Disabilità e spiritualità

di avv.ti Cristina Arata e Barbara Bottecchia

Tra i diritti delle persone con disabilità, a prescindere dalla qualità e gravità della condizione, vi è quello di vivere la propria fede, e comunque di veder riconosciuta e tutelata la dimensione religiosa e spirituale della propria personalità.

La spiritualità è un aspetto essenziale e costitutivo della qualità della vita, oggi riconosciuto dalla Convenzione Onu sulle persone con disabilità e, per i cittadini dell’Unione Europea, dai Trattati e dalla Carta di Nizza (la Costituzione europea).

La riflessione sulla disabilità e sull’inclusione delle persone con disabilità quali protagoniste della propria vita spirituale è stato un lungo cammino di progressiva consapevolezza.

È possibile una vita spirituale anche in caso di disabilità intellettiva grave e profonda?

La debolezza delle capacità cognitive rappresenta un ostacolo all’espressione della spiritualità?

È possibile la partecipazione della persona con disabilità alla vita di una comunità religiosa, a prescindere dalla capacità di vivere in prima persona una dinamica spirituale?

Che rapporto c’è tra la vita spirituale e l’intelligenza, e quindi la capacità di comprendere le parole, di sostenere un dialogo interno e di comunicare?

Queste le domande (cfr. R. Franchini, La vita spirituale nelle persone con disabilità intellettiva grave e profonda, in Spiritualità e qualità di vita, rivista XI/2021 Opera Don Orione) che portano oggi a “riconoscere con onestà che questo legame non è probabilmente così centrale come si potrebbe immaginare. Per certi aspetti, affermare che la spiritualità sia correlata alla capacità di comprendere rappresenta, al contrario, una sorta di contraddizione in termini, in quanto la dimensione trascendente, per definizione, non rientra nel dominio del comprensibile e del noto, quanto invece in quello dello stupore, della meraviglia di fronte ad aspetti dell’esperienza che non è dato comprendere, che ci sorprendono e ci sfuggono.”

Di seguito proponiamo un approfondimento dell’esperienza della Chiesa Cattolica e della Comunità Ebraica.

 

La disabilità nella Chiesa Cattolica

di avv. Cristina Arata

Un’effettiva riflessione sulla tematica è sostanzialmente iniziata negli anni settanta, con argomentazioni che oggi potremmo percepire quasi “ingenuamente distanti” dalla convinzione, ormai diffusa, che la disabilità è una condizione umana, che non preclude né una vita spirituale, né una fede religiosa, né una vita sociale, né una partecipazione alle varie e molteplici esperienze umane.

Va detto che il pensiero cristiano ha sempre riconosciuto un particolare valore spirituale al “prendersi cura” delle persone con disabilità.  Questo approccio, tuttavia, si è rivelato in parte limitato e limitante, confinando spesso le persone fragili nel ruolo di “oggetto di cura”.

Oggi il rapporto tra fede e disabilità ha accolto nuovi interrogativi e considerazioni, in sostanza una nuova cultura volta a rendere ogni persona davvero protagonista all’interno della Chiesa: soggetto partecipativo e non solo oggetto di attenzioni dedicate.

Il codice di diritto canonico del 1917 prevedeva ancora che l’ordinazione sacerdotale non potesse essere ricevuta da chi aveva impedimenti fisici, dagli epilettici, dai dementi e dagli indemoniati.

Questa disposizione è stata abrogata nel codice del 1983, ma è di per sé indice del “pregiudizio storico-culturale” che in parte ancor oggi rischia di operare nella Chiesa e nella vita delle Parrocchie, come è stato anche di recente sottolineato dal gesuita Justin Glyn, ipovedente dalla nascita.

Il sacerdote ha evidenziato come pochi cattolici disabili siano coinvolti nella teologia della disabilità.

È per questo, a suo parere, che l’esperienza della disabilità non è entrata (se non negli ultimi decenni) a far parte dell’autocomprensione della Chiesa.

Come è possibile, quindi, che la teologia possa parlare della disabilità, se le persone con disabilità non studiano teologia? e come può la Chiesa comprendere la disabilità se le persone con disabilità non entrano a pieno titolo nella Chiesa?”

La prassi ecclesiale, per il gesuita, si è mossa nel tempo su due approcci non del tutto corretti: l’uno impegnato nella cura delle persone con disabilità, l’altro nel considerare queste persone vittime innocenti, predestinate a soffrire a favore degli altri.

