I controversi aspetti dell’art. 4 d.l. 44/2021: nuovi orientamenti giurisprudenziali

di dott.ssa Fiorella Guidolin

Con recenti pronunce, alcuni Tribunali di merito hanno evidenziato certi aspetti controversi del d.l. n. 44/2021, il decreto che, come noto, ha introdotto l’obbligo vaccinale per il personale sanitario nell’ambito della situazione pandemica da Covid-19.

Vari sono i temi di volta in volta affrontati dai giudici:

- l’ambito di validità delle autorizzazioni condizionate, in relazione alle quali ci si è interrogati circa l’opportunità della scelta legislativa di imporre un obbligo vaccinale;

- la legittimità della sospensione dal posto di lavoro e dalla retribuzione per il personale non vaccinato;

-  le conseguenze legate all’annotazione del provvedimento di sospensione nell’albo dell’ordine di appartenenza, con impossibilità di svolgere qualsiasi prestazione connessa al titolo di abilitazione professionale (anche non comportante contatto con il pubblico, e neppure se attinente alla c.d. telemedicina);

- il rischio di eventuali trattamenti discriminatori e di disparità di trattamento tra il personale sanitario.

Appaiono significative quattro pronunce emesse tra i mesi di dicembre 2021 e marzo 2022, rispettivamente dal Tribunale di Padova, Catania e dal TAR Lombardia.

Il Tribunale ordinario di Padova, sezione lavoro, con ordinanza del 7 dicembre 2021 ha deciso sull’impugnazione del provvedimento di sospensione del lavoro e della retribuzione proposta da un’infermiera professionale in servizio presso l’Azienda Ospedale-Università di Padova a partire dal 1 gennaio 2017.

Con provvedimento datato 16 settembre 2021, l’Azienda padovana comunicava alla dipendente la sospensione dal lavoro con effetto immediato e senza diritto alla retribuzione, in applicazione dell’art. 4 d.l. n. 44/2021.  La lavoratrice risultava aver violato l’obbligo vaccinale e non era possibile adibirla a mansioni non implicanti il rischio di diffusione del contagio. La sospensione sarebbe durata fino all’adempimento dell’obbligo vaccinale o, in mancanza, fino al completamento del piano vaccinale e comunque non oltre il 31.12.2021.

Il 14.10.2021 la lavoratrice ha presentato ricorso d’urgenza, ai sensi dell’art. 700 c.p.c., evidenziando di non disporre di altri redditi da lavoro – che le sarebbero comunque preclusi a causa della sospensione dall’Albo professionale – e chiedendo, quindi, alla sezione Lavoro del Tribunale di Padova di essere riammessa in servizio, il tutto sul presupposto dell’illegittimità costituzionale dell’art. 4 del d.l. n. 44/2021 e del suo contrasto con la normativa europea.

L’art. 4 d.l. n. 44/2021, convertito dalla legge n. 76/2021,  dispone che:

co. I     “In considerazione della situazione di emergenza epidemiologica da SARS-CoV-2, fino alla completa attuazione del piano di cui all’art. 1 comma 457 della legge n. 178/2020 e comunque non oltre il 31 dicembre 2021, al fine di tutelare la salute pubblica e mantenere adeguate condizioni di sicurezza nell’erogazione delle prestazioni di cura e assistenza, gli esercenti le professioni sanitarie e gli operatori di interesse sanitario di cui all’art. 1 comma 2 legge n. 43/2006, che svolgono la loro attività nelle strutture sanitarie, sociosanitarie e socio-assistenziali, pubbliche e private, nelle farmacie, nelle parafarmacie e negli studi professionali sono obbligati a sottoporsi a vaccinazione gratuita per la prevenzione dell’infezione da SARS-CoV-2. La vaccinazione costituisce requisito essenziale per l’esercizio della professione e per lo svolgimento delle prestazioni lavorative dei soggetti obbligati. La vaccinazione è somministrata nel rispetto delle indicazioni fornite dalle regioni, dalle province autonome e dalle altre autorità sanitarie competenti, in conformità alle previsioni contenute nel piano”.

co. II “Solo in caso di accertato pericolo per la salute, in relazione a specifiche condizioni cliniche documentate, attestate dal medico di medicina generale, la vaccinazione di cui al comma 1 non è obbligatoria e può essere omessa o differita”.

