I servizi socio-sanitari e la programmazione concordata nei piani di zona. La co-programmazione pubblico e privato “imposta” dall’art. 55 del T.U. del Terzo Settore

di avv.ti Barbara Carnio e Chiara Curculescu

Un ruolo sicuramente essenziale nella protezione e nell’assistenza alle persone con disabilità viene svolto dai servizi socio sanitari.

Il sistema è stato riformato con la l. n. 328/2000 (“Legge quadro per la realizzazione del sistema integrato di interventi e servizi sociali”), al dichiarato fine di fornire alle persone e alle famiglie un sistema integrato di interventi e servizi sociali.

Per scelta legislativa nella dislocazione delle funzioni riguardanti la materia dei servizi assistenziali resi a livello locale, è stato privilegiato il ruolo dei Comuni, cui spettano i compiti di progettazione e realizzazione della rete dei servizi sociali.

L’ambito territoriale del sistema della rete dei servizi viene individuato tramite un procedimento regionale al quale partecipano gli stessi Comuni, e di norma coincide con il distretto sanitario.

Più in particolare nella ripartizione delle competenze i Comuni sono titolari delle funzioni amministrative relative agli interventi sociali svolti a livello locale, e concorrono alla programmazione regionale e locale.

Le province concorrono alla programmazione del sistema integrato con compiti di monitoraggio, coordinamento e supporto.

Le regioni svolgono funzioni di coordinamento, indirizzo e programmazione e adottano il Piano regionale.

Lo Stato rimane titolare delle funzioni di indirizzo e coordinamento in merito alla determinazione dei principi e degli obiettivi della politica sociale attraverso il Piano nazionale.

All’interno di tale sistema un ruolo fondamentale è assunto dal “piano di zona”: uno strumento concertato di programmazione degli interventi volto a consentire l’integrazione socio-sanitaria, con l’obbiettivo di dare risposte efficaci alle comunità locali.

In concreto, poi, la gestione amministrativa delle politiche sociali affidata agli enti locali, può essere svolta secondo forme differenti: con una gestione diretta da parte dell’ente locale; con una gestione indiretta attraverso appositi enti o istituzioni; con una gestione associata (ad esempio tra più comuni); con una gestione delegata alle Aziende Sanitarie Locali; ancora, con una gestione esternalizzata.

Alla legge quadro non è, tuttavia, seguita nel corso dei successivi anni l’auspicata armonizzazione tra modelli regionali.

In Veneto, ad esempio, il modello attuato è quello dell’integrazione intersoggettiva (che ha avuto avvio già dal 1982 con L.R. n. 55/1982), e quindi della partecipazione di una serie di soggetti alla gestione della rete dei servizi sociali (si parla anche in tale caso di gestione associata del sociale).

Tale integrazione si è realizzata attraverso la delega di gestione da parte dei comuni all’Azienda Ulss di parte o di tutte le funzioni socio-sanitarie, e più nello specifico di quelle relative alle prestazioni sanitarie, alle prestazioni sanitarie ad elevata integrazione sanitaria, alle prestazioni sanitarie a rilevanza sociale.

Il sistema dell’integrazione intersoggettiva adottato dal Veneto si realizza, dunque, attraverso l’erogazione dei servizi sociali e ad elevata integrazione socio-sanitaria e attraverso la previsione di una gestione unitaria su ciascun territorio mediante delega alle rispettive Aziende Ulss (Unità Locali Socio Sanitarie).

Peraltro alcuni servizi sono obbligatoriamente delegati alle Aziende, mentre altri lo sono solo in via facoltativa.

Ad esempio nel Comune di Venezia la Direzione del settore dei Servizi Sociali fa capo all’Assessorato Coesione Sociale e Sviluppo economico, e nell'ambito della pianificazione di zona viene promossa l'integrazione con i servizi dell'Azienda ULSS.