Queste convinzioni non collocano a pieno titolo nel tessuto sociale le persone fragili come membri attivi, pur nella loro differenza. Non ha alcun senso, avverte il religioso, considerare le persone con disabilità privilegiate o svantaggiate grazie al preteso peccato presente o assente.

Un imbarazzo antico quello che collega la malattia e la disabilità al peccato, che ascoltiamo anche dai discepoli nel testo evangelico.

Nel Vangelo di Giovanni Gesù incontra il cieco dalla nascita.

Passando, vide un uomo cieco dalla nascita e i suoi discepoli lo interrogarono: “Rabbì, chi ha peccato, lui o i suoi genitori, perché sia nato cieco?” Rispose Gesù: “Né lui ha peccato né i suoi genitori, ma è perché in lui siano manifestate le opere di Dio”.

Tonino Urgesi sottolinea che “La disabilità non c’entra nulla con la volontà di Dio; è solo una condizione da vivere”, ed è compito di tutti dare la possibilità ai fragili di farlo con dignità, “realizzando una società con una nuova cultura che sappia rimettere al proprio centro i bisogni e le necessità di ogni essere umano.

Come si può fare dunque la volontà di Dio in questo mondo se non dando a chiunque dignità e possibilità di vivere la propria vita e i propri desideri?

Ecco forse ora siamo in grado di trovare una risposta a quel nostro cieco dalla nascita: noi dovremmo essere voce e vista per quel cieco, noi dovremmo togliere dalle periferie della città ogni persona con disabilità e ogni uomo, noi dovremmo riempire i vuoti dell’esistenza dell’altro che si relaziona con noi, ma non lo stiamo facendo” (cfr. Dialogo su disabilità e fede, 10 luglio 2020).

Non solo la disabilità non è né una punizione né una benedizione, ma va contestata anche la convinzione che l’unico accesso alla fede sia l’intelletto, e che quindi ci sia bisogno di un passaggio cognitivo, di un “quantum” intellettivo per vivere la fede e i sacramenti.

Già Papa Benedetto nell’enciclica “Lumen Fidei” aveva aspramente criticato un simile approccio, affermando chiaramente che la Chiesa ha errato nell’assegnare tutto questo potere ad un solo senso, appunto all’intelletto.

Alla fede e alla vita spirituale si accede per ogni via e senso, anche attraverso ciò che l’uomo ancora non comprende. La disabilità mentale, quindi, non può mai essere intesa come limite in sé.

Il ruolo delle persone di fede è, anzitutto, capire che nell’altro esiste un volto, una persona, che ha la stessa sete e la stessa nostalgia di Dio.

La dimensione del trascendente deve essere intesa come ulteriore (trascendente, appunto) rispetto alla capacità cognitiva. La relazione è certamente più un’esperienza che un concetto, tanto che la ragione può persino danneggiarla (ad es. quando giudichiamo gli altri e noi stessi in modo categorico, limitando o annullando la possibilità di accogliere o di essere accolti). Il senso della vita è un orizzonte ultimo che difficilmente può essere ricondotto entro i domini di ciò che immediatamente comprendiamo ed etichettiamo.

L’atto di fede non dipende, quindi, dalle capacità umane: è l’uomo a dipendere dalla grazia di Dio (cfr. R. Franchini, La vita spirituale nelle persone con disabilità ...” cit.).

Il sacerdote Justin Glyn avverte che “se la Chiesa in termini teologici non sa parlare della disabilità è la teologia della Chiesa ad avere una disabilità.

Se la teologia non sa parlare di Dio comprendendo la disabilità, è la teologia ad essere disabile, a mostrare un’incapacità imbarazzante.

Abbiamo bisogno di un pensiero teologico forte sulla disabilità, che sappia accogliere le tante domande che affiorano, dando loro la dignità di un pensiero teologico.

Un cambiamento radicale che ci aiuterà anche nella vita delle comunità, nelle scelte pastorali.

La grazia di Dio riguarda il rapporto continuo di Dio con gli esseri umani, con tutti gli esseri umani, che ricevono lo spirito Santo dentro di sé e rispondono a Dio nel limite delle loro possibilità.

Nessuno è escluso, perché nessuno di noi è stato concepito per rimanere fuori.

Nell’ambito della Chiesa le persone non possono essere descritte per il loro limite, ma solo come portatrici della grazia di Dio”.

Il paradosso è ben spiegato nelle parole di San Paolo alla comunità di Corinto (1 Cor 1,27): “… quello che è debole per il mondo, Dio lo ha scelto per confondere i forti”.

