Sull’uso del “cognome maritale” dopo il divorzio

23 FEBBRAIO 2022 | Persone e processo

avv. Chiara Curculescu

IL CASO. Con sentenza pubblicata in data 23.6.2020 la Corte d’appello di Trieste rigettava l’impugnazione proposta dalla ricorrente avverso la sentenza non definitiva del Tribunale di Trieste che, oltre a dichiarare lo scioglimento del matrimonio, le negava la possibilità di conservare il cognome del marito in aggiunta al proprio.

Avverso tale pronuncia la ex moglie proponeva ricorso per Cassazione sulla base di un unico motivo, con il quale lamentava l’omessa considerazione del fatto che il cognome dell’ex marito, dopo oltre 25 anni di matrimonio, fosse ormai diventato parte della propria identità personale e del fatto che nessun pregiudizio potesse derivare da tale utilizzo al marito, nonché la mancata ammissione della prova testimoniale richiesta.

LA DECISIONE. La Suprema Corte di Cassazione, con ordinanza n. 654/2022 pubblicata in data 11.1.2022, ha dichiarato inammissibile il ricorso, perché sotto l’apparente denuncia del vizio di violazione di legge sollecita un riesame del merito non consentito: in ogni caso i fatti risultano scrutinati dalla Corte territoriale con applicazione dei principi di diritto consolidati in sede di legittimità.

La Suprema Corte ha, anzitutto, ribadito che il mantenimento del cognome del marito costituisce una deroga al principio, emergente dall’art. 143 bis c.c., dell’aggiunta del cognome quale effetto temporalmente circoscritto alla perduranza del matrimonio. Dall’art. 5, comma 3, della legge n. 898/1970 (“Il tribunale, con la sentenza con cui procede allo scioglimento o alla cessazione degli effetti civili del matrimonio, può autorizzare la donna che ne faccia richiesta a conservare il cognome del marito aggiunto al proprio quando sussista un interesse suo o dei figli”) si deduce che di regola non è ammissibile conservare il cognome del marito dopo la pronuncia di divorzio, salvo che il giudice del merito non disponga diversamente. E tale deroga richiede in ogni caso l’allegazione e dimostrazione di un interesse meritevole di tutela dell’ex coniuge o dei figli.

Non può escludersi, infatti, che il perdurante uso del cognome maritale possa costituire un pregiudizio per il coniuge che non vi acconsenta e che intenda ricreare, esercitando un diritto fondamentale ex art. 8 CEDU, un nuovo nucleo familiare.

Secondo la Cassazione “la possibilità di consentire con effetti di carattere giuridico-formali la conservazione del cognome del marito, accanto al proprio, dopo il divorzio, è da considerarsi una ipotesi straordinaria affidata alla decisione discrezionale del giudice di merito secondo criteri di valutazione propri di una clausola generale, ma che non possono coincidere con il mero desiderio di conservare come tratto identitario il riferimento a una relazione familiare ormai chiusa quanto alla sua rilevanza giuridica”. La possibilità di utilizzare il cognome dell’ex marito è pertanto rimessa alla discrezionalità del giudice di merito.

Nel caso specifico, la ex moglie non aveva dedotto con la propria domanda alcun interesse meritevole di tutela (non potendo dirsi tale quello derivante dalla mera notorietà del coniuge), né aveva dato prova che il cognome maritale costituisse espressione della propria identità personale. Quanto alla richiesta prova testimoniale, evidenzia la Corte, i capitoli risultavano generici e non finalizzati a dimostrare quell’interesse eccezionale e meritevole di tutela che è necessario presupposto per l’autorizzazione all’utilizzo del cognome del marito dopo la pronuncia di divorzio.

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