Nell’ambito territoriale della Ulss 2 Marca Trevigiana i Servizi Sociali e Socio Sanitari dipendono gerarchicamente dal Direttore dei Servizi Socio-Sanitari, garantendo la saldatura tecnica e amministrativa tra amministrazioni comunali, Azienda ULSS ed altri soggetti istituzionali pubblici e privati. Assicurano, inoltre, le attività relative alla predisposizione, pianificazione e monitoraggio del Piano di Zona, nonché la predisposizione annuale dell’indagine sugli interventi e i servizi sociali dei Comuni singoli e associati.

Molte regioni italiane prevedono, invece, la gestione associata intercomunale dei servizi sociali.

In Lombardia si è optato per la gestione attraverso aziende speciali e società di capitali.

Accanto ai Comuni, costituiscono parte integrante del sistema socio-sanitario le ULSS - Unità Sanitarie Locali. Costituite nel 1978 (con la l. n. 833/1978 istitutiva del Servizio Sanitario Nazionale, che ha portato al superamento della frammentarietà delle precedenti mutue) come articolazione dei Comuni, sono state poi riorganizzate e incardinate nel sistema Regionale cui è demandata la loro direzione, sulla base del piano sanitario regionale e di quello nazionale.

Recentemente la scelta del legislatore nazionale ha portato alla loro c.d. aziendalizzazione, con la creazione delle ASL e la previsione di una gestione manageriale della sanità (D.Lgs. n. 502/92, D.Lgs. n. 517/93; D. Lgs. n. 229/99; D. Lgs. n. 56/2000; L. n. 405/01).

Questo nuovo sistema ha, comunque, cercato di valorizzare il ruolo dei Comuni nel sistema sanitario, al fine di integrare il sociale ed il sanitario, mediante la costituzione di una Conferenza permanente per la programmazione sanitaria e socio sanitaria regionale (D. Lgs. n. 229/99), che mira a garantire il pieno raccordo tra le programmazioni regionali e quelle locali.

Il raccordo è garantito anche a livello locale, con le articolazioni organizzative dei Distretti, se presenti.

Esiste, infine, un altro livello di gestione, quello della zona: evidente quindi la complessità dell’articolazione complessiva della struttura socio-sanitaria, con livelli crescenti all’aumentare della complessità della struttura territoriale su cui insiste.

La funzione di coordinare tutti gli ambiti intersettoriali, che necessariamente interagiscono con quello della salute, e di integrare gli elementi della responsabilità con quelli delle risorse, è demandata al Piano sanitario nazionale, con la previsione del perseguimento di intese e collaborazioni tra le amministrazioni comunali e le aziende sanitarie al fine di realizzare gli obiettivi a livello distrettuale.

Necessario poi fare chiarezza sui termini: dalla USL si è passati, nell’ambito di quel processo di aziendalizzazione cui si è fatto cenno, alla ASL/AUSL. Tuttavia, in ogni regione il termine viene declinato in modo distinto: ASL, ULS, AULSS, ASU, ATS, APSS, ecc. Per Distretto si intende invece la struttura operativa delle aziende sanitarie.

I Piani di zona

Il piano di zona è lo strumento programmatico triennale che l’ordinamento giuridico predispone per l’attivazione di una rete di servizi integrati in ambito sociale e socio sanitario.

Come già accennato è stato previsto dall’articolo 19 della l. n. 328/2000 (legge quadro per la realizzazione del sistema integrato di interventi e servizi socio sanitari, pubblicata nella Gazzetta Ufficiale numero 265 del 13 novembre del 2000).

La disposizione assegna ai Comuni il compito di tutelare i diritti dei cittadini attraverso la definizione, d’intesa con l’azienda unità sanitaria locale, di un piano di zona degli interventi sociali e sociosanitari.

Prima della riforma del Terzo settore (avvenuta col D. Lgs. n. 117/2017 cui si accennerà a breve) la condivisione partecipativa (espressamente richiesta dall’art. 19 della l. n. 238/2000) nell’adozione del piano di zona tra amministrazioni comunali, aziende sanitarie locali e i soggetti privati variamente operanti nel sociale costituiva un’eccezione al principio generale vigente nel nostro ordinamento, posto dall’art. 13 della L. n. 241/1990.