Co. VI   “Decorsi i termini per l’attestazione dell’adempimento dell’obbligo vaccinale di cui al comma 5, l’azienda sanitaria locale competente accerta l’inosservanza dell’obbligo vaccinale e, previa acquisizione delle ulteriori eventuali informazioni presso le autorità competenti, ne dà immediata comunicazione scritta all’interessato, al datore di lavoro e all’Ordine professionale di appartenenza. L’adozione dell’atto di accertamento da parte dell’azienda sanitaria locale determina la sospensione dal diritto di svolgere prestazioni o mansioni che implicano contatti interpersonali o comportano, in qualsiasi altra forma, il rischio di diffusione del contagio da SARS-CoV-2”.

co. VII  “La sospensione di cui al comma 6 è comunicata immediatamente all’interessato dall’Ordine professionale di appartenenza”.

co. VIII  “Ricevuta la comunicazione di cui al comma 6, il datore di lavoro adibisce il lavoratore, ove possibile, a mansioni, anche inferiori, diverse da quelle indicate dal comma 6, con il trattamento corrispondente alle mansioni esercitate, e che, comunque, non implicano rischi di diffusione del contagio. Quando l’assegnazione a mansioni diverse non è possibile, per il periodo di sospensione di cui al comma 9 non sono dovuti la retribuzione né altro compenso o emolumento, comunque denominato”.

co. IX   “La sospensione di cui al comma 6 mantiene efficacia fino all’assolvimento dell’obbligo vaccinale o, in mancanza, fino al completamento del piano vaccinale nazionale e comunque non oltre il 31 dicembre 2021”.

co. X    “Salvo in ogni caso il disposto dell’art. 26, commi 2 e 2 bis del d.l. n. 18/2020 convertito con modificazioni dalla legge n. 27/2020, per il periodo in cui la vaccinazione di cui al comma 1 è omessa o differita e comunque non oltre il 31 dicembre 2021, il datore di lavoro adibisce i soggetti di cui al comma 2 a mansioni anche diverse, senza decurtazione della retribuzione, in modo tale da evitare il rischio di diffusione del contagio da SARS-CoV-2”.

co. XI   “Per il medesimo periodo di cui al comma 10, al fine di contenere il rischio di contagio, nell’esercizio dell’attività libero-professionale, i soggetti di cui al comma 2 adottano le misure di prevenzione igienico-sanitarie indicate dallo specifico protocollo di sicurezza adottato con decreto del Ministero della Salute, di concerto con i Ministri della giustizia e del lavoro e delle politiche sociali, entro 20 giorni dalla data di entrata in vigore del presente decreto”.

La ricorrente, a fondamento della propria pretesa di rispristino del rapporto di lavoro sospeso aveva segnalato di essere già stata contagiata e di essere guarita, conseguendo il cosiddetto effetto di “immunizzazione naturale”.

Il Tribunale, evidenziando la mole della letteratura in materia e il sovrabbondante dibattito scientifico in corso, ha ritenuto di non poter pronunciare sulla questione relativa alla maggiore pericolosità del vaccino rispetto al possibile contagio, e della preferibilità/opzionabilità di cure diverse, che ad oggi risulterebbero disponibili.

Sul piano strettamente giuridico, il giudice ha ritenuto necessario analizzare la validità delle autorizzazioni alla commercializzazione e alla somministrazione del vaccino, alla luce dell’art. 4 del Regolamento n.507/2006, per il quale l’autorizzazione condizionata alla somministrazione dei vaccini “può essere rilasciata quando, malgrado non sussistano dati clinici completi circa la sicurezza e l’efficacia del medicinale, siano rispettate tutte le seguenti condizioni:

  1. il rapporto rischio/beneficio del medicinale, quale definito dall’art. 1 paragrafo 28-bis della direttiva 2001/83/CE, risulta positivo;
  2. è probabile che il richiedente possa in seguito fornire dati clinici completi;
  3. il medicinale risponde ad esigenze mediche insoddisfatte;
  4. i benefici per la salute pubblica derivanti dalla disponibilità immediata sul mercato del medicinale in questione superano il rischio inerente al fatto che occorrano ancora dati supplementari”.

E ha valorizzato il dato della sussistenza, diversamente dai primi periodi di diffusione della pandemia, di nuove cure contro il Covid-19 (anticorpi monoclonali e antivirali, già approvati dall’AIFA), con la conseguenza che la condizione di cui alla lettera c) della norma richiamata verrebbe meno.

