Bullismo e cyberbullismo, tra autodeterminazione dei minori e responsabilità degli adulti

di avv. Francesca Zanovello

 

Nell’era digitale i minori, perennemente connessi, trascorrono davanti al computer, agli smartphone o altri device gran parte del loro tempo libero. La rete web diventa occasione di sviluppo della loro personalità: una “piazza” virtuale, nella quale svolgono ogni attività di tipo tradizionale – dalle relazioni sociali agli acquisti, dall’accesso ad informazioni e contenuti, allo scambio di opinioni, foto e video – a distanza e in via telematica, spesso senza adeguata consapevolezza. A conferma, basta volgere lo sguardo al massiccio uso – talora improprio - da parte dei ragazzi di Facebook, YouTube, Twitter, Instagram, WhatsApp e altri social di cui spesso gli adulti ignorano l’esistenza.

Il tutto è reso ancor più fruibile, sul piano normativo, dall’introduzione dell’art. 2-quinquies del Codice Privacy (avvenuta con d.lgs. n. 101/2018). Il legislatore italiano – nell’esercitare il margine di discrezionalità concesso dall’art. 8 del Regolamento UE del 27 aprile 2016, n. 679 – ha deciso, infatti, di abbassare a quattordici anni l’età minima per prestare il consenso al trattamento dei propri dati personali, in relazione all'offerta diretta di servizi della società dell'informazione, scegliendo così di ridurre anche la soglia di protezione del minore proprio nel mondo digitale, dove la sua vulnerabilità è maggiore. Limite di età, tra l’altro, evanescente, considerata l’assenza di verifica di tale requisito da parte dei prestatori del servizio e la facilità di eludere tale condizione da parte dei minori, indicando una finta data di nascita (v. caso Tik Tok - Garante Privacy, provvedimento del 22 gennaio 2021, n. 20).

Proprio on line, i minori possono essere vittime di nuovi reati come il grooming (adescamento online di minorenni) o entrare in contatto con utenti fake o comunque sconosciuti, mossi dalle peggiori intenzioni, comprese quelle di nuocere agli altri attraverso il furto di dati, truffe, diffusione di notizie false e/o diffamatorie; i ragazzi possono anche essere vittima dei loro stessi comportamenti troppo disinibiti, nella divulgazione di foto e video che li riguardano, nonché bersaglio di analoghe condotte poste in essere dai coetanei. Infatti, nel mondo digitale, i minori possono passare facilmente da vittime a carnefici.

Su internet sono nati nuovi fenomeni di grande allarme sociale come il cyberbullismo che – a differenza del bullismo – si connota per l’insidia dell’anonimato sfruttata dall’aggressore, per la velocità di diffusione dei contenuti denigratori e/o offensivi, nonché per l’ampiezza degli effetti lesivi della condotta.

Tale fenomeno è stato preso in considerazione dal legislatore con la l.n. 71/2017, che, all’art. 1, comma 2, definisce, in modo alquanto articolato, come cyberbullismo: “qualsiasi forma di pressione, aggressione, molestia, ricatto, ingiuria, denigrazione, diffamazione, furto d’identità, alterazione, acquisizione illecita, manipolazione, trattamento illecito di dati personali in danno  di  minorenni, realizzata per via telematica, nonché la diffusione di contenuti on line aventi ad oggetto anche uno o più componenti della famiglia del minore il cui scopo intenzionale e predominante sia quello di isolare un minore o un gruppo di minori ponendo in atto un serio abuso, un attacco dannoso, o la loro messa in ridicolo”.

Tale legge è ispirata ad un approccio preventivo e riparatorio di matrice extrapenale, attuato attraverso la predisposizione di procedimenti accelerati di tutela e strumenti organizzativi che coinvolgono un’ampia gamma di attori pubblici e privati, tra cui le istituzioni scolastiche, e che sono improntati alla responsabilizzazione tanto delle vittime che dei bulli.

In proposito, si rammenta la procedura accelerata di tutela (notice and take down), contemplata dall’art. 2 della legge, che consente allo stesso minore ultraquattordicenne (oltreché ai genitori) di attivarsi autonomamente, per ottenere dal titolare del trattamento o dal gestore del sito internet o del social media l’oscuramento, la rimozione o il blocco di qualsiasi altro dato personale del minore, diffuso nella rete internet, fatta salva anche la facoltà di rivolgersi direttamente al Garante per la protezione dei dati personali.

A prescindere dall’eventuale rilevanza penale di un episodio di cyberbullismo, non è inconsueto che l’uso improprio di internet e dei social sfoci in un illecito civile, fonte di gravi pregiudizi per i diritti della personalità di terzi (coetanei o adulti), mediante la diffusione di contenuti, immagini e video – senza il consenso dell’interessato – con finalità denigratorie e/o diffamatorie. Comportamenti questi che oltre a ledere l’identità personale, la reputazione, la riservatezza, l’immagine di una persona, sono giunti talora a tragici epiloghi, con il suicidio delle giovani vittime.

