La legalità: evoluzione del concetto tra forma e sostanza

di avv. Alessandra Buzzavo

 

Se volessimo raffigurare il principio di legalità si potrebbe pensare al brocardo “la legge è uguale per tutti” che spicca nelle aule dei nostri tribunali, o al corollario “tutti i cittadini sono uguali davanti alla legge”.

Il principio di legalità comporta, infatti, che tutti gli organi dello Stato non hanno altri poteri se non quelli loro conferiti dalla legge e sono tenuti ad esercitarli in conformità ai contenuti prescritti da essa.

Cesare Beccaria (1738-1794) scriveva che “le leggi sono le condizioni colle quali uomini indipendenti ed isolati si uniscono in società, stanchi di vivere in un continuo stato di guerra e di godere una libertà resa inutile dall’incertezza di conservarla”. Si può, infatti, affermare che senza legalità non c’è Stato, non c’è comunità civile. E la legalità risponde anche ad un bisogno civile di una comunità fondata sul rispetto dei diritti dell’individuo, sulla solidarietà sociale, sul dialogo, sul rispetto e sulla parità e non già sulla forza, sulla paura, sul sospetto, sulla minaccia.

In tale contesto, la scuola deve primariamente educare alla cultura della legalità ed all’interno della scuola deve svilupparsi una convivenza basata sulla legalità, che significa rispetto delle regole, formazione di un bagaglio di valori, quali la democrazia, il rispetto reciproco, il dialogo, il confronto, la partecipazione, la solidarietà, l’uguaglianza, e toglie l’individuo da una condizione di rassegnazione, tolleranza, inerzia, per risvegliare in ciascuno la cultura della legalità che rende gli uomini liberi.

Solo le leggi scongiurano l’arbitrio ed assicurano un buongoverno: sin dall’età classica si distingueva il governante cattivo e corrotto che esercitava il potere in modo dispotico ed impulsivo, per interesse personale, da quello corretto e buono che agiva nel rispetto di norme prestabilite che costituivano un limite alla volontà autocratica e assoluta.

Il principio di legalità ha trovato la sua realizzazione più compiuta nell’Ottocento con lo Stato di diritto.

Nel nostro ordinamento, se da un lato i poteri giudiziario ed esecutivo sono subordinati al rispetto della legge, anche il potere legislativo attribuito al Parlamento deve ‘sottostare’ ad una legge superiore, la Costituzione: così lo Stato di diritto diviene Stato costituzionale, in cui non soltanto la Costituzione sancisce i  principi fondamentali del patto di cittadinanza, i diritti individuali ed il rapporto tra libertà e potere, ma vi è un organo, la Corte Costituzionale, incaricato di controllare che le leggi non violino tali principi, diritti e libertà. In tal modo il principio di legalità si è esteso e si è arricchito: un concetto di legalità allargata che si impone anche al legislatore, e non solo ai poteri di governo e di amministrazione della res publica.

Legalità, quindi, legge e, quindi, diritto… ma quale diritto?

La storia del pensiero giuridico occidentale è caratterizzata dalla distinzione tra due specie di diritto: il diritto naturale e il diritto positivo.

Il diritto naturale prende il suo significato dal termine ‘natura’ intesa prevalentemente come l’insieme degli enti che hanno in sé stessi il principio del loro movimento: nascono, si sviluppano in conformità a leggi non poste né modificabili dall’uomo (Aristotele, “Metafisica”). A questi enti si contrappongono quelli prodotti dal fare dell’uomo. Vi sono enti che continueranno esistere anche quando l’uomo non esisterà più (come il sole, la terra, le stelle); ad essi sono contrapposti quegli enti che esistono solo in quanto esiste l’uomo che li ha prodotti.  Due quindi gli universi: uno prodotto dall’uomo ed uno che l’uomo trova già pronto, al di fuori di sé ed indipendentemente da sé, alle cui leggi egli dovrebbe sottostare.

