Le motivazioni personali della scelta religiosa, discriminata nel Paese d’origine, non incidono sulla credibilità della narrazione del richiedente protezione

24 SETTEMBRE 2020 | Varie | Persone e processo

La Corte di cassazione con l’ordinanza n. 15219/2020 ha affermato un importante principio di diritto: il carattere di laicità dello Stato italiano comporta che la valutazione di merito del giudice ordinario finalizzata ad apprezzare la credibilità della narrazione di chi chiede la protezione internazionale o umanitaria per motivi di discriminazione religiosa non può estendersi fino a sindacare il percorso individuale seguito dal richiedente per arrivare ad abbracciare un determinato credo religioso. Quando poi nel Paese di origine (nel caso di specie la Cina) vi è un contesto di discriminazione verso chi professa una certa fede religiosa, l’attendibilità della storia personale riferita da chi richiede la protezione non può essere esclusa valorizzando il fatto che il richiedente, nonostante la discriminazione, abbia comunque scelto di professare quel credo o di farne proselitismo: tali attività rientrano, infatti, nell’ambito della libera esplicazione della personalità umana.
Sulla base di questi principi il giudice di legittimità ha cassato con rinvio il decreto con cui il Tribunale di Milano aveva respinto il ricorso proposto avverso un provvedimento reiettivo della Commissione territoriale per il riconoscimento della protezione internazionale.
La Cassazione, nella prima parte della decisione, ha ritenuto infondato il primo motivo di ricorso, per difetto di specificità della censura. 
La ricorrente aveva lamentato di non essere stata sentita personalmente dal Tribunale, che avrebbe disatteso una sua specifica istanza di audizione, nonostante l’indisponibilità della videoregistrazione del colloquio svoltosi innanzi la Commissione territoriale. La Corte evidenzia l’insussistenza di idonee deduzioni a supporto del motivo di ricorso: l’udienza era stata svolta e la ricorrente non aveva dedotto di essere stata presente ad essa, né di aver in quella sede dichiarato la propria disponibilità ad essere sentita. Né aveva dedotto che il decreto contenesse l’espressa e preventiva esclusione dell’audizione. Né aveva dichiarato di aver tempestivamente dedotto l’eccezione di nullità del decreto, né aveva indicato gli elementi in forza dei quali il suo ascolto avrebbe, in concreto, potuto condurre il giudice di merito ad adottare una decisione diversa da quella oggetto di impugnazione. 

Il secondo motivo di ricorso è stato, invece, ritenuto fondato in quanto, per la Cassazione, il Tribunale di Milano aveva erroneamente esercitato il potere-dovere di cooperazione istruttoria, dando luogo ad un vizio di motivazione “perplessa ed incomprensibile”.

Il Tribunale non aveva ritenuto credibile la storia personale della ricorrente che, avanti la Commissione territoriale, aveva dichiarato di aver aderito alla chiesa cristiana di Yin Xin Chien in un momento di crisi personale determinato dalla mancata assegnazione di una posizione lavorativa e di contrasti con i colleghi.
Il giudice di merito, pur avendo dato atto del generale contesto di repressione esistente in Cina per il fenomeno religioso e, in particolare, per le c.d. “chiese domestiche” (ossia quelle non autorizzate dal governo), ha ritenuto che il motivo della conversione non fosse idoneo a giustificare una “scelta tanto significativa e così pericolosa”. 
Per la Cassazione in questo modo il Tribunale ha “finito per sindacare la serietà della scelta religiosa dell’individuo, senza tener conto che simile apprezzamento non è certamente devoluto all’autorità giudiziaria di uno stato laico”.  Né la Corte ha condiviso la motivazione del giudice di merito, per il quale proprio la pericolosità della scelta religiosa della richiedente non avrebbe consentito di ritenere credibile il percorso di avvicinamento alla religione. Per il giudice di legittimità, invece, “una volta verificata la sussistenza di una condizione di pericolo per gli adepti di una determinata professione religiosa, è su questo fatto, e non sulla serietà delle convinzioni individuali dei fedeli, che va incentrato il sindacato del giudice di merito”. Per la Suprema Corte l’illogicità intrinseca del ragionamento del Tribunale è evidente, anche perché la conseguenza ultima sarebbe “la negazione del diritto a resistere ad una condizione oggettiva di ingiustizia”.

Il Tribunale di Milano, estendendo il proprio sindacato sino alla valutazione della serietà della scelta di fede fatta dalla richiedente, ha, quindi, “travalicato i limiti esterni della giurisdizione, che deve concernere i fatti, e non convinzioni personali”.

Infine, la Corte censura la decisione del giudice milanese anche nella parte in cui ha ritenuto non credibile la ricorrente quando ha affermato che, dopo essersi accostata alla nuova fede, avrebbe chiesto scusa ai colleghi che le avevano in precedenza fatto del male. Anche il tal caso il Tribunale, errando, ha sindacato la scelta religiosa dell’interessata e valorizzato in senso negativo (ai fini della credibilità) una condotta di perdono che, peraltro, costituisce uno dei principi cardine della religione cristiana nelle sue varie articolazioni.
La Cassazione sottolinea che il Tribunale “non ha valorizzato i fatti salienti della storia personale della richiedente, ma la profondità e serietà della sua scelta religiosa, adottando formule logiche oggettivamente non coerenti e irriducibilmente contraddittorie”. 
Sottolinea poi che la motivazione del giudice di merito deve, peraltro, “indicare il percorso logico-argomentativo seguito e consentire all’interessato di comprendere le ragioni per le quali il predetto del giudice è pervenuto alla conclusione in concreto individuata”: questo minimo costituzionale mancava nel decreto giunto all’attenzione della Corte di Cassazione che, quindi, doveva essere cassato, con rinvio della causa al Tribunale di Milano in diversa composizione che dovrà, ovviamente, uniformarsi al principio di diritto affermato nella sentenza anzidetta.

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