Sul fronte della responsabilità civile vengono sicuramente in gioco gli artt. 2046, 2047 e 2048 c.c. Ossia quel microsistema di norme da cui si ricava la disciplina sulla responsabilità risarcitoria dei genitori, per gli illeciti commessi dai figli minori. Al riguardo, è prioritario accertare in concreto se il minore sia o meno capace di intendere e volere, quindi imputabile ai sensi dell’art. 2046 c.c.

Nel caso di minore non imputabile, egli non risponderà delle conseguenze del fatto dannoso, ma il risarcimento sarà dovuto dai genitori-sorveglianti, ai sensi dell’art. 2047 c.c., salvo provino di non aver potuto impedire il fatto. Diversamente, se il figlio minorenne è capace di intendere e volere, i genitori saranno chiamati a risarcire il danno in solido con il minore. Mentre quest’ultimo risponderà, ai sensi dell’art. 2043 c.c., i genitori saranno tenuti al risarcimento ai sensi del 2048 c.c.

Per andare esenti da responsabilità, i genitori dovranno fornire la complicata prova liberatoria di “non aver potuto impedire il fatto”; ossia superare la presunzione di responsabilità per culpa in educando e in vigilando, dimostrando di aver impartito al figlio un'educazione conforme ad impostare una corretta vita di relazione, in rapporto al suo ambiente (sociale e familiare), alle sue abitudini ed alla sua personalità, nonché di aver esercitato una vigilanza adeguata all’età, al carattere e all’indole del medesimo, finalizzata a correggere comportamenti bisognosi di una specifica attività educativa.

Non vi è chi non noti come l’atteggiamento rigoroso della giurisprudenza, nel configurare tale prova liberatoria, porti a ravvisare nell’art. 2048 c.c. un’ipotesi di responsabilità oggettiva da posizione genitoriale, considerato che spesso la carenza educativa si ricava dalle stesse modalità del fatto illecito. Ciò è tanto più evidente con gli illeciti digitali (in particolare commessi da adolescenti) considerata la difficoltà dei genitori di controllare i loro figli in rete, per di più in ragione della crescente autonomia e autodeterminazione riconosciuta agli stessi, anche attraverso la previsione di una capacità anticipata a quattordici anni per il c.d. consenso digitale (art. 2-quinquies, codice privacy).

Emblematico è il caso affrontato dal Tribunale di Sulmona, con sentenza del 9 aprile 2018. La vicenda ha riguardato la diffusione, prima tramite WhatsApp e poi tramite un falso profilo Facebook, di fotografie senza veli di una ragazzina di quattordici anni, da parte di alcuni coetanei.

Ancorché le immagini fossero state originariamente spontaneamente inoltrate ad alcuni amici, tramite il suo smartphone, proprio dalla ragazza, il Tribunale ha escluso che una tale condotta disinibita escludesse la responsabilità dei minori, in quanto non autorizzava i destinatari all’ulteriore divulgazione. Il giudice di merito ha poi concluso condannando i genitori dei ragazzi al risarcimento del danno non patrimoniale ex art. 2048 c.c., evidenziando che gli stessi non avevano dato prova del corretto assolvimento dei propri doveri educativi e di controllo sui figli. Anzi – ha aggiunto il Tribunale – le condotte divulgative “esprimono, di per sé, una carenza educativa degli allora minori, dimostratisi in tal modo privi del necessario senso critico, di una congrua capacità di discernimento e di orientamento consapevole delle proprie scelte nel rispetto e nella tutela di altri. Capacità che, invece, avrebbero dovuto già godere in relazione all’età posseduta. Tanto è vero che alcuni coetanei ricevuta la foto non l’hanno divulgata”.    

Considerata la tendenza dei ragazzi ad essere “sempre connessi” e a fare un uso smodato dei loro smartphone anche durante le ore di scuola, non è poi difficile ipotizzare una responsabilità dell’istituto scolastico, ai sensi dell’art. 2048, comma 2, c.c. con riguardo a video girati in classe o a contenuti denigratori e/o diffamatori condivisi in rete durante l’orario scolastico.

Già diffusi sono i casi in cui è stata ravvisata la responsabilità della scuola e degli insegnati (con legittimazione passiva a stare in giudizio del MIUR, in riferimento alle scuole statali, ex art. 61, comma 2, l.n. 312/1980) per culpa in vigilando, in caso di condotte bullizzanti o comunque lesive poste in essere dagli alunni a danno di altri alunni. Anche tali vicende fanno riferimento, sul piano giuridico, al microsistema delineato dagli artt. 2046, 2047 e 2048 c.c. e vanno risolte alla stregua del 2047 c.c., se il minore responsabile non è imputabile, altrimenti si fa applicazione dell’art. 2048, comma 2 c.c. In quest’ultimo caso, la responsabilità dei genitori e precettori ex art. 2048 c.c. viene a concorrere con la responsabilità del minore ex art. 2043 c.c.

