Le Sezioni Unite sull’assegno di divorzio: riesumata la solidarietà postconiugale in ossequio a principi costituzionali e dell’Unione Europea

Il clamore mediatico con cui è stata accolta in questi giorni la decisione Cass. SU n° 18287/2018 non può certo stupire.
Per quasi trent’anni, e cioè a partire dalla pronuncia delle Sezioni Unite n° 11490/90, la giurisprudenza aveva riconosciuto il diritto del coniuge che non percepisse (e non fosse in grado di percepire) redditi sufficienti a conservargli il tenore di vita goduto durante il matrimonio a ricevere dall’altro un assegno di mantenimento.
Riconosciuto il diritto all’assegno, ne veniva stabilito il quantum sulla base della “valutazione ponderata e bilaterale” dei criteri stabiliti dall’art 5 l. div..
Questo monolitico orientamento si era frantumato in un sol colpo quando, 14 mesi fa, la Prima Sezione della Corte, con la sentenza n° 11504/2017, aveva escluso che potessero sopravvivere obblighi di solidarietà commisurati al tenore di vita di un matrimonio ormai dissolto, stabilendo che presupposto dell’assegno potesse essere solo una situazione di non autosufficienza economica del coniuge più debole.
Alla decisione del maggio 2017 si era uniformata la successiva giurisprudenza della Suprema Corte, mentre la dottrina aveva espresso critiche molto severe e la giurisprudenza di merito aveva aderito al nuovo orientamento con molta cautela e non pochi temperamenti.
Il Tribunale di Udine, con sentenza 1° giugno 2017, se ne era discostato con fermezza, mentre altri Tribunali (es. Treviso) e Corti (es. Venezia) ne avevano preso le distanze, evidenziando come un diritto all’assegno ancorato al mancato raggiungimento dell’autosufficienza economica si traducesse  nell’ingiusto sacrificio di ogni aspettativa di riconoscimento e remunerazione per quei coniugi che avevano rinunciato o limitato le proprie prospettive professionali per dedicarsi alla famiglia.
In proposito si vedano: https://www.avvocatipersonefamiglie.it/notizie/mantenimento-del-coniuge/il-tribunale-di-treviso-indica-una-terza-via-per-l-assegno-di-divorzio-ed-equipara-il-revirement-allo-ius-superveniens/ e https://www.avvocatipersonefamiglie.it/notizie/mantenimento-del-coniuge/assegno-di-divorzio-la-corte-dappello-di-venezia-prende-le-distanze-dal-nuovo-orientamento/
E’ fuor di dubbio che alcuni provvedimenti assunti in ossequio al nuovo orientamento avessero fortemente penalizzato soprattutto i coniugi che avevano profuso il loro impegno in seno alla famiglia per lunga durata temporale, rimanendo privi di qualsiasi sostegno a seguito del fallimento della loro unione coniugale.
Opportunamente, dunque, anche in considerazione della sua particolare rilevanza sociale, è stata rimessa alle Sezioni Unite l’interpretazione dell’art 5 l. divorzio con riguardo ad una fattispecie particolarmente emblematica.
Una signora dotata di elevati redditi propri e di un cospicuo patrimonio aveva ottenuto il riconoscimento di un assegno di rilevante entità (€ 4.000 mensili) dal Tribunale di Reggio Emilia, che si era poi vista “cancellare”, addirittura con condanna alla restituzione delle somme medio tempore percepite, dalla Corte d’Appello di Bologna, che si era adeguata al nuovo indirizzo giurisprudenziale.
Quanto pesanti fossero le conseguenze pratiche discendenti dalle due diverse impostazioni teoriche era, dunque, ben evidente nel caso esaminato dalle Sezioni Unite Corte.
La sentenza in esame, con magistrale semplicità e chiarezza, ma anche con un pregevole sforzo di completezza, ha ripercorso l’evoluzione legislativa in materia di assegno di divorzio (art. 5 legge 898 del 1970 e sua modifica con legge 74 del 1987) e gli orientamenti giurisprudenziali che si sono susseguiti, per soffermarsi, poi, in particolare su quello di cui alla decisione citata delle Sezioni Unite del 1990 e su quello della sentenza di maggio 2017.
Le Sezioni Unite hanno ritenuto che dovesse essere senz’altro superato il primo orientamento, condividendo la preoccupazione, espressa dalla dottrina e dagli operatori del diritto, che il parametro del tenore di vita potesse favorire una deprecabile deresponsabilizzazione del coniuge richiedente e radicare rendite di posizione ingiustificabili, perché disancorate dalla valutazione del contributo dato dall’ex coniuge debole alla formazione del patrimonio comune o dell’atro.
Ma esse hanno criticato con fermezza anche il più recente orientamento, colpevole di una lettura abrogatrice della prima parte dell’art. 5 comma 6, “in quanto l’opzione ermeneutica prescelta è fondata sul rilievo nettamente preminente, se non esclusivo, del criterio attributivo dell’assegno”.
Secondo la sentenza in esame, ancorando il riconoscimento dell’assegno al mancato raggiungimento dell’autosufficienza economica, la sentenza n. 11504/2017 ha introdotto un parametro molto vago (non esiste infatti una definizione inequivoca di autosufficienza economica), ma ha anche misconosciuto il rilievo del criterio compensativo e perequativo pure considerati, insieme a quello risarcitorio, dall’art.5 l. div. ai fini della determinazione dell’assegno di divorzio.
Il mancato riconoscimento della funzione perequativa e di quella compensativa si traduce, per la Suprema Corte, in una lesione dei principi espressi dagli articoli 2, 3 e 29 della Carta Costituzionale, alla luce dei quali si deve ritenere che la solidarietà sopravviva alla pronuncia che ha fatto venir meno lo status coniugale:
lo scioglimento del vincolo incide sullo status, ma non cancella tutti gli effetti e le conseguenze delle scelte e delle modalità di realizzazione della vita familiare anche dopo lo scioglimento del vincolo riguardante lo status”.
Il rispetto dei principi costituzionali richiede di abbandonare il metodo bifasico inaugurato dalle Sezioni Unite nel 1990 implicante la distinzione di un criterio attributivo dell’assegno (l’accertata impossibilità di conservazione del tenore di vita) da un complesso di criteri determinativi della sua misura (contributo alla realizzazione del patrimonio, durata del matrimonio, ragioni della disgregazione familiare…).
Per le Sezioni Unite la valutazione bifasica, infatti, lascia irrisolto il problema di individuazione del parametro di adeguatezza dei mezzi che giustifica la corresponsione dell’assegno.
Il metodo corretto è la simultanea valutazione dell’adeguatezza dei mezzi rispetto a tutti i parametri indicati dall’articolo 5 l. div: condizioni economico patrimoniali delle parti, contributo dato alla vita familiare, ragioni della decisione, durata del matrimonio.
Infatti, “l’eliminazione della rigida distinzione tra criterio attributivo e criteri determinativi dell’assegno di divorzio e la conseguente inclusione, nell’accertamento cui il giudice è tenuto, di tutti gli indicatori contenuti nell’articolo 5, 6 in posizione equiordinata, consente, in conclusione, senza togliere rilevanza alla comparizione della situazione economica e patrimoniale delle parti, di escludere i rischi di ingiustificato arricchimento derivanti dall’adozione di tale valutazione comparativa in via prevalente ed esclusiva,  ma nello stesso tempo assicura tutela in chiave perequativa alle situazioni molto frequenti caratterizzate da una sensibile disparità di condizioni economiche e patrimoniali ancorché non dettate dalla radicale mancanza di autosufficienza economica, ma piuttosto da un dislivello reddituale conseguente alle comuni determinazioni assunte dalle parti nella conduzione della vita familiare”.