Per tale norma, infatti, la partecipazione ai procedimenti amministrativi dei vari soggetti portatori di interessi privati o diffusi costituiti in associazioni o comitati, e quindi anche del privato onlus o cooperativo operanti nel sociale, è esclusa ogni qual volta l’attività della pubblica amministrazione è diretta all’emanazione di atti di pianificazione e programmazione (qual è, appunto, il piano di zona) oltre che all’emanazione di atti normativi, amministrativi generali, e tributari.

Il fine perseguito con l’introduzione dei piani di zona è quello di realizzare una definizione integrata e condivisa delle politiche sociali e sociosanitarie, in un ambito territoriale che coincide di regola con il distretto sanitario (per cui vengono coinvolti tutti i comuni il cui territorio è compreso in detto distretto).

Il piano ha lo scopo di costruire una rete tra tutti gli enti e gli attori pubblici e privati coinvolti nell’erogazione dei servizi e dell’assistenza (quindi comuni, azienda sanitaria, associazioni, gruppi di volontari, enti del terzo settore, cooperative sociali, fondazioni, ipab, RSA ecc).

Il risultato dovrebbe essere la coordinazione ma anche l’implementazione del sistema di presa in carico delle persone fragili, che possa valorizzare non solo le risorse istituzionali ma anche la solidarietà e i soggetti operanti nel privato sociale.

Quanto al contenuto, il piano di zona individua gli obiettivi strategici e le priorità di intervento, gli strumenti ed i mezzi per la realizzazione dell’assistenza socio sanitaria nel territorio, e quindi anche:

-  le modalità organizzative dei servizi,

- le risorse finanziarie strutturali e professionali,

- i requisiti di qualità,

- le modalità di collaborazione dei servizi territoriali con le risorse della comunità del terzo settore,

- le forme di concertazione tra azienda sanitaria ed ETS,

- le modalità di realizzazione del coordinamento tra gli organi periferici delle amministrazioni statali, gli enti territoriali e le autorità sanitarie locali.

È quindi uno strumento pensato e creato proprio per governare la complessità del sistema locale dei servizi e degli interventi sociali e socio sanitari.

La sua approvazione è rimessa al Comitato o Conferenza dei sindaci; viene poi recepito dall’azienda sanitaria locale. Titolari del piano di zona sono, quindi, i Comuni ricompresi negli ambiti territoriali corrispondenti ai distretti delle Ulss.

La Regione interviene nell’elaborazione dei piani di zona attraverso le aziende sanitarie, cui competono le responsabilità generali di programmazione, coordinamento, vigilanza e controllo in materia sanitaria, socio sanitaria e assistenza sanitaria ospedaliera.

L’articolo 6 della l. n. 328/2000 prevede che il Comune diventi anche l’interlocutore istituzionale di raccordo con la Regione per il reperimento dei finanziamenti.

Questo strumento di pianificazione potrà svolgere un importante ruolo anche per sostenere le nuove sfide poste dagli obiettivi programmatici della convenzione ONU sulle persone con disabilità.

Anzitutto una programmazione comune servirà per mettere a disposizione dei cittadini, delle loro associazioni e degli operatori, un unico linguaggio nella raccolta dell’informazione e nella sua veicolazione. Per uniformare la fase di valutazione della disabilità e i modelli di riferimento per questa valutazione, che resta essenziale per supportare le decisioni assistenziali e di inclusione, e definire poi le soglie di accesso ai servizi e ai benefici pubblici.

Potrà agevolare il diritto all’accesso unitario ai servizi delle persone fragili, che la legge delega in materia di disabilità e il PNRR prevedono per superare la frammentazione dell’ammissione alle diverse prestazioni recate da sistemi differenti: bisogno primario della persona fragile è, infatti, essere accolta, ascoltata e orientata nel modo più semplice ed efficace possibile.

