Chi decide della salute del paziente incapace?

Il caso deciso dal Giudice tutelare del Tribunale di Mantova, con decreto del 06.12.2018, riguarda una persona beneficiaria di Amministrazione di Sostegno, affetta da grave encefalopatia connatale con tetraparesi ed importante oligofrenia, con invalidità pari al 100%.
Il Giudice tutelare viene adito dall’ADS, che non concorda con l’indicazione dei sanitari curanti sulla necessità di immediato posizionamento della p.e.g..
In presenza di dissenso del rappresentante legale, il conflitto viene risolto dal Giudice ai sensi dell’art. 3 co. 5 della legge n. 219/2017.
Il contrasto inerisce la valutazione medica di appropriatezza e necessità attuale dell’intervento sanitario: acquisita la relazione di altro specialista, il giudice, aderendo alle osservazioni dell’ADS, non ritiene che ricorra una situazione di emergenza o di urgenza; né l’indispensabilità attuale di una nutrizione tramite sonda, statuendo che, previo costante monitoraggio, la decisione sull’eventuale posizionamento della p.e.g. possa essere differita al peggioramento delle condizioni del paziente.
Il giudice motiva la propria decisione in applicazione dei valori espressi dalla legge 219/2017, in particolare nell’art. 1 co. 3, che nel caso deciso implicano il bilanciamento dei rischi e dei benefici (anche relativi alle più generali condizioni di vita del paziente) tra la terapia proposta dai medici curanti e quella alternativa suggerita dal medico specialista, che garantisce il perdurare di migliori condizioni di vita senza che sia messa in pericolo la salute della persona. Di qui il dispositivo, che autorizza l’ADS a rifiutare il trattamento medico proposto dai curanti.
La decisione in commento costituisce attuazione dei principi fondamentali contenuti nella legge 219/2017, riconosciuti ad ogni paziente nella relazione di cura (la cui applicazione alle persone “incapaci” è espressamente prevista con il richiamo del primo comma dell’art. 3).

Il comma 5° dell’art. 3 regola il caso in cui l’amministratore di sostegno o il rappresentante legale della persona incapace, in assenza di disposizioni anticipate di trattamento (DAT), rifiuti le cure che il medico ritenga appropriate e necessarie. La decisione è rimessa al Giudice tutelare su ricorso del legale rappresentate o degli altri soggetti contemplati dagli art. 406 e ss. c.c. (e, dunque, anche dal pubblico ministero) o dal medico o del rappresentante legale della struttura sanitaria.

Si tratta di un’importante norma di chiusura del sistema di protezione della salute dei soggetti deboli.
Il principio ispiratore della vigente disciplina è, infatti, il diritto riconosciuto ad ogni persona, e quindi anche alle persone incapaci, al rispetto della propria volontà di accettazione o di rifiuto di un trattamento sanitario; ciò anche in caso di sopravvenuta impossibilità di autodeterminazione, condizione che impone sempre, ove possibile, la ricostruzione della volontà soggettiva, prima di procedere all’individuazione del best interest su basi esclusivamente oggettive.
Il comma quinto regola l’eventuale conflitto sulle scelte sanitarie tra rappresentante legale e medico, attribuendo al Giudice tutelare il potere/dovere di valutare quale sia la migliore scelta nel caso concreto, ricostruendo la volontà del soggetto.
La norma si applica infatti ai soggetti incapaci ormai privi di possibilità di autodeterminazione: ciò si evince dal richiamo espresso alle DAT, la cui efficacia giuridica è appunto sottoposta dal successivo art. 4 a tale condizione giuridica.
Nel diverso caso del paziente consapevole, anche se incapace, la scelta terapeutica è ex lege (art. 3 commi da 1 a 4) la risultante dell’incontro tra la volontà del rappresentato e del suo rappresentante, che dovrà garantire al primo la valorizzazione delle capacità residue di comprensione e di decisione, nel rispetto dei diritti di cui all'articolo 1;  e, a monte, il suo diritto a ricevere informazioni sulle scelte relative alla salute, in modo consono alle sue capacità, perché appunto possa esprimere una sua volontà di cura, di cui dovrà poi tener conto (avendo come solo scopo la tutela della sua salute psicofisica e della vita nel pieno rispetto della sua dignità).
Una tale volontà, legalmente formata, e quindi comunicata dal rappresentate legale ai curanti è, in base ai principi generali della legge, vincolante per il medico, sia in caso di accettazione delle cure proposte, sia in caso di rifiuto.
Ovviamente in ipotesi di rifiuto/interruzione delle cure, con potenziale danno alla salute, il ricorso al GT è sempre previsto e/o desumibile dalle norme codicistiche che regolano i vari istituti di protezione.
Oggetto della verifica del giudice sarà la regolare formazione della volontà nell’ambito del rapporto rappresentato-rappresentante nel rispetto dei principi normativi degli artt. 1 e 3 della legge 219/2017.
Non è infatti possibile per il medico interferire sulla volontà, regolarmente formata, di un paziente, anche in presenza di rifiuto/interruzione di cure utili e appropriate.

Rifiuto, revoca del consenso, interruzione del trattamento sono diritti che la legge garantisce a tutti i pazienti, e che non trovano una limitazione nella condizione di minorazione fisica o psichica, ma solo un diverso e più articolato modo di esercizio.

Emblematica, in tal senso, la disciplina dell’art. 410 c.c., che prevede per regola generale il ricorso al GT in caso di contrasto tra ADS e amministrato o in caso di atti potenzialmente dannosi per quest’ultimo