La Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità

di avv. Rebecca Gelli

La Convenzione sui diritti delle persone con disabilità è stata approvata dall'Assemblea Generale delle Nazioni Unite il 13 dicembre 2006, e, ad oggi, conta più di centosessanta firmatari, inclusa l’Unione europea.

L’Italia ha ratificato il trattato con legge del 3 marzo 2009 n. 18: quindi, in un momento sicuramente successivo all’entrata in vigore della legge-quadro 5 febbraio 1992, n. 104, che ha rappresentato e tuttora rappresenta il principale riferimento normativo per l’assistenza, l'integrazione sociale e i diritti delle persone con disabilità.

Prima dell’adozione di una Convenzione ad hoc, i diritti delle persone fragili trovavano parziale, anche se non organico, riconoscimento nella comunità internazionale, in quanto ricompresi nella Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 1948 e, per i minori, nella Convenzione sui diritti del fanciullo del 1989: atti che, implicitamente o per tramite di una sintetica enunciazione, già contenevano alcune disposizioni che statuivano il divieto di discriminazione per ragioni basate, tra l’altro, sulla disabilità.

Scopo della Convenzione in oggetto è raccogliere una nuova sfida culturale, partendo dalla stessa definizione di disabilità, e quindi proteggere e includere la persona con disabilità, garantendole la titolarità, il pieno godimento e l’esercizio, su base di uguaglianza, di tutti i diritti umani e delle libertà fondamentali.

La Convenzione si compone di cinquanta articoli, è preceduta da un articolato Preambolo e seguita da un Protocollo opzionale.

I primi dieci articoli enunciano le definizioni, lo scopo e i principi generali, quali il principio di uguaglianza, non discriminazione, accessibilità ed indipendenza della persona con disabilità, che vengono riaffermati anche con speciale riguardo alle donne e ai minori, astrattamente considerati più fragili.

I successivi venti articoli enunciano i diritti fondamentali delle persone con disabilità, partendo dal diritto alla vita e passando attraverso tutti i diritti della persona in quanto tale, declinati in ogni possibile sfumatura: diritto all’uguale riconoscimento di fronte alla legge, diritto all’accesso alla giustizia, diritto all’integrità e alla sicurezza della persona, diritto alla cittadinanza, libertà di movimento, di scelta, di espressione, opinione e informazione, rispetto della vita privata, del domicilio e della famiglia, diritto alla salute, all’educazione e al lavoro, fino alla partecipazione alla vita politica, culturale e ricreativa, agli svaghi, allo sport.

Gli ultimi venti articoli stabiliscono, infine, le procedure e regolano i compiti degli organi che sono deputati al controllo dell’applicazione della Convenzione e dettano le disposizioni transitorie e finali, relative al deposito, all’entrata in vigore e alla firma del trattato.

Interessante la lettura del Preambolo che, nel raccogliere le dichiarazioni di intento degli Stati, evidenzia il deficit culturale nell’approccio alla disabilità.

Con esso, gli Stati Parte: “riaffermando l’universalità, l’indivisibilità, l’interdipendenza e interrelazione di tutti i diritti umani e libertà fondamentali e la necessità di garantirne il pieno godimento da parte delle persone con disabilità senza discriminazioni” (lettera c), “preoccupati per il fatto che, nonostante questi vari strumenti ed impegni, le persone con disabilità continuano a incontrare ostacoli nella loro partecipazione alla società come membri eguali della stessa, e ad essere oggetto di violazioni dei loro diritti umani in ogni parte del mondo” (lettera k), manifestano di voler addivenire alla stipula: “convinti che una convenzione internazionale globale ed integrata per la promozione e la protezione dei diritti e della dignità delle persone con disabilità potrà contribuire in modo significativo a riequilibrare i profondi svantaggi sociali delle persone con disabilità e a promuovere la loro partecipazione nella sfera civile, politica, economica, sociale e culturale, con pari opportunità, sia nei paesi sviluppati che in quelli in via di sviluppo” (lettera y).

In tal senso, come risulta da una lettura incrociata del Preambolo (lettera e) e dell’art. 1, la Convenzione opera una vera e propria rivoluzione copernicana del concetto di “disabilità” che, anche grazie alla sensibilità offerta dal contributo delle associazioni di categoria che hanno partecipato alla relativa stesura, viene definita in maniera del tutto innovativa, passando da un approccio medico ad uno prettamente sociale.

Se la legge n. 104/1992 definiva “persona handicappata” “colui che presenta una minorazione fisica, psichica o sensoriale, stabilizzata o progressiva, che è causa di difficoltà di apprendimento, di relazione o di integrazione lavorativa e tale da determinare un processo di svantaggio sociale o di emarginazione”, la Convenzione statuisce, infatti, che: “per persone con disabilità si intendono coloro che presentano durature menomazioni fisiche, mentali, intellettive o sensoriali, minorazioni che, in interazione con barriere di diversa natura, possono ostacolare la loro piena ed effettiva partecipazione nella società su base di uguaglianza con gli altri”.

Il concetto di disabilità diventa, quindi, relazionale: in quest’ottica, non esistono persone disabili, ma solo persone disabilitate da barriere culturali ed ambientali, all’interno di una società che non riesce ad essere inclusiva, predisponendo e approntando misure adeguate ad accogliere, in condizioni di uguaglianza, tutti i consociati, consentendo loro una dignitosa qualità di vita. 