Su tale presupposto il Tribunale di Padova ha rimesso alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea la valutazione circa la validità delle autorizzazioni condizionate, emesse su parere favorevole dell’EMA, rispetto ai vaccini oggi in commercio.

Le autorizzazioni condizionate alla messa in commercio dei vaccini anti-Covid rappresentano, infatti, atti di diritto dell’Unione Europea e, come tali, sono valutabili sotto il profilo della loro legittimità soltanto dalla Corte di Giustizia, salva la possibilità del giudice nazionale di apprezzarne in via cautelare la possibile illegittimità comunitaria, con obbligo di rinvio immediato ex art. 267 TFUE.

La questione rimessa alla Corte di Giustizia riguarda anche ulteriori aspetti, oggetto di altrettanti quesiti:

  • Se i vaccini approvati dalla Commissione in forma condizionata, ai sensi e agli effetti del Regolamento n. 507/2006, possano essere utilizzati al fine della vaccinazione obbligatoria, anche qualora i sanitari per i quali la legge dello Stato membro abbia imposto il vaccino obbligatorio siano già stati contagiati, e abbiano quindi già raggiunto un’immunizzazione naturale e possano quindi chiedere una deroga all’obbligo;
  • Se, nel caso di sanitari per i quali la legge dello Stato membro abbia imposto il vaccino obbligatorio, i vaccini approvati dalla Commissione in forma condizionata (ai sensi e agli effetti del Regolamento n. 507/2006) possano essere utilizzati al fine della vaccinazione obbligatoria, senza procedimentalizzazione alcuna con finalità cautelativa; o se, in considerazione della condizionalità dell’autorizzazione, i sanitari medesimi possano opporsi all’inoculazione, quantomeno fintantoché l’autorità sanitaria deputata abbia escluso in concreto, e con ragionevole sicurezza, da un lato, che non vi siano controindicazioni in tal senso, dall’altro, che i benefici che ne derivano siano superiori a quelli derivanti da altri farmaci oggi a disposizione. E se, in tal caso, le autorità sanitarie deputate debbano procedere nel rispetto dell’art. 41 della Carta di Nizza;
  • Se, nel caso del vaccino autorizzato dalla commissione in forma condizionata, l’eventuale non assoggettamento al medesimo da parte del personale medico sanitario (nei cui confronti la legge dello Stato impone obbligatoriamente il vaccino) possa comportare automaticamente la sospensione dal posto di lavoro senza retribuzione, o se si debba prevedere una gradualità delle misure sanzionatorie in ossequio al principio fondamentale di proporzionalità;
  • Se, laddove il diritto nazionale consenta forme di dépegage, la verifica della possibilità di utilizzazione in forma alternativa del lavoratore debba avvenire nel rispetto del contraddittorio ai sensi e agli effetti dell’art. 41 della Carta di Nizza, con conseguente diritto al risarcimento del danno nel caso in cui ciò non sia avvenuto.

Altra questione affrontata dal Tribunale di Padova è il contrasto invocato dalla ricorrente del diritto nazionale con quello europeo (Regolamento n. 953/2021, norma direttamente applicabile ai sensi dell’art. 288 TFUE).

Sono, infatti, per il giudice disapplicabili le disposizioni della legislazione nazionale contrastanti con le disposizioni dei Trattati e con gli altri atti delle istituzioni con efficacia diretta, così come è impedita la valida formazione di atti legislativi nazionali nella misura in cui siano incompatibili con le norme comunitarie.

Per il giudice del lavoro padovano un punto della disciplina dell’art. 4 d.l. n. 44/2021 (commi nn. 5 e 11) è suscettibile di dare origine a problemi interpretativi e applicativi.

Nel Regolamento europeo citato (relativo al rilascio, verifica e accettazione del certificato COVID digitale dell’UE), viene specificata la necessità che le limitazioni - in questo caso alla libera circolazione delle persone - siano applicate in conformità ai principi generali del diritto dell’Unione: la proporzionalità e la non discriminazione.

