Sostenere differentemente progetti di vita adulta: alcune riflessioni pedagogiche

di prof. Simone Visentin,

Docente di ‘Didattica e Pedagogia Speciale’ presso il Dipartimento di Filosofia, Sociologia, Pedagogia e Psicologia Applicata (FISPPA), dell’Università di Padova.

Il progetto di vita delle persone con disabilità è un tema di grande attualità e anche il numero della rivista lo conferma. Tuttavia, c’è la necessità di darne forma problematizzando alcune domande rilevanti dal punto di vista pedagogico:

  • Come si costruisce un buon progetto di vita?
  • Che ruolo hanno i professionisti?
  • Quali potrebbero essere i modelli scientifico-culturali di riferimento?

Il presente contributo intende avvicinare questi interrogativi, nella consapevolezza che non può esserci l’accompagnamento di una persona con disabilità senza che ci sia una disposizione, della famiglia e dei professionisti coinvolti, a pensare autenticamente adulta quella persona.

Danilo Dolci ci ricorda che ‘ciascuno cresce solo se sognato’, ma ancora troppo spesso quell’immaginario porta con sé l’idea di un eterno bambino, da accudire e custodire. Dunque, dentro a queste storie, il quotidiano e il suo progettare finiscono per cristallizzarsi, perpetuando routine che riempiono un tempo sempre uguale a stesso. Se non c’è evoluzione non c’è crescita; se non c’è crescita non c’è adultità.

Ora, per evitare derive ideologiche bisogna aver a mente anche le situazioni di disabilità complessa, dove il carico assistenziale è costante e la spinta emancipativa sembra non trovare posto. Sono proprio queste storie a mettere in crisi l’idea di autonomia personale, di assunzione attiva di un ruolo sociale. Eppure, proprio partendo da queste biografie, si fa forte l’esigenza di interrogarci su cosa faccia di una vita, una vita di qualità:  autori con Schalock e colleghi (2002), piuttosto che Brown&Brown (2005), rimarcano la multidimensionalità della buona vita: per esempio stare bene dal punto di vista fisico, psicologico; poter godere di buone relazioni (familiari, affettivo-sessuali, amicali, …), esprimere la propria spiritualità, esercitando attraverso piccole e grandi scelte la personale autodeterminazione.

La buona vita ha bisogno, quindi, di opportunità e non può essere un solo contesto, per quanto ricco e articolato, a generare tali chance di ben-essere e ben-diventare.  Si fa strada la prospettiva che una buona vita si possa costruire tra le persone, nei contesti. Una vita reticolare, nella comunità. Una vita di prossimità, dove le relazioni formali – coi professionisti – dialogano con le relazioni informali.

Per questo le cosiddette professioni d’aiuto – si pensi innanzitutto agli educatori professionali – sono chiamate a ripensare il proprio ruolo.

Non solo un’azione diretta di sostegno – da cui non si può spesso prescindere – ma anche un’azione di promozione e tessitura delle relazioni informali: familiari, amicali, di vicinato. Le buone vite sono itineranti, dentro a un cosmo che può avere coordinate spaziali più o meno ampie ma, in ogni caso, sono vite in movimento. Ce lo ricordava già un po’ di anni fa Canevaro (2013), quando spiegava che l’integrazione è organizzare un contesto, mentre l’inclusione è andare per il mondo.

Dentro tale viaggio i professionisti devono recuperare un fondamentale principio pedagogico: quando si educa si aspira a diventare inutili (Tramma, 2003).

È in questo paradosso che si afferma l’anima educativa di chi accompagna la nascita e lo sviluppo di un progetto di vita: con intenzionalità e competenza, ci si impegna ogni giorno perché il giorno dopo la persona abbia un po’ meno bisogno di aiuto, fino a farne a meno. O possa accedere ad un aiuto differente.

Facciamo un esempio pratico, immaginando di lavorare ad una competenza di autonomia (allacciarsi le scarpe): inizialmente l’educatore segmenta il compito (task analysis) e lo rappresenta in una sequenza di immagini; successivamente la supervisione si concretizza in un feedback verbale, fino a scomparire. Oppure, o in aggiunta, il sostegno può essere dato da una figura informale: un volontario, un pari, un conoscente.

A fare da sfondo c’è il profondo convincimento che la fragilità – della quale la disabilità è una delle molteplici espressioni – debba abitare la comunità di tutti perché eticamente l’accompagnamento delle persone con disabilità ci riguarda. In quel ci si ritrova la visione heideggeriana dell’aver cura, inteso come esperienza di prossimità e, quindi, ontologicamente appartenente all’essere umano.

Un simile scenario valoriale, culturale e scientifico non chiede ai professionisti di abdicare ai propri compiti, quanto di ripensarli in un’ottica inclusiva, uscendo dalla zona di confort che la prospettiva assistenziale può offrire: occuparsi dei bisogni primari della persona e organizzare attività occupazionali.

Se il progetto di vita si nutre delle connessioni tra contesti diversi, anche il professionista si fa nomade: perlustra il territorio per scoprirne le risorse; coltiva relazioni e trova una convergenza tra bisogni complementari. Qui è interessante cogliere come la crisi di pensiero pedagogico che riguarda l’identità professionale sia specchio di quella vissuta dai servizi socio-educativo-sanitari, impegnati a farsi luoghi sociali aperti al territorio nonché soggetti che vivono il territorio stesso (Nuzzo, 2013).

Recuperando lo sguardo sulla persona con disabilità, e fuori da ogni ingenuità, il percorso per diventare grandi non è né facile né scontato. Per dargli compimento bisogna ricordarsi che esso richiede tempo, fatica e l’opportunità-capacità di fare i conti con i propri limiti. E quindi il progetto di transizione all’adultità deve essere il risultato di un’azione congiunta tra la persona, la sua famiglia e il sistema dei servizi: la prima con la sua storia e il suo desiderio; i genitori col loro “permesso a crescere” e, appunto, i professionisti con il loro sostegno attivo (Lepri, 2020).

Il progetto di vita non può che essere itinerante perché solo così si creano i presupposti per la costruzione identitaria che nasce dall’assunzione di ruoli sociali attivi, grazie ai quali anche la persona con disabilità porta il suo contributo alla realizzazione del bene comune. In questo senso si afferma l’inclusione sociale, che passa attraverso un cambio di prospettiva: transitare dalla domanda “Cosa può fare la comunità per una persona con disabilità?” per approdare all’interrogativo “Cosa può fare una persona con disabilità per la comunità?”, dando corpo e forma al principio che contraddistingue, peraltro, il welfare generativo (Vecchiato, 2014): non posso aiutarti senza di te.

Anche la persona in una condizione di disabilità può essere chiamata a concorrere, così come le è possibile, al risultato di una comunità più accogliente ed equa. In fondo, “l’inclusione cerca di costruire un sistema qualitativo di rete che non isola i singoli nodi del sociale, ma investe sulla costruzione, mantenimento e potenziamento delle loro relazioni, azioni e interazioni in quanto generatrici di possibilità” (Medeghini, 2013, p. 18).

I ragionamenti finora condivisi trovano nel capability approach di Sen (2000) una testata d’angolo su cui edificare: da un lato, tale prospettiva teoretica guarda alla disabilità come condizione di povertà, da intendersi come ridotte opportunità di perseguire ciò che ha valore per la persona; dall’altro, investe sull’educazione all’agency personale, come capacità di coltivare la propria idea di bene, punto di equilibrio tra il ben-essere soggettivo e il bene comune già sopra richiamato.

Se questo è l’orizzonte culturale e professionale dentro il quale scegliamo di agire, saremo – ciascuno nel proprio ruolo – fautori di vite autentiche (Mancuso, 2009) nel momento in cui la nostra priorità non sarà tanto di direzionare il futuro della persona con disabilità quanto di nutrire il suo empowerment (Marchisio, 2019), offrendole più ampie e diversificate opportunità di diventare sé stessa (Visentin, 2016).

 

Bibliografia

Brown, R., & Brown, I. (2005). The application of quality of life. Journal of Intellectual Disability Research, 49/10, 718-727.

Canevaro, A. (2103). Scuola Inclusiva e mondo più giusto. Trento: Erickson.

Lepri, C. (2020). Diventare grandi, la condizione adulta delle persone con disabilità intellettiva. Trento: Erickson.

Mancuso, V. (2009). La vita autentica. Milano: Raffaello Cortina.

Marchisio C. Percorsi di vita e disabilità. Strumenti di coprogettazione. Carocci Editore, Roma 2019.

Medeghini, R. (2013). Introduzione. In: Medeghini R, Vadalà G, Fornasa W, Nuzzo A. Inclusione sociale e disabilità. Linee guida per l’autovalutazione della capacità inclusiva dei servizi. Trento: Erickson, 13-23.

Nuzzo, A. (2013). Idee per l’inclusione. Dalla cura della persona alla cura del territorio. In: Medeghini R, Vadalà G, Fornasa W, Nuzzo A. Inclusione sociale e disabilità. Linee guida per l’autovalutazione della capacità inclusiva dei servizi. Trento: Erickson, 73-83.

Schalock, R. L., Brown, I., Brown, R., Cummins, R. A., Felce, D., Matikka, L., Keith, K., Parmenter, T.R. (2002). Conceptualization, measurement, and application of quality of life for person with intellectual disabilities: report of an international panel o experts. Mental Retardation, 40/6, 457-470.

Sen, A. (2000). Lo sviluppo è libertà. Milano: Mondadori.

Tramma, S. (2003). L'educatore imperfetto. Senso e complessità del lavoro educativo. Roma: Carocci.

Vecchiato, T. (2014). Il welfare generativo, una sfida politica e sociale. Studi Zancan, 4, 40-44.

Visentin, S. (2016). Progetti di vita fiorenti. Napoli: Liguori.

Ok
Questo website usa solamente cookies tecnici per il suo funzionamento. Maggiori dettagli