È cioè essenziale un approccio olistico e sistemico alla concezione del bisogno: per rispondere in modo esaustivo e completo alle problematiche di vita e di salute nella loro complessità e multidimensionalità, deve essere facilitato e promosso l’accesso unitario, integrato, equo e fruibile ai servizi.

La discontinuità del processo di presa in carico è sicuramente un danno in sé, molto grave, per la persona fragile, che ha bisogno di continuità dalla prima segnalazione del bisogno alla definizione e alla realizzazione di tutti gli interventi necessari.

Nella Regione Veneto il distretto sociosanitario è l’ambito territoriale della pianificazione integrata sociale e sociosanitaria tra strutture sanitarie e comuni.

La protezione e il supporto delle persone con disabilità richiedono la soluzione di problemi trasversali: imprescindibile, quindi, lo strumento della programmazione partecipata, in un’ottica di integrazione degli interventi e dei modelli multidisciplinari nelle diverse aree.

Ma anche il percorso di implementazione delle autonomie individuali, l’inclusione sociale, e il favore che l’ordinamento ormai esplicita nei confronti di un modello di vita indipendente (ove possibile), devono portare a promuovere la sperimentazione di nuovi modelli di servizi territoriali, residenziali e semiresidenziali, che possano sostenere ed incentivare occasioni di integrazione tra scuola, lavoro, territorio, tempo libero e altre progettualità mirate.

Il servizio sanitario nazionale è oggi ad un punto di svolta: le recenti esperienze nazionali indicano come il potenziamento della prevenzione, le cure primarie e l’assistenza domiciliare,l’organizzazione di un percorso di cura, lo sviluppo delle cure intermedie, l’integrazione dei diversi livelli assistenziali, l’assistenza nel territorio possono consentire anche di rimodellare il ruolo degli ospedali, destinandoli ai casi acuti, con benefici sia in termini di salute della popolazione sia di utilizzo efficiente delle risorse.

La legge in commento estende la partecipazione alla fase programmatica tipica dei piani di zona agli organismi non lucrativi, agli organismi della cooperazione, alle associazioni, agli enti di promozione sociale, alle fondazioni, agli enti di patronato, alle organizzazioni di volontariato, agli enti privati accreditati, all’organizzazione sindacale, agli enti riconosciuti, alle confessioni religiose con le quali lo Stato ha stipulato patti accordi o intese operanti nel settore.

Oggi questa possibilità di coprogrammazione e coprogettazione tra pubblico e privato ha trovato riconoscimento ulteriore rispetto al disposto di cui alla legge 238/2000.

L’art. 55 del Codice del Terzo settore (D. Lgs. n. 117/2017) prevede che tutte le amministrazioni pubbliche nell’esercizio delle proprie funzioni di programmazione e organizzazione a livello territoriale degli interventi e dei servizi nei settori di attività di cui all’art. 5 del medesimo codice (tra cui rientrano gli interventi e le prestazioni sanitarie, gli interventi ed i servizi sociali finalizzati a garantire la qualità della vita, pari opportunità, non discriminazione e diritti di cittadinanza, prevenire, eliminare o ridurre le condizioni di disabilità, di bisogno e di disagio individuale e familiare, derivanti da inadeguatezza di reddito, difficoltà sociali e condizioni di non autonomia, l’assistenza, l'integrazione sociale e i diritti delle persone fragili ed ai disabili gravi privi di sostegno familiare) devono assicurare il coinvolgimento attivo degli enti del Terzo Settore, attraverso forme di co-programmazione e co-progettazione e accreditamento poste in essere nel rispetto dei principi della L. n. 241/1990, nonché delle norme che disciplinano specifici procedimenti ed in particolare di quelle relative alla programmazione sociale di zona.

Tale norma pone, quindi, in capo ai soggetti pubblici il compito di coinvolgere attivamente gli Enti del Terzo Settore ossia quegli “enti privati costituiti per il perseguimento, senza scopo di lucro, di finalità civiche, solidaristiche e di utilità sociale e che, in attuazione del principio di sussidiarietà e in coerenza con i rispettivi statuti o atti costitutivi, promuovono e realizzano attività di interesse generale mediante forme di azione volontaria e gratuita o di mutualità o di produzione e scambio di beni e servizi”.

Il ruolo partecipativo e consultivo degli Enti del Terzo Settore è molto importante nell’attività di programmazione locale: gli enti pubblici e gli ETS devono collaborare per il perseguimento di finalità di interesse generale.

Più precisamente di parla di co-programmazione quanto l’istruttoria dell’ente pubblico è partecipata e condivisa con gli ETS per l’individuazione dei bisogni da soddisfare, degli interventi necessari, delle modalità di realizzazione e delle risorse disponibili.

La co-progettazione, invece, attiene al piano più strettamente operativo: enti pubblici ed ETS condividono risorse e responsabilità per realizzare un progetto specifico rispondente ad un bisogno.

Negli anni passati per gli ETS è stato difficile vedersi riconoscere lo spazio di loro competenza a causa di un’interpretazione restrittiva dell’art. 55 fornita dall’ANAC e avvallata in prima battuta anche dal Consiglio di Stato.

La Corte Costituzionale, però, con la sentenza interpretativa di rigetto n. 131 del 2000 ha chiarito come il precitato art. 55 sia una delle più significative attuazioni del principio di sussidiarietà orizzontale valorizzato dall’art. 118, quarto comma della Costituzione.

La disposizione costituzionale “valorizzando l’originaria socialità dell’uomo ha voluto superare l’idea per cui solo l’azione del sistema pubblico è intrinsecamente idonea allo svolgimento di attività di interesse generale ed ha riconosciuto che tali attività ben possono, invece, essere perseguite anche da una autonoma iniziativa dei cittadini che, in linea di continuità con quelle espressioni della società solidale, risulta ancora oggi fortemente radicata nel tessuto comunitario del nostro Paese.”

Il Ministro del Lavoro e delle Politiche sociali, coinvolgendo il Forum nazionale del Terzo settore ed i livelli di governance regionale e locale, con D.M. n. 72/2021 ha adottato le “Linee guida sul rapporto tra le pubbliche amministrazioni ed enti del Terzo settore negli articoli 55-57 del D. Lgs. 117/2017” che spiegano quanto solo sinteticamente riportato nel più volte citato art. 55 CTS.

In particolare le Linee guida prevedono che l’avvio del procedimento, sia per la co-programmazione che per la co-progettazione, possa avvenire non solo d’ufficio ma anche in accoglimento dell’istanza/proposta presentata da uno o più ETS. La copertura normativa dell’avvio su istanza di parte trova fondamento proprio nel precitato comma 1 dell’art. 55 CTS che, come detto, pone in capo alle pubbliche amministrazioni il dovere di coinvolgimento attivo degli ETS in una logica di effettiva attuazione del principio di sussidiarietà orizzontale.

L’istanza/proposta presentata dall’ETS comporta per la pubblica amministrazione un vero e proprio obbligo di provvedere ai sensi dell’art. 2 comma 1 L. n. 241/1990, anche in ipotesi di una proposta inammissibile (in tal caso sarà sufficiente una motivazione succinta).

Possono quindi ritenersi (finalmente) superati i limiti posti dall’art. 13 della Legge generale sul procedimento amministrativo (L. n. 241/1990), radicati in principi nazionali e sovranazionali ormai ampiamente rivisti.

Si è sostanzialmente passati da un modello di amministrazione partecipata ad uno di amministrazione condivisa: enti pubblici e Terzo settore sono chiamati a programmare, progettare ed agire congiuntamente a favore delle loro comunità condividendo poteri e responsabilità.

Enti pubblici e Terzo settore non sono “controparti” (una che domanda servizi e l’altra che li offre; una che definisce cosa fare e l’altra che esegue) ma alleati nella realizzazione di finalità comuni.

Ciò richiede inevitabilmente un importante cambiamento culturale con una ridefinizione di ruoli, compiti e organizzazione nonché un investimento formativo affinché i nuovi istituti dell’amministrazione condivisa siano conosciuti ed utilizzati.

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