Una lettura combinata dei commi 4 e 5 dell’art. 4 d.l. n. 44/2021 farebbe emergere un trattamento discriminatorio: il sanitario che non può, per una qualsiasi ragione sanitaria, essere assoggettato al vaccino può continuare a praticare la professione, sia pure nel rispetto delle regole di sicurezza; al contrario chi non vuole assoggettarsi al vaccino non può più esercitare l’attività professionale sanitaria, sia come dipendente sia come libero professionista, nonostante il rispetto delle stesse regole di sicurezza.

Da qui l’ulteriore quesito che il Tribunale di Padova ha sottoposto alla Corte di Giustizia, incentrato sul Regolamento n. 953/2021 (che vieta qualunque discriminazione fra chi ha assunto il vaccino e chi non ha voluto o potuto - per ragioni mediche – assumerlo).

Il dubbio è se possa considerarsi legittima una disciplina nazionale (art. 4 comma 11 del d.l. n. 44/2021) che prevede che il personale sanitario dichiarato esente dall’obbligo di vaccinazione possa esercitare la propria attività a contatto con il paziente, ancorché rispettando i presidi di sicurezza imposti dalla legislazione vigente, e non consente invece lo stesso al sanitario divenuto, come la ricorrente, naturalmente immune in seguito al contagio e che non voglia sottoporsi al vaccino senza approfondite indagini mediche, prevedendo piuttosto l’automatica sospensione da qualunque atto professionale e per giunta senza remunerazione.

Infine, l’ultimo quesito rimesso è legato alla giurisprudenza della recente Corte di Giustizia Memoria srl e Dell’Antonia c/Comune di Padova del 14 novembre 2018, C-342/17, e alle considerazioni contenute a margine dell’art. 53 della legge n. 234/2012.

Il tribunale Padovano chiede alla Corte se “sia compatibile con il Regolamento n. 953 del 2021 e i principi di proporzionalità e di non discriminazione ivi contenuti, la disciplina di uno Stato membro che imponga obbligatoriamente il vaccino anti-Covid – autorizzato in via condizionata dalla Commissione – a tutto il personale sanitario anche se proveniente da altro Stato membro e sia presente in Italia ai fini dell’esercizio della libera prestazione dei servizi e della libertà di stabilimento”.

Il giudizio è stato sospeso in attesa della pronuncia pregiudiziale.

Significativa è anche l’ordinanza n. R.G.L. 576/2022 del 14 marzo scorso, con la quale il Tribunale di Catania ha ritenuto non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale relativa all’art. 4 co. 5 del d.l. 44/2021, nella parte in cui, nel prevedere che per il periodo di sospensione non sono dovuti la retribuzione né altro emolumento, comunque denominato, esclude in favore del pubblico dipendente esercente una professione sanitaria o di interesse sanitario, nel periodo di sospensione ex art. 4 d.l. 44/2021, l’erogazione dell’assegno alimentare (comunque denominato) previsto dalla legge ovvero dalla contrattazione collettiva di categoria in caso di sospensione cautelare o disciplinare.

Anche il Tribunale amministrativo regionale della Lombardia, con la sentenza n. 109 del 17 gennaio 2022, si è pronunciato fra l’altro sul tema del diritto al lavoro dei sanitari anche in funzione di tutela della salute pubblica.

Il ricorrente, titolare di uno studio professionale era stato invitato (in data 13 maggio 2021) dall’Agenzia di Tutela della Salute a produrre la documentazione attestante l’avvenuta vaccinazione o la presentazione della sua richiesta o, in alternativa, la documentazione attestante l’omissione o il differimento della stessa, o l’insussistenza dei presupposti dell’obbligo vaccinale.

In assenza di riscontro, l’ATS (in data 14 giugno 2021) ha rinnovato l’invito a sottoporsi alla somministrazione del vaccino o a produrre la documentazione attestante l’avvenuta prenotazione dello stesso con espresso avvertimento che, in difetto, avrebbe proceduto all’adozione dell’atto di accertamento dell’inosservanza dell’obbligo vaccinale e alla sua comunicazione all’Ordine professionale di appartenenza.

Con ricorso notificato il 7 luglio 2021, il ricorrente ha chiesto, previa sospensione della loro efficacia, l’annullamento degli inviti dell’ATS a sottoporsi alla vaccinazione obbligatoria per contrasto della norma impositiva dell’obbligo vaccinale con il diritto euro-unitario e convenzionale, in particolare con l’art. 3 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea e con l’articolo 8 della CEDU, nonché con il principio di proporzionalità. E la necessità di disapplicazione di detta norma dalla ATS, in ossequio al principio di primazia del diritto dell’Unione europea.