Il giudice, dunque, ai fini del riconoscimento dell’assegno, previo esperimento di un’attività istruttoria importante ed impegnativa, dovrà verificare se l’eventuale disparità di situazione economico-patrimoniale tra gli ex coniugi al momento della rottura coniugale derivi dalle scelte della conduzione della vita familiare tra loro condivise e sia eventualmente frutto del “… sacrificio delle aspettative professionali e reddituali di una delle parti in funzione dell’assunzione di un ruolo trainante endofamiliare…”, valutando altresì la durata del matrimonio e l’età del richiedente.


Solo mediante una puntuale ricomposizione del profilo soggettivo del richiedente che non trascuri l’incidenza della relazione matrimoniale sulla condizione attuale, la valutazione di adeguatezza può ritenersi effettivamente fondata sul principio di solidarietà che, come illustrato, poggia sul cardine costituzionale fondato della pari dignità dei coniugi (artt.2,3,29 Cost.)”.
La decisione delle Sezioni Unite, pertanto, riconosce particolare rilievo alle scelte ed ai ruoli assunti dai coniugi nell’economia della famiglia, sulla base dei quali si sono impostati il matrimonio e la vita di quest’ultima, individuando un “criterio composito” fondato sui principi costituzionali di pari dignità di solidarietà “che permeano l’unione matrimoniale anche dopo lo scioglimento del vincolo”.
In conclusione, abbandonata la “bifasicità” che caratterizzava il suo pregresso orientamento, la Corte ha forgiato un criterio attributivo/determinativo unitario, ma composito, in base al quale

“…all’assegno di divorzio deve attribuirsi una funzione assistenziale e, in pari misura compensativa e perequativa”, poiché “il parametro dell’adeguatezza contiene in sé una funzione equilibratrice e non solo assistenziale-alimentare”.


La Corte ha ribadito, a scanso di equivoci, che la funzione equilibratrice dell’assegno non è volta alla ricostituzione del tenore di vita goduto in costanza di matrimonio, bensì al riconoscimento del ruolo e del contributo fornito dall’ex coniuge economicamente più debole alla realizzazione della situazione attuale delle parti, così riequilibrando una situazione di svantaggio determinata dalle scelte di vita sulle quali i coniugi hanno fondato il ménage familiare.
Infine, secondo le Sezioni Unite, “alla pluralità di modelli familiari consegue una molteplicità di situazioni personali conseguenti allo scioglimento del vincolo…”, per cui il nuovo criterio “…per la sua natura composita ha l’elasticità necessaria per adeguarsi alla fattispecie concrete perché, a differenza di quelli che si sono in precedenza esaminati non ha quelle caratteristiche di generalità ed astrattezza variamente criticate in dottrina”.
L’auspicio è che ora si consolidi una giurisprudenza capace di dare un significato concreto a quell’art. 29 della Costituzione che già 60 anni fa enunciava il principio dell’eguaglianza morale e giuridica dei coniugi, oltre che all’art 3, che prescriveva la pari dignità di tutti i cittadini.

 

 

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