Assegno divorzile in funzione perequativo-compensativa: nessun rilievo alle specifiche “motivazioni” se vie è nesso causale tra rinuncia professionale e vita familiare

11 NOVEMBRE 2024 | Mantenimento del coniuge

di Avv. Chiara Curculescu

IL CASO. Il Tribunale di Lodi, con sentenza del 16.8.2021, dichiarava la cessazione degli effetti civili del matrimonio celebrato tra due coniugi, disponendo a carico dell’ex marito il versamento di euro 1.000,00 quale contributo al mantenimento della figlia nonché di un assegno divorzile a favore della moglie di euro 800,00. In particolare, l’assegno divorzile veniva riconosciuto tenuto conto della durata del matrimonio (14 anni), dell’età della moglie (49 anni), della sua occupazione lavorativa quale insegnante e dell’apporto dalla stessa fornito alla vita familiare, con conseguente rinuncia alla propria “professionalità specifica”.

La Corte d’Appello, pronunciatasi sulla domanda di revoca dell’assegno divorzile proposta del marito fondata sull’assenza di qualsivoglia rinunzia professionale da parte della moglie, disponeva la riduzione dello stesso assegno ad euro 600,00. La Corte dava infatti atto dell’esistenza di un notevole squilibrio patrimoniale tra i due ex coniugi e comunque di un sacrificio professionale della ex moglie che negli anni si era dedicata all’accudimento delle figlie e all’organizzazione della vita familiare.

Avverso la pronuncia di appello l’ex marito proponeva ricorso per Cassazione sulla base di cinque motivi.

LA DECISIONE. Con ordinanza n. 18506 pubblicata l’8 luglio 2024 la Suprema Corte ha dichiarato l’inammissibilità del ricorso, condannando il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio, oltre all’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello già versato.

Il primo motivo denunciato, avente ad oggetto la violazione dell’art. 115 c.p.c. per travisamento della CTU disposta nel giudizio di separazione ed utilizzata anche nel giudizio di secondo grado a supporto della valorizzazione del ruolo della ex moglie all’interno della vita familiare, è stato ritenuto inammissibile, non potendosi escludere la dedizione della madre sulla base del solo fatto che venisse riconosciuto all’interno della stessa consulenza tecnica che il padre avesse “giocato con le figlie”.

Parimenti inammissibili sono risultati il secondo motivo, avente ad oggetto l’asserita mancata prova del nesso causale tra la rinuncia ad occasioni professionali dell’ex moglie e il suo contributo alla vita familiare e alla formazione del patrimonio comune, ed il terzo motivo, riguardante la contraddittorietà della motivazione in punto di rinuncia alle opportunità lavorative. La Suprema Corte, richiamando alcuni precedenti giurisprudenziali, ha sul punto evidenziato come “ai fini dell’assegno in funzione perequativo-compensativa non è attribuito rilievo specifico alle motivazioni delle rinunce professionali per la dedizione alla famiglia” a tal fine essendo sufficiente che “vi sia il nesso causale tra tale rinuncia e l’impegno familiare, che la scelta sia condivisa tra i coniugi e che, attraverso essa, il patrimonio comune o dell’altro coniuge si sia incrementato in ragione della dedizione esclusiva al lavoro del coniuge, indipendentemente dalle motivazioni che hanno indotto alla stessa scelta”.

Infine, anche il quarto ed il quinto motivo sono risultati inammissibili, in quanto volti a richiedere un riesame del merito, in quanto riguardanti la prova fornita sempre in relazione al contributo e dedizione dell’ex moglie al ménage familiare. A tale proposito, la Suprema Corte ha precisato, ribadendo principi già espressi dalla propria pronuncia n. 35434/2023, che l’assegno di divorzio “presuppone l’accertamento, anche mediante presunzioni, che lo squilibrio effettivo e di non modesta entità delle condizioni economico-patrimoniali delle parti sia causalmente riconducibile, in via esclusiva o prevalente, alle scelte comuni della vita familiare”.

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