Quando i Greci si posero il problema del diritto, si chiesero se il diritto era per natura o per convenzione: vi erano delle cose che apparivano pacificamente naturali (il sole, il mare, le stelle) ed altre cose che apparivano pacificamente artificiali (le costruzioni ed i prodotti dell’uomo), ma non era così chiaro a quale delle due categorie appartenessero il diritto e più in generale le regole della convivenza. Vi erano infatti delle prassi, delle regole consuetudinarie, degli usi e costumi, le c.d. regole sociali che sembravano appartenere all’ordine della natura diversamente dalle regole poste da un legislatore, che erano ai loro occhi senza dubbio artificiali.

Con l’avvento del Cristianesimo e con la visione religiosa del mondo e dell’uomo che ne è conseguita, con la natura considerata come il prodotto del Dio creatore, il diritto naturale diventa il diritto rivelato da Dio nel cuore degli uomini e nei testi sacri.

Con l’inizio dell’età moderna, allorché per natura si intende l’universo regolato dalla legge universale e quindi non modificabile dall’uomo, il diritto naturale viene interpretato come l’insieme delle regole di condotta che provengono dall’ordine naturale. Il diritto naturale rappresenta la raffigurazione di un diritto non prodotto dall’uomo e che, proprio per la sua pretesa di essere sottratto ai mutamenti della storia, pretende di avere validità universale, a differenza del diritto positivo.

La più antica e celebre distinzione tra diritto naturale e diritto positivo è di Aristotele: “del giusto politico ci sono due specie, quella naturale e quella legale. E’ naturale il giusto che ha dovunque la stessa potenza e non dipende dal fatto che venga o non venga riconosciuto; legale, invece, è quello che originariamente è del tutto indifferente che sia in un modo piuttosto che in un altro, ma che non è più indifferente, una volta che è stato stabilito” (Eth. Nic.). Ecco quindi che, secondo Aristotele, il diritto naturale vale dappertutto perché la sua validità e la sua efficacia sono universali, e vale indipendentemente dal fatto che sia o non sia riconosciuto.

Il diritto positivo, creato dall’uomo, è invece l’antitesi in quanto varia da luogo a luogo e da tempo a tempo (si pensi alle legislazioni dei singoli Stati od al mutare delle norme all’interno dello stesso ordinamento in ragione del progresso sociale o delle mutate condizioni storiche), ed in più racchiude l’ampia sfera delle azioni indifferenti che sono libere, ma diventano obbligatorie o proibite se stabilito da una legge dello Stato.

Dal contrasto tra le due specie di diritto deriva il contrasto tra le dottrine che hanno preso il nome di giusnaturalismo e positivismo giuridico. Secondo la prima corrente di pensiero (i) esistono tanto il diritto naturale quanto il diritto positivo; (ii) il diritto naturale è superiore al diritto positivo. Il positivismo giuridico, invece, non ammette l’esistenza del diritto naturale accanto al diritto positivo e sostiene che esiste solo il secondo. Inoltre, per il positivismo giuridico, è diritto soltanto l’insieme delle norme di un ordinamento valido ed efficace, e ciò che manca al diritto naturale è l’effettività della sanzione (il diritto naturale non è effettivo perché è disarmato).

Thomas Hobbes (1588-1679), antesignano del giuspositivismo, in uno degli scritti degli ultimi anni “A dialogue between a philosopher and a student of the common laws of England” (1666), fa dire ad uno dei due interlocutori, il Filosofo, contro l’altro interlocutore che difende il diritto comune inglese che pretende di esser fondato sulla ragione, “Auctoritas non veritas facit legem”. Poco dopo lo stesso Filosofo così definisce il diritto: “Diritto è ciò che colui o coloro i quali detengono il potere sovrano ordinano ai suoi o ai loro sudditi, proclamando in pubblico e in chiare parole quali cose essi possono e quali non possono fare”.

In sostanza ciò che contraddistingue le norme giuridiche da quelle morali e sociali è la loro coercibilità.

Ma il diritto naturale e il diritto positivo sono davvero opposti?

C’è chi ha osservato che l’idea della scissione tra natura e diritto, che condiziona lo sviluppo della scienza giuridica moderna, nasce dall’equivoco razionalistico che insidia ogni scienza non adeguatamente sorretta dalla consapevolezza filosofica della propria convenzionalità.

