di secondo grado hanno ritenuto sussistere tra il de cuius e Tizio e Caia “non una generica promessa, o un’ancor più generica aspettativa”, ma “un preciso accordo per effetto del quale l’attuale appellante Tizio (…) si impegnava ad effettuare determinate prestazioni professionali in favore del signor Sempronio e questi a sua volta si impegnava all’attribuzione ai signori Tizio e Caia di determinati cespiti immobiliari in sede successoria”. Secondo la Corte d’appello, il fatto che Tizio avesse eseguito le prestazioni promesse senza pretendere alcun compenso, contando invece sulle attribuzioni testamentarie promesse di cui avrebbe poi beneficiato alla morte di Sempronio, rendeva più che evidente la vincolatività dell’accordo concluso tra le parti: vincolatività che, proprio in ragione della futura sistemazione successoria, il legislatore ha tutelato con il divieto di cui all’art. 458 c.c..

IL RICORSO PER CASSAZIONE E L’ORDINANZA.

Avverso la sentenza di secondo grado veniva proposto ricorso per Cassazione, per quanto qui d’interesse, sulla base dei seguenti motivi.

Il dott. Tizio deduceva, in riferimento all’art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c., la violazione o falsa applicazione degli artt. 2700, 2702, 2730 e 2738 c.c., in quanto la Corte d’appello aveva errato, secondo il ricorrente, nell’aver posto a fondamento del giudizio sull’esistenza del patto successorio il testamento di Sempronio, dal momento che questo era la controparte del giudizio.

Secondo Tizio, infatti, l’avvio del giudizio era rivolto ad ottenere il corrispettivo di un contratto di prestazione d’opera professionale e non “quello di ottenere l’adempimento di un patto successorio. Il rigetto avrebbe avuto fondamento”, secondo il ricorrente, “se effettivamente egli avesse agito in giudizio al fine di ottenere i beni che il convenuto gli avrebbe promesso, in violazione dell’art. 458 c.c..”.

Tizio, avendo promosso il giudizio nei confronti di Sempronio quando quest’ultimo era ancora in vita, mirava ad ottenere la condanna al pagamento delle prestazioni professionali dallo stesso svolte.

Inoltre, il ricorrente deduceva, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione o falsa applicazione dell’art. 458 c.c. dal momento che “il contenuto degli accordi inter partes, come emergente dalle risultanze probatorie di causa, non sarebbe riconducibile alla nozione normativa di patto successorio”. 

La Corte di cassazione accoglieva il ricorso ritenendolo fondato.

Secondo gli ermellini, la ratio decidendi della sentenza poggiava sulle dichiarazioni rese dal dott. Tizio in sede di interrogatorio formale, che la Corte d’appello aveva interpretato nel senso che vi fosse “un ben preciso accordo per effetto del quale l’attuale appellante Tizio … si impegnava ad effettuare determinate prestazioni professionali in favore di Sempronio e questo a sua volta si impegnava all’attribuzione ai signori Tizio e Caia di determinati cespiti immobiliari in sede successoria”. Tale interpretazione negoziale sarebbe stata confermata, secondo i giudici di secondo grado, dal comportamento delle parti dal momento che, per un verso il dott. Tizio effettivamente non pretese alcun corrispettivo immediato per le sue prestazioni professionali e, per l’altro verso, Sempronio effettivamente dispose nel proprio testamento a favore dei signori Tizio e Caia, lasciando loro un immobile con garage.

Tuttavia, proseguono gli Ermellini,

l’errore di diritto su cui la Corte d’appello è incorsa risiede nell’aver falsamente applicato l’art. 458 c.c., sussumendo nella fattispecie astratta del patto successorio dichiarazioni meramente verbali, prive di qualunque specificazione in ordine alla individuazione dei cespiti a cui le stesse si riferivano. Secondo la Corte di cassazione, in tal modo, i giudici di secondo grado avrebbero ignorato l’insegnamento di un principio già stabilito dalla Suprema Corte con sentenza n. 5870/2000 “alla cui stregua è da escludere l’esistenza di un patto successorio quanto tra le parti non sia intervenuta alcuna convenzione, e la persona nella cui eredità si spera abbia solo manifestato verbalmente, all’interessato o a terzi, l’intenzione di disporre dei suoi beni in un determinato modo, atteso che tale mera promessa verbale non crea alcun vincolo giuridico e non è quindi idonea a limitare la piena liberà del testatore che è oggetto di tutela legislativa”.

Inoltre, ricorda la Corte di legittimità, richiamando una sentenza non più recente (Cass. n. 2680/1969), che “la promessa di istituire erede il prestatore d’opera in corrispettivo della sua attività – ove non risulti attuata mediante convenzione avente i requisiti di sostanza e di forma di un patto successorio, ma sia limitata ad una mera intenzione manifestata dal datore di lavoro – non costituisce menomazione della libertà testamentaria e non rientra, quindi, nel divieto di cui al citato art. 458 c.c...

Alla luce di quanto esposto, la Corte di cassazione accoglieva il ricorso, cassava la sentenza impugnata e rinviava alla Corte d’appello, in altra composizione.

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