Dobbiamo quindi partire dal presupposto che i limiti, le debolezze e le fragilità personali non sono un ostacolo per Dio, che è in grado di raggiungere il cuore di tutti.

È la catechesi che deve farsi prossima, e quindi valorizzare l’uso del corpo e del movimento e le altre esperienze sensoriali a trovare un linguaggio massimamente inclusivo” (Suor Veronica Donatello, Responsabile del settore per la catechesi dei disabili dell’ufficio catechistico nazionale della CEI, intervento al Convegno “Vivere la fede è un diritto” in Toscana oggi.it 20 maggio 2022).

Come sottolineato dal Prof Giuseppe Morandi per l’Ufficio Catechistico nazionale “Se la Chiesa battezza il bambino senza chiedergli una prestazione di tipo personale, libera e volontaria, lo fa nella fede della sua famiglia della sua comunità.

Il fatto che una persona con disabilità ci appare (anche per non conoscenza della sua reale condizione) con limiti di comprensione, questo non è un motivo sufficiente per l’esclusione delle persone fragili dai sacramenti: un comportamento siffatto si porrebbe ancora una volta come un estremo marchio di rifiuto da parte della società e della stessa comunità ecclesiale.

I sacramenti sono al centro del mistero cristiano, viverli rimane un’esperienza necessaria per tutti”.

Non esiste, quindi, un noi e un loro, esiste solo un noi: le persone con disabilità fanno parte della Chiesa, ne devono essere presenze partecipi, e deve essere riconosciuta loro una ministerialità dei talenti.

In fondo esistono esempi nella Chiesa di santi, come Santa Margherita da Città di Castello, Santa Germaine Cousin, Beato Manuel Lozano Garrido, tutti affetti da pluridisabilità, a dimostrazione di una santità possibile al di fuori di una fallace idea di limite.

Anzi le persone con disabilità e le loro storie possono essere un aiuto nel narrare una diversa immagine dell’uomo, di tutti gli uomini, esaltando il valore di appartenere, piuttosto che solo quello di essere indipendenti.

O meglio potrebbero aiutare a rappresentare un diverso tipo di indipendenza, che si ottiene nella relazione con coloro che quotidianamente ci sono d’aiuto e si prendono cura di noi.

Non si è mai indipendenti da soli: viviamo in una comunità e quindi con gli altri, in una costante dimensione relazionale.

Siamo indipendenti nella dipendenza. (John Swinton, docente di teologia presso l’Università di Aberdeen – Scozia, 2011)

C’è, quindi, una ragione che fonda il diritto dovere dei fedeli con disabilità di ricevere e celebrare i sacramenti, ed è insita nello spirito stesso della liturgia, che è essenzialmente relazione e comunicazione tra Dio e il suo popolo. Le persone fragili oggi sono e restano protagoniste della loro vita spirituale e di fede, e nella Chiesa non sono né possono essere semplicemente qualcuno da aiutare o da assistere.

Se anche le persone con disabilità non fossero in grado di attribuire a Dio l’esperienza che stanno vivendo, questa impossibilità ha davvero un peso?

Se lo avesse, dovremmo accettare il fatto che Dio entri in relazione con l’uomo solo quando l’uomo è in grado di attribuire a Lui la relazione stessa”. (cfr. R. Franchini, La vita spirituale nelle persone con disabilità...” cit.).

Ma Dio non ha bisogno di essere riconosciuto per entrare in relazione: Dio è trascendente e si fa carico della limitatezza dell’uomo. Il limite, anche laddove amplificato dalla disabilità grave e profonda, non può di per sé costituire un ostacolo alla relazione con Dio.

In occasione dell’ultima giornata internazionale delle persone con disabilità, Papa Francesco, nel denunciare la cultura dello scarto, ha affermato rivolgendosi alle persone fragili e alle loro famiglie che “la Chiesa vi ama, e ha bisogno di ognuno di voi per compiere la sua missione al servizio del Vangelo”.

Bisogna tuttavia prestare attenzione alle barriere culturali e comunicative.

Come afferma John Swinton “le comunità religiose potrebbero creare barriere legate alla natura delle forme di espressione [...] assumere una base cognitiva per la spiritualità ed esigere una risposta di tipo intellettuale (insita in alcune formulazioni verbali) esclude le persone con disabilità, non perché sono meno spirituali, ma a causa del modo attraverso cui la spiritualità viene definita”.

Oggi nella Chiesa la pluridisabilità è intesa e vissuta come un fattore contingente, nascosta nel mistero dell’imperfezione di una creazione che attende con impazienza e travaglio di nascere alla libertà vera e piena di sé stessa.