Il ricorrente ha pertanto chiesto al Tribunale, con il ricorso e con successivi motivi aggiunti, di dichiarare l’illegittimità derivata degli atti impugnati, per contrasto della normativa interna che li disciplina con l’art. 3 della CDFUE, con l’art. 8 della CEDU e con il principio di proporzionalità; di sollevare la relativa questione pregiudiziale davanti alla Corte di Giustizia dell’Unione europea in relazione all’art. 52 CDFUE; di sollevare la relativa questione di legittimità costituzionale per contrasto con gli artt. 11 e 117 comma 1 Cost. e con il principio di proporzionalità.

Ha eccepito, altresì, il contrasto dell’art. 4 d.l. n. 44/2021:

- con gli art. 2,3,13 e 32 Cost. e con i principi di proporzionalità, di ragionevolezza e di precauzione, sotto i distinti profili della violazione della libertà di autodeterminazione, della carenza delle condizioni di sicurezza e di efficacia del trattamento sanitario obbligatorio e dell’insussistenza dei presupposti per la formazione del consenso informato alla somministrazione del vaccino; con i principi di eguaglianza, proporzionalità e ragionevolezza, per carenza dei requisiti della necessità e dell’idoneità del trattamento sanitario a ridurre i contagi da SARS-CoV-2 nonché della discriminazione che gli esercenti le professioni sanitarie e gli operatori di interesse sanitario subiscono sia nei confronti della generalità degli individui che, all’interno della medesima categoria, tra professionisti privati e professionisti che operano alle dipendenze di strutture sanitarie pubbliche;

- con gli artt. 9, 21 e 33 della Costituzione, sotto il profilo del mancato rispetto della libertà della ricerca scientifica, per come delineata anche dall’art. 13 della CDFUE, non avendo riconosciuto ai sanitari la possibilità di adottare soluzioni alternative per la prevenzione del contagio da SARS-CoV-2;

- con gli articoli 1,2,3,4,35 e 36 della Costituzione, sotto il profilo della irragionevolezza e della sproporzione della misura della sospensione dall’esercizio della professione, quale conseguenza dell’inadempimento dell’obbligo vaccinale, per i liberi professionisti esercenti le professioni sanitarie, e sotto il profilo della disparità di trattamento tra lavoratori dipendenti e lavoratori autonomi, nonché tra lavoratori portatori di patologie tali da giustificare l’esenzione dell’obbligo vaccinale e lavoratori sani;

- con gli articoli 1,2,3,4,35,36 e 97 Cost., per l’automatismo preclusivo all’esercizio della professione, quale effetto derivante dall’adozione dell’atto di accertamento dell’inosservanza dell’obbligo vaccinale.

Ha resistito in giudizio l’ATS eccependo il difetto di giurisdizione, l’incompetenza territoriale del TAR Lombardia in favore del TAR Lazio; l’inammissibilità del ricorso per carenza di interesse ad agire, attesa la non immediata lesività degli atti impugnati.

Disattese le questioni di giurisdizione e competenza sollevate, il Collegio ha ritenuto infondati i primi quattro motivi del ricorso introduttivo, con i quali è stata dedotta l’illegittimità degli atti impugnati per contrasto con il diritto euro-unitario e convenzionale della norma che ha introdotto - in via temporanea e fino al termine massimo del 31 dicembre 2021 - l’obbligo vaccinale per il personale sanitario.

Sono stati ritenuti insussistenti i presupposti dell’obbligo di disapplicazione della norma interna confliggente con il diritto euro-unitario: ai sensi dell’art. 51 CDFUE infatti, l’obbligo di promuovere l’applicazione delle disposizioni della Carta è limitato all’attuazione delle competenze dell’Unione, tra le quali non rientra l’intervento sanitario in tema di vaccinazioni obbligatorie, poiché regolato esclusivamente dalla normativa interna degli Stati membri.

Pertanto, in assenza di una specifica normativa europea rispetto alla quale commisurare la contrarietà della normativa interna, non sarebbe configurabile alcun obbligo di disapplicazione della stessa per contrasto con il diritto dell’Unione.