A carico della scuola è posta l’ardua prova liberatoria del fatto impeditivo, cioè dell'inevitabilità del danno, nonostante la predisposizione, in relazione al caso concreto, di tutte le cautele idonee a evitare il fatto (Cass. civ. n. 8811/2020). L’amministrazione scolastica è pertanto chiamata a rispondere del fatto illecito, commesso dagli allievi minori sottoposti alla vigilanza del proprio personale, fatta salva la dimostrazione non solo dell’impossibilità di spiegare un intervento correttivo o repressivo, dopo l'inizio della serie causale che sfocia nella produzione del danno, ma anche dell’adozione, in via preventiva, di tutte le misure disciplinari o organizzative idonee ad evitare il sorgere di una situazione di pericolo che agevoli l’innesco di detta serie causale (cfr. Trib. Roma, 6 maggio 2022, n. 6992).

Non va sottaciuto che la giurisprudenza ha, talora, qualificato in termini contrattuali la responsabilità della scuola, sulla base del fatto che i genitori della vittima, nella specifica circostanza, avevano denunciato la violazione dell’obbligo di vigilanza sulla sicurezza e sull’incolumità dell’allievo nel tempo in cui egli fruisce della prestazione scolastica e non, piuttosto, la violazione del generale dovere di non recare danno ad altri (cfr. Trib. Reggio Calabria, 20 novembre 2020, n. 1087). Sul piano della prova liberatoria, poco cambia, in quanto sarà sempre a carico dell’istituto scolastico dimostrare che il fatto dannoso è stato determinato da causa non imputabile all’obbligato.

A concludere – tornando a volgere lo sguardo agli illeciti digitali commessi dai minori – non può non essere spesa qualche considerazione anche in merito alla responsabilità degli Internet service provider per i contenuti lesivi veicolati in rete dagli utenti, attraverso i servizi da loro forniti.

Sul punto, ci si deve confrontare con quanto previsto dal d.lgs. n. 70/2003 di attuazione della direttiva 2000/31/CE (oggetto di recente modifica da parte del Regolamento UE del 19 ottobre 2022, n. 2065, relativo a un mercato unico dei servizi digitali).

In particolare, la normativa nazionale è improntata a un principio generale di irresponsabilità degli Internet service provider ascrivibile all’assenza di un obbligo generale che imponga di sorvegliare sulle informazioni che trasmettono o memorizzano e di ricercare attivamente fatti o circostanze che indichino la presenza di attività illecite (art. 17). Si prevede però un diverso regime di responsabilità, a seconda del servizio fornito (artt. 14, 15, 16).

Con riguardo all'attività di semplice trasporto (mere conduit), il prestatore non è responsabile delle informazioni trasmesse, a condizione che: a) non dia origine alla trasmissione; b) non selezioni il destinatario della trasmissione; c) non selezioni né modifichi le informazioni trasmesse (art. 14).

Diversamente, la responsabilità derivante dallo svolgimento di attività neutra di caching (memorizzazione temporanea) sussiste in capo al prestatore di servizi di rete che non abbia provveduto all'immediata rimozione dei contenuti illeciti, nonostante l'ordine intimatogli da un'autorità amministrativa o giurisdizionale (art. 15). Ai sensi di legge, non basta, pertanto, che il cache provider sia reso edotto della natura illecita di determinati contenuti, mediante una diffida extragiudiziale o la proposizione di una domanda giudiziale (Cass. civ. n. 7709/2019).

Ancora differente è la posizione dell’hosting provider (art. 16)  la cui responsabilità sussiste qualora non abbia provveduto alla immediata rimozione dei contenuti illeciti o abbia continuato a pubblicarli, quando ricorrano congiuntamente le seguenti condizioni: a) sia a conoscenza legale dell'illecito perpetrato dal destinatario del servizio, per averne avuto notizia dal titolare del diritto leso oppure aliunde; b) l'illiceità dell'altrui condotta sia ragionevolmente constatabile, onde egli sia in colpa grave per non averla positivamente riscontrata, alla stregua del grado di diligenza che è ragionevole attendersi da un operatore professionale della rete, in un determinato momento storico; c) abbia la possibilità di attivarsi utilmente, in quanto reso edotto in modo sufficientemente specifico dei contenuti illecitamente immessi da rimuovere (Cass. civ. n. 7708/2019).

Infine, l'hosting provider attivo, che svolge un'attività che esula da un servizio di ordine meramente tecnico, automatico e passivo, ponendo in essere una condotta partecipativa, concorrendo con altri nella commissione dell'illecito, è sottratto al regime generale di esenzione di cui all’art. 16, d.lgs. 9 aprile 2003, n. 70, dovendo la sua responsabilità civile atteggiarsi secondo le regole comuni.

Conseguentemente, mentre andrà esente da ogni responsabilità l’Internet service provider che presta meri servizi di messaggistica, non avendo alcun controllo sui contenuti veicolati tramite i suoi canali, al contrario, sarà configurabile una responsabilità dell’hosting provider che fornisce spazi telematici atti a ospitare contenuti pubblicati da terzi. Quest’ultimo, infatti, sarà tenuto ad attivarsi per la rimozione dei contenuti manifestamente illeciti, anche su semplice richiesta dell’interessato, senza necessità di un ordine dell’autorità.

 

Ok
Questo website usa solamente cookies tecnici per il suo funzionamento. Maggiori dettagli