Papa Francesco ci invita a passare dal perché al per chi: non si può smettere di chiedersi il perché di tante cose, di noi stessi e della realtà, e quindi lo stesso perché della disabilità. Ma si può dedicare lo stesso impegno anche al per chi della mia vita, nella condizione in cui sono. Per chi sono io?

Esiste per il Pontefice una legittimità dell’urlo umano nei confronti del dolore, testimoniata dall’esperienza biblica di Giobbe che grida la sua protesta contro il mistero del male e poi acquisisce la sicurezza che il Signore nella sua tenerezza gli renderà giustizia.

Esiste, quindi, un diritto della vittima alla protesta nei confronti del mistero del male, un diritto che Dio concede a chiunque, anzi che è lui stesso in fondo ad ispirare.

Come ha sottolineato lo scrittore britannico C.S. Lewis “La sofferenza richiama sempre la tensione, Dio sussurra nei nostri piaceri, parla nelle nostre coscienze ma grida nelle nostre sofferenze; il dolore è sul megafono per svegliare un mondo sordo dal problema della sofferenza”(cfr. Il problema della sofferenza – 1988).

È per questo che la ricerca spirituale sfocia con naturalezza nella disabilità. Gli interrogativi che animano l’inquietudine verso il trascendente provengono da esperienze limite, come la sofferenza e la morte, “spazi liminali in cui il presente e l’eterno si toccano e cristallizzano domande e risposte di significato” (William C. Gaventa, Nascosto in bella vista: spiritualità, disabilità intellettive e dello sviluppo, integrità, in Spiritualità e qualità di vita, rivista XI/2021 Opera Don Orione).

Il limite è una caratteristica intrinseca ed universale della condizione umana.

E la disabilità ha un forte potere rivelatore, smascherando la fragilità di molti miti: il potere, l’indipendenza, l’individualismo, la competizione.

L’evidenza empirica è che tutti dipendiamo in tutto, persino nel nostro diventare persona.

Noi siamo perché altri sono.

È la vulnerabilità che accomuna l’esperienza di tutti gli uomini, anche quella spirituale e di fede.

 

Disabilità ed ebraismo

di avv. Barbara Bottecchia

Nella vita quotidiana ebraica vi è sicuramente la fede e la spiritualità ma ciò che veramente conta è l’osservanza delle mizvoth (precetti).

La vita dell’ebreo osservante è costellata di regole che lo accompagnano durante il corso delle sue giornate e che sono presenti nel ciclo della sua vita.

La Torah (la bibbia ebraica) va studiata quotidianamente e nelle Yeshivoth (scuole rabbiniche) lo studio procede sempre in coppia. Lo studio è discussione, interpretazione del testo, lo specchio dell’altro e approfondimento delle parole e del pensiero dell’altro in un continuo movimento dialogico.

L’alterità è un principio fondante dell’ebraismo e l’uomo è creato ad immagine e somiglianza divina, e dunque nell’altro c’è sempre il riflesso di Dio.

Tra le regole quotidiane più importanti vi è quella di recitare le berakhoth (ovvero le benedizioni): se si mangia del cibo, o si beve, si deve recitare una benedizione prima e una dopo, se si respira il profumo dell’erba, la fragranza delle spezie, l’aroma dei frutti va pronunciata la benedizione su questi piaceri. Lo stesso si applica ai piaceri della vista: se si vede la luce del sole, oppure sbocciare la primavera va pronunciata la relativa benedizione. Vi sono poi altre regole per i piaceri derivanti dall’udito, o ancora quelle che si recitano prima di indossare un indumento per la prima volta o quelle che accompagnano le normali azioni quotidiane, come lavarsi le mani o quelle prima di recitare un testo sacro e altre ancora in incontri eccezionali ad esempio quando si vede un arcobaleno o si incontra un Re. Il percorso di chi cresce e vive con disabilità è analogo a quello di tutti e di ciascuno: evidente, quindi, la difficoltà quotidiana di chi ha qualche deficit.

Nel Talmud (la legge orale, interpretazioni rabbiniche della Torah) è indicata una particolare benedizione che va recitata quando si incontrano persone con caratteri particolari (molto alto, molto basso, albino ..) la benedizione è la seguente “Benedetto colui che ha fatto le creature diverse l’una dall’altra. Diversa la benedizione prevista quando si incontra una persona che presenta una disabilità (zoppia sordità ecc) la benedizione in questo caso è “Benedetto il vero giudice”.