La disabilità non è malattia, né deviazione dallo standard dell’individuo normodotato, ma solo una tra le molteplici e diverse condizioni umane: invero, nemmeno esiste una “normalità umana” da valorizzare come parametro normativo, perché è la diversità che declina l’umanità. 

La disabilità diventa allora la misura del rapporto positivo o negativo tra la persona e il suo ambiente di riferimento: ambiente che, in forza del cosiddetto “principio di accomodamento ragionevole” (“reasonable accomodation”), deve accogliere le modifiche e gli adattamenti necessari per ampliare l’inclusione.

Questo obiettivo di inclusione viene perseguito attraverso una serie di principi di natura programmatica – che, nel nostro ordinamento, fungono anche da parametro interposto di legittimità, ai sensi dell’art. 117 Cost. – al fine di orientare la normativa interna degli Stati Parti della Convenzione: i quali, pur con un margine di discrezionalità applicativa, si sono impegnati ad adottare tutti gli interventi legislativi, politici, amministrativi necessari per attuare la Convenzione.

Tale Convenzione promuove, in particolare, l’accettazione della disabilità come parte della diversità umana, nonché il rispetto per la dignità intrinseca (“respect for inherent dignity”), la libertà di scelta e l’indipendenza (“living independently”) delle persone disabili, favorendo la loro la piena ed effettiva partecipazione ed inclusione nella società (“being included in the community”), in condizioni di uguaglianza e pari opportunità rispetto agli altri: da una parte, stigmatizzando le discriminazioni, dall’altra, favorendone l’integrazione (“equality and non-discrimination”).

Più precisamente, gli Stati Parti riconoscono il diritto di tutte le persone con disabilità a vivere in maniera autonoma ed indipendente, non solo assicurando misure di protezione e sostegno alle situazioni di povertà e impedendo che siano vittime di segregazione, ma anche sviluppando programmi di abilitazione e riabilitazione (“habilitation and rehabilitation”), in vista dell’emancipazione, dell’autonomia e della piena integrazione in tutti gli ambiti, ivi compreso quello scolastico e lavorativo.

In quest’ottica, vengono in rilievo non soltanto le necessità primarie della persona con disabilità, ma anche l’esigenza di dare concretezza ad un “progetto di vita” personalizzato, che sia espressione dei suoi desideri e delle sue inclinazioni ed ambizioni, in modo che possa diventare protagonista consapevole della propria esistenza.

La protezione smette così la sua veste paternalistica, di mera assistenza della persona fragile come minus habens, e diventa un aspetto strettamente correlato alla tutela dell’inclusione, alla valorizzazione della dignità e alla promozione dello sviluppo dell’autonomia della persona fragile, perché possa ambire alla propria realizzazione personale.

L’inclusione, tuttavia, è soprattutto un approdo culturale e, con il trattato, gli Stati si impegnano ad avviare campagne di sensibilizzazione per favorire un atteggiamento empatico e recettivo nei confronti delle persone fragili, al fine di abbattere le barriere fisiche e mentali che ne ostacolano l’integrazione (“accessibility”) e di accrescere la consapevolezza sulle loro capacità, autonomie e meriti (“awareness-raising”), combattendo ogni stereotipo e pregiudizio.

Gli Stati si impegnano, altresì, a raccogliere e condividere le informazioni – compresi i dati statistici, le buone prassi, i risultati delle ricerche e le conoscenze scientifiche e tecniche – che permettano di formulare le politiche sulla disabilità e riconoscono l’importanza della cooperazione internazionale (“international cooperation”), a sostegno degli sforzi dispiegati a livello nazionale per il perseguimento degli obiettivi della Convenzione.

Si propongono, quindi, di istituire e/o individuare, in seno alla propria amministrazione, una struttura di coordinamento (per l’Italia, l’Osservatorio Nazionale sulla condizione delle persone con disabilità), incaricata di facilitare le azioni legate all’attuazione della Convenzione, nei differenti settori e a differenti livelli (“national implementation and monitoring”).

Presso le Nazioni Unite, è, infine, stato istituito un Comitato sui diritti delle persone con disabilità che vigila, con incarico permanente, sull’adempimento degli obblighi derivanti dalla Convenzione, esaminando i rapporti degli Sati e formulando i suggerimenti e le raccomandazioni che ritiene appropriati, sia nei confronti degli stessi, sia nei confronti dell’Assemblea Generale (“suggestions and general reccomendations”).

Per gli Stati che, come l’Italia, abbiano sottoscritto anche il Protocollo opzionale, il Comitato è, inoltre, competente a ricevere e ad esaminare, conducendo, se lo ritiene opportuno, un’inchiesta, le comunicazioni presentate da individui o gruppi di individui che, esauriti tutti i mezzi di tutela nazionali disponibili, assumano di essere vittime di violazioni della Convenzione.

Oltre agli organi della Convenzione, anche il Consiglio dei diritti umani e l’Unicef, quali organi sussidiari delle Nazioni Unite, hanno il compito di promuovere il rispetto e la difesa dei diritti dell’uomo e del bambino, esaminando le violazioni, in particolare quelle che rivestono carattere flagrante e sistematico, di tali diritti, ivi compresi quelli delle persone disabili, la cui tutela è affidata ad uno speciale relatore (“special rapporteur on the rights of persons with disability”).

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