La consapevolezza della differenza tra “stato di natura” e “natura” potrebbe venir meno con il risultato aberrante di far ritenere la società e lo stato di diritto come scissi, opposti, contrari alla natura dell’uomo (Francesco Gentile, “Intelligenza politica e ragion di stato”). E così questo Autore ci porta a riflettere: “Quando ci si chiede perché obbedire ad una norma, e in un giorno mille volte capita di dover rispondere a tale quesito, implicitamente poniamo il problema del perché solo rapporti regolati possono dirsi autenticamente umani. Sicché, quando obbediamo ad una norma, e Dio sa quante sono le norme a cui ogni giorno obbediamo, in modo implicito, magari inconscio ma necessario, riconosciamo che conviene alla nostra natura di uomini il regolare i rapporti reciproci. La connessione tra natura e diritto, tra essere e dover essere, balza così agli occhi… che se poi analizzassimo il modo in cui si attua il regolamento dei rapporti mediante la norma, potremmo riconoscere abbastanza agevolmente come il dovuto sia ciò che hanno in comune soggetti diversi o, più esattamente, come sia ciò che è comune a costituire il fattore di comunicazione e quindi di rapporto e quindi di regola fra individualità diverse. Non è per caso, d’altronde, che nel linguaggio corrente gli aggettivi ‘naturale’, ‘normale’ e ‘comune’ vengono usati come sinonimi, poiché è la natura che gli uomini hanno in comune e che costituisce il fondamento di ogni loro reciproco obbligo, e, quindi, di ogni norma(Francesco Gentile, “Intelligenza politica e ragion di stato”).

Il rapporto dialettico tra diritto naturale e diritto positivo è sempre stato presente nella storia del diritto ed il processo di Norimberga ne è testimonianza. Da un lato, la difesa degli imputati che si dichiararono innocenti per aver eseguito ordini ed osservato norme “formalmente” legittimi, dall’altro, l’accusa delle nazioni vincitrici che imputò ai gerarchi nazisti la violazione dei principi fondamentali del diritto naturale, principi che andavano rispettati indipendentemente dagli ordini ricevuti o dalle disposizioni normative vigenti in allora. E ciò in quanto l’ordinamento giuridico della Germania nazista poteva essere ‘valido’ ed ‘efficace’ dal punto di vista formale e normativo, ma era ingiusto ed illegittimo, perché violava i più elementari principi della convivenza tra gli uomini cioè il diritto naturale.

E così, da un lato, il vivere civile deve necessariamente prendere origine dal diritto naturale, e, dall’altro, quest’ultimo non può e non deve escludere il diritto positivo, secondo la formazione di un diritto che non può vedere la natura opposta all’uomo, ma deve formarsi in un processo coerente alle stesse regole ed agli stessi principi su cui si fonda da sempre.  Ed a voler considerare il diritto positivo come scisso ed opposto a quello della natura dell’uomo, c’è anche il collegato rischio della ricerca del potere ai fini dell’obbedienza alle leggi.

La partecipazione dell’individuo alla formazione delle regole non è, infatti, propria di tutti gli ordinamenti.

Nel c.d. totalitarismo l’individuo non esiste o meglio è annientato. Il termine ‘totalitarismo’ è formato dal latino totus (intero) e tre suffissi: -itas per formare nomi e quindi totalitas in latino (totalità); suffisso -aris per formare aggettivi e quindi totalitario; e suffisso -ismum che si riferisce all’idea di appartenenza a un gruppo o a un sistema di pensiero. In quanto sistema tendente alla totalità, si concretizza in un sistema politico in cui tutti i poteri sono concentrati in un unico partito o persona. Esempi nella storia ne sono stati il nazismo e lo stalinismo. Il punto centrale della dottrina fascista era che “lo Stato è un assoluto, davanti al quale individui e gruppi sono il relativo”.

Hannah Arendt in “Le origini del totalitarismo” (1951) racconta di come “iniziarono distruggendo la personalità giuridica: migliaia di individui furono posti al di fuori della legge, privandoli dei diritti di cittadinanza e di proprietà. In seguito giustificarono la loro deportazione come una misura di polizia e di custodia preventiva. Successivamente annullarono la personalità morale e la struttura relazionale che presiede alla costituzione di un senso morale... Umiliarono il corpo, calpestarono la dignità e distrussero la personalità. Il totalitarismo perseguì il potere totale e, per averlo e mantenerlo, trasformò l’uomo in una marionetta”.