L’atteggiamento che un gruppo sociale riserva alle persone con disabilità riflette l’etica ed il livello di morale e di sviluppo di quel gruppo, che potrà porsi in termini di inclusione, di sostegno e di opportunità.

L’ebraismo ha sempre dedicato grande attenzione alla disabilità sol che si pensi alle figure bibliche più conosciute e fondanti l’essenza stessa dell’ebraicista: da un lato lo stesso Moshe era balbuziente, Isacco divenne cieco in tarda età e Giacobbe dopo la lotta con l’angelo diventa zoppo e assume il nome di Israël, dall’altra pressoché tutte le matriarche sono sterili.

I bambini ebrei, quindi, crescono ascoltando fin da piccolissimi storie che hanno come protagonisti degli Eroi che potrebbero definirsi “diversi”, e questo permette loro di ritenere non importanti per compiere imprese e lavori significativi essere perfetti secondo i canoni classici, e questa è una caratteristica della pedagogia ebraica. Anche famosi rabbini e maestri di Talmud spesso sono non vedenti o comunque hanno un qualche difetto fisico.

Per la tradizione ebraica fin dall’antichità, nonostante il diverso approccio di culture limitrofe, come ad esempio quella greca, i bambini disabili non venivano eliminati e qualunque uccisione di un infante era considerata omicidio.

Anche durante il Seder di Pesach nella Hagaddà, che narra la storia dell’uscita del popolo ebraico dall’Egitto, si discute del modo corretto di crescere quattro tipi diversi di figlio: il saggio il cattivo il semplice e quello che non sa fare domande, che alcuni interpretano appunto come il figlio problematico. Il suggerimento è di non porsi verso di lui in posizione cattedratica ma il più stimolante possibile, per fare uscire quello che c’è in lui.

L’identità di una persona non può essere imprigionata nella percentuale della sua disabilità, ma va fatta emergere cercando di farla vivere con la promessa e la forza della percentuale della sua autonomia e abilità residua.

Anche nel Talmud si trova un midrash istruttivo: si narra che un giorno il Rabbino Fresa aveva anticipato ai suoi allievi che avrebbe finito prima la lezione perché aveva un impegno; tra gli allievi ce n’era uno che aveva bisogno di particolare attenzione. Alla fine della lezione un allievo disse che non aveva compreso, ed il rabbino si fermò e ripetè la lezione per altre 400 volte.

Nei Pirke Avot (Massime dei Padri, raccolta di insegnamenti etici e massime risalenti ai rabbini dell’era mishnaica) si afferma che non si deve disprezzare nessuno, perché non c’è alcun individuo che non ha il proprio momento o il proprio spazio.

Come abbiamo detto, la religiosità ebraica comporta numerosi obblighi quotidiani ma la normativa riconoscendo che alcuni individui hanno dei limiti fisici o psichici che impediscono loro una perfetta osservanza, li esenta dai precetti che non riescono a mettere in pratica e li esorta sempre a sfruttare al massimo le proprie potenzialità, raccomandando a tutti di aiutarli in modo da poter rendere possibile anche la loro osservanza.

Ad esempio, i non vedenti non possono leggere pubblicamente la Torah perché la lettura deve essere effettuata da un testo e non a memoria, ma possono essere chiamati a recitare le benedizioni; un cieco può essere officiante ma non può effettuare la shekità, perché è necessario vedere bene per evitare dolore inutile all’animale, mentre un sordomuto la può fare.

Il mondo rabbinico nel XIX secolo fu all’avanguardia nel domandarsi se il progresso raggiunto nell’educazione  dei sordomuti potesse portare ad un mutamento di atteggiamento nei loro confronti nell’officiature.

Molto importante fu l’apporto del rabbino tedesco Azriel Eldesehimer, che in uno dei suoi responsa scrisse che la decisione in merito dipendeva dalla considerazione dell’intelligenza dei sordomuti, se questa dovesse essere considerata come compromessa in maniera definitiva, o si trattasse piuttosto di un “tesoro nascosto”. Questa affermazione estremamente coraggiosa per quei tempi portò ad una riconsiderazione globale della questione, tale da condurre i sordomuti ad una quasi totale reintegrazione agli obblighi religiosi.

Concludendo questi brevi cenni l’atteggiamento ebraico nei confronti delle persone con disabilità non è decretato dal Cielo: solo ponendo i disabili nel cuore della comunità, ogni singolo individuo può prendere parte al Tikkun olam (la riparazione del mondo).

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