Per il collegio l’interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 4 d.l. n. 44/2021 (con tutela del diritto a svolgere la professione sanitaria e del diritto di guadagnare dal proprio lavoro un compenso che fornisca le risorse necessarie ad assicurare al lavoratore e alla sua famiglia un’esistenza libera e dignitosa) richiede l’individuazione di limitazioni all’esercizio della professione o dell’attività lavorativa che siano proporzionate rispetto allo scopo da raggiungere, in modo che, all’esito del raffronto tra i benefici legati al raggiungimento dell’interesse primario ed i sacrifici relativi agli interessi personali, nessun interesse esca inutilmente frustrato.

Ne consegue che gli effetti dell’atto di accertamento dell’inadempimento dell’obbligo vaccinale devono essere limitati alle sole mansioni che comportino contatti interpersonali e a quelle che, pur non svolgendosi mediante un contatto interpersonale, comportino un rischio di diffusione del contagio da SARS-CoV-2.

Pertanto le mansioni di cui il legislatore ha vietato lo svolgimento sono solo quelle che implicano, in senso materiale, uno stretto accostamento fisico tra individui.

Tali non sono quelle realizzabili  grazie alla tecnologia sanitaria e che possono essere svolte senza necessità di contatti interpersonali fisici (attività di telemedicina, di consulenza, di formazione e di educazione sanitaria, di consultazione a distanza mediante gli strumenti telematici o telefonici, particolarmente utili per effettuare una prima diagnosi sulla base dei referti disponibili nel fascicolo sanitario telematico, e per fornire un’immediata e qualificata risposta alla crescente domanda di informazione sanitaria).

Né la sospensione dal diritto di svolgere prestazioni o mansioni che implicano contatti interpersonali o che comportino comunque il rischio di diffusione del contagio può coincidere con la sospensione all’iscrizione dall’albo professionale, viste le conseguenze di notevole rilievo non solo sotto il profilo disciplinare, ma anche civile e penale.

L’art. 2231 c.c. prescrive, infatti, che il contratto stipulato con il professionista non iscritto all’albo è nullo e non conferisce alcuna azione per il pagamento della retribuzione, neppure quella sussidiaria di cui all’art. 2041 c.c. Il professionista che eserciti pur sospeso dall’albo rientra tra i soggetti attivi del delitto di esercizio abusivo della professione, ex art. 348 c.p.

Il collegio ha, quindi, annullato l’atto di accertamento dell’ATS nella parte in cui estende la sospensione dal diritto di svolgere le prestazioni professionali anche a quelle che, per loro natura o per le modalità di svolgimento, non implicano contatti interpersonali o non siano rischiose per la diffusione del contagio da SARS-CoV-2.

Fermo che l’esercizio della professione, al di fuori di tali limiti, è idoneo ad integrare un comportamento illecito, rilevante a tutti gli effetti di legge.

 

Sempre il TAR per la Lombardia, con ordinanza n. 192 del 14 febbraio 2022, ha deciso sulla sospensione di una psicologa, non vaccinata, dall’esercizio della professione, comminata con provvedimento del 22 dicembre 2022 dall’Ordine degli Psicologi della Lombardia e annotata sull’Albo.

Il collegio ha ritenuto di sollevare la questione di legittimità costituzionale in relazione all’art. 4 comma 4 d.l. n. 44/2021, nella parte in cui prevede l’immediata sospensione dall’esercizio delle professioni sanitarie quale effetto dell’accertamento dell’inadempimento dell’obbligo vaccinale.

Nelle more ha deciso sulla domanda cautelare e parzialmente sospeso il provvedimento impugnato, nella parte in cui non limita la sospensione della ricorrente dall’esercizio della professione di psicologa alle prestazioni che implicano contatti interpersonali o comportano, in qualsiasi altra forma, il rischio di diffusione del contagio da SARS-CoV-2, con conseguente annotazione della limitazione della sospensione nell’Albo professionale degli Psicologi.

I giudici hanno ritenuto, anche in questo caso, che la preclusione assoluta dell’esercizio della professione, imposta dalla norma sospettata di illegittimità, integra un pregiudizio grave e non altrimenti riparabile all’avviamento dell’attività professionale intrapresa, consistente nella perdita della clientela e delle relazioni professionali nonché nell’impossibilità di rispondere alla crescente domanda di prestazioni sanitarie.

 

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