Secondo la Arendt, elementi fondamentali del regime totalitario sono: (i) il ruolo del capo: la sua volontà è infallibile ed il suo potere senza confini; (ii) il ricorso alla violenza ovvero al terrore che induce tutti i cittadini a sottostare alla volontà del capo e dell’unico partito; (iii) l’annientamento dell’individuo: è distrutta qualsiasi forma di spontaneità, dignità, personalità, libertà. Inoltre il regime totalitario pone l’individuo in una condizione di isolamento assoluto, annientando la vita politica democratica, la libera comunicazione tra cittadini, che vengono estraniati dalla vita politica e dai rapporti sociali.  Il totalitarismo impone regole alla vita pubblica e a quella privata, comprese le regole di condotta etica e morale: tutto è controllato dal potere.

All’opposto la democrazia: una forma di governo in cui il potere viene esercitato dal popolo, tramite rappresentanti liberamente eletti. Democrazia deriva dal greco antico démos (popolo) e kràtos (potere) “governo del popolo”. È una forma di governo che si basa sulla sovranità popolare e garantisce ad ogni cittadino la partecipazione in piena uguaglianza all’esercizio del potere pubblico.

L’origine della democrazia si fa risalire alla fine del VI secolo, ove in Grecia giunse a maturazione un regime politico in cui il potere spettava a tutti i nati liberi, in un sistema caratterizzato dai principi di uguaglianza di fronte alla legge, della libertà di parola, della parità nel concorrere alle cariche pubbliche.

Con l’avvento del pensiero politico liberale, si è affermata l’idea che la forma di democrazia compatibile con lo Stato liberale che riconosce e garantisce i diritti fondamentali dell’individuo (quali l’inviolabilità personale, la libertà di opinione, di stampa, di religione e di insegnamento) fosse la democrazia rappresentativa o parlamentare, nella quale non è il popolo intero riunito in assemblea a fare le leggi, ma un gruppo di rappresentanti eletti dai cittadini cui è riconosciuto il diritto di voto.

Nei regimi non democratici il potere non è acquisito, mantenuto o perso attraverso la competizione elettorale, ma con l’uso o la minaccia dell’uso della forza. Ogni espressione di pluralismo è eliminata. L’esperienza totalitaria è spesso associata a persecuzioni, deportazioni ed esecuzioni di massa dei nemici del regime.

Di contro, le liberaldemocrazie di massa si diffondono, a cavallo della prima guerra mondiale, con l’introduzione del suffragio universale e del principio di responsabilità parlamentare dell’esecutivo. Vi è il progressivo ampliamento dello spazio per il dissenso, l’opposizione, la competizione del sistema ed il riconoscimento a livello costituzionale dei diritti civili dell’uomo, quali la libertà di pensiero e di parola, di stampa, di associazione e di riunione, la crescita dei diritti di partecipazione politica primo fra i quali il diritto di eleggere i propri rappresentanti e di essere eletti alle cariche pubbliche.

Non vi è più una sola ideologia quale mezzo di giustificazione e di attuazione del potere assoluto, ma più ideologie o dottrine politiche, tra loro diverse, che si traducono in più programmi elettorali elaborati dai partiti, così che l’elezione dei rappresentanti politici dei cittadini dipende dal risultato elettorale che è il criterio selettivo della leadership nelle democrazie.

E’ stato detto che “il metodo democratico è lo strumento istituzionale in base al quale i singoli individui ottengono il potere di decidere attraverso una competizione avente per oggetto il voto popolare” (Schumpeter, 1942).

Nelle democrazie vi è un perimetro di valori condivisi.

Tutte le costituzioni delle più avanzate democrazie riconoscono i diritti fondamentali dei cittadini: riconoscere significa ammettere l’esistenza di diritti che preesistono alla costituzione stessa dell’ordinamento.

La Costituzione italiana all’art. 2 così recita: “la Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale”.

La Costituzione francese all’art. 2 recita: “La Francia è una Repubblica indivisibile, laica, democratica e sociale. Essa assicura l'eguaglianza dinanzi alla legge a tutti i cittadini senza distinzione di origine, di razza o di religione. (…) II suo principio è: governo del popolo, dal popolo e per il popolo”.  L’art. 1 della Costituzione della Repubblica Federale Tedesca è dedicato ai diritti fondamentali e prevede che la dignità dell’uomo è intangibile e che è dovere di ogni potere statale rispettarla e proteggerla. La Costituzione del Regno di Spagna all’art. 10 fa pure riferimento alla dignità della persona ed ai diritti inviolabili ad essa inerenti.  La Costituzione Europea (Carta di Nizza) sancisce all’art. 1 che la dignità umana è inviolabile. Tutti gli ordinamenti democratici richiamano pertanto l’esistenza di diritti naturali e di diritti fondamentali, che preesistono alla costituzione dello Stato e che sono da questi tutelati.

A presidio delle singole Costituzioni e norme fondamentali proprie di ciascun ordinamento, vi è il c.d. ordine pubblico internazionale.

Secondo il diritto internazionale privato, l'ordine pubblico costituisce un limite generale al riconoscimento delle sentenze e all'applicazione del diritto straniero da parte dei giudici nazionali nell'ordinamento giuridico interno.

Il codice civile italiano del 1865, dopo aver dettato alcune regole di diritto internazionale privato, disponeva (art. 12 disp. prel.): “Nonostante le disposizioni degli articoli precedenti, in nessun caso le leggi, gli atti e le sentenze di una paese straniero, e le private disposizioni e convenzioni potranno derogare alla leggi proibitive del regno che concernano le persone, i beni o gli atti, né alle legge riguardanti in qualsiasi modo l’ordine pubblico ed il buon costume”. Di tenore pressoché identico era anche l’art.  31 delle disp. prel. al codice civile italiano del 1942.

L’art. 16 della l.n. 218/1995 (riforma del sistema italiano di diritto internazionale privato) delimita il funzionamento delle norme di diritto internazionale privato stabilendo che l’apertura a valori giuridici estranei all’ordinamento interno non può venire in contrasto con l’ordine pubblico quale insieme dei principi fondamentali fissati dal diritto internazionale comunitario, dalla Costituzione e dalle leggi statali. Il sindacato che il Giudice è chiamato a svolgere circa la verifica della compatibilità di fonti o di atti di autonomia privata o sentenze straniere, di cui si chiede l’applicazione o il riconoscimento nel nostro ordinamento, ai principi fondamentali irrinunziabili del diritto interno, è un sindacato che va svolto di caso in caso.

Secondo la giurisprudenza della Corte di Cassazione i principi di ordine pubblico si identificano nei principi fondamentali della nostra Costituzione o in quelle altre regole che, pur non trovando in essa collocazione, rispondono alle esigenze di carattere universale per tutelare i diritti fondamentali dell’uomo che informano l’intero ordinamento, in modo tale che la loro lesione si traduce in uno stravolgimento dei valori fondanti l’intero assetto ordinamentale.

In una recente sentenza di merito (Trib. Bologna, 18/10/2022, n. 2570) si è affermato in modo chiaro che con l'espressione ‘ordine pubblico internazionale’ ci si riferisce al complesso di principi fondamentali caratterizzanti l'ordinamento interno in un determinato periodo storico o fondati su esigenze di garanzia, comuni ai diversi ordinamenti, di tutela dei diritti fondamentali dell'uomo.

Le Sezioni Unite (Cass. civ., sez. un., n. 38162/2022) hanno chiarito che “in tema di riconoscimento delle sentenze straniere, l'ordine pubblico internazionale svolge sia una funzione preclusiva, quale meccanismo di salvaguardia dell'armonia interna dell'ordinamento giuridico statale di fronte all'ingresso di valori incompatibili con i suoi principi ispiratori, sia una funzione positiva, volta a favorire la diffusione dei valori tutelati, in connessione con quelli riconosciuti a livello internazionale e sovranazionale, …..”.

Nel contenzioso con la Germania sul risarcimento dei danni derivanti dalla commissione di crimini contro l’umanità nel corso della seconda guerra mondiale, la Corte di Cassazione italiana ha operato una scrupolosa ricostruzione delle evoluzioni del diritto internazionale e ha così concluso: “Tutte queste conquiste civili dell’umanità, e del nostro continente in particolare, configurano un nuovo ordine pubblico internazionale ed europeo alla cui realizzazione il nostro Paese, insieme alla Germania e alla Grecia, ha pienamente contribuito. Rispetto a questa nuova configurazione dell’ordine pubblico internazionale il dettato costituzionale italiano è non solo coerente, ma è anche diretto alla sua piena attuazione nel territorio nazionale. Il richiamo è ovviamente all’articolo 10, primo comma, della Costituzione, secondo cui l’ordinamento giuridico italiano si conforma alle norme del diritto internazionale generalmente riconosciute, e all’articolo 11, secondo cui l’Italia, oltre a ripudiare la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali, consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le nazioni. Deve quindi escludersi, alla luce dei principi costituzionali italiani e dei principi generali del diritto internazionale, che l’esecuzione in Italia di una sentenza di uno Stato estero con la quale si impone a un altro Stato estero, nella specie entrambi aderenti alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo e all’Unione europea, di risarcire le vittime (e per loro gli eredi) di gravissimi crimini di guerra, che hanno negato i loro diritti personali inviolabili e in primo luogo quello alla vita, possa porsi in contrasto con il rispetto dell’ordine pubblico italiano richiamato dalla legge n. 218 del 1995, articolo 64, comma 1, lett. g)” (Cass. civ. n. 11163/2011).

In una nota sentenza, con cui è stata ammessa, pur con alcune cautele, la riconoscibilità in Italia dei provvedimenti stranieri di condanna al risarcimento dei danni punitivi, le Sezioni Unite della Cassazione hanno anche colto l’occasione per una forte puntualizzazione in tema di ordine pubblico: “La sentenza straniera che sia applicativa di un istituto non regolato dall’ordinamento nazionale, quand’anche non ostacolata dalla disciplina europea, deve misurarsi con il portato della Costituzione e di quelle leggi che, come nervature sensibili, fibre dell’apparato sensoriale e delle parti vitali di un organismo, inverano l’ordinamento costituzionale. Se con riguardo all’ordine pubblico processuale, ferma la salvaguardia dell’effettività dei diritti fondamentali di difesa, il setaccio si è fatto più largo per rendere più agevole la circolazione dei prodotti giuridici internazionali, con riguardo all’ordine pubblico sostanziale non può dirsi altrettanto. Gli esiti armonizzanti, mediati dalle Carte sovranazionali, potranno agevolare sovente effetti innovativi, ma Costituzioni e tradizioni giuridiche con le loro diversità costituiscono un limite ancora vivo: privato di venature egoistiche, che davano loro "fiato corto", ma reso più complesso dall’intreccio con il contesto internazionale in cui lo Stato si colloca. (….) Nel contempo non ci si potrà attestare ogni volta dietro la ricerca di una piena corrispondenza tra istituti stranieri e istituti italiani… L’interrogativo è solo il seguente: se l’istituto che bussa alla porta sia in aperta contraddizione con l’intreccio di valori e norme che rilevano ai fini della delibazione(Cass., sez. un., n. 16601/2017).

Vi è quindi un paniere di valori condivisi dai paesi democratici che possono trovare ingresso nei singoli rispettivi ordinamenti nel rispetto dell’ordine pubblico internazionale che più che un blocco, deve agire come un filtro al fine di non violare valori e norme proprie di uno Stato, volti al presidio dei diritti e delle libertà fondamentali dell’individuo, a salvaguardia dei principi fondanti ciascuna nazione.

In conclusione, possiamo affermare che lo sforzo di tutti (ogni individuo, la società, la scuola, le istituzioni, …) deve mirare alla conservazione della legalità, principio cardine, affinché possano realizzarsi la libertà e la dignità di ogni persona, in un mondo che oggi più che mai deve trarre dal diritto e dal quotidiano rispetto delle regole linfa vitale.

Perché, come afferma Gustavo Zagrebelsky (in “La Giustizia come professione”): “Il mondo, il diritto non riesce a renderlo giusto, ma, senza diritto, sarebbe incommensurabilmente peggiore di quello che è”.

Ok
Questo website usa solamente cookies tecnici per il suo funzionamento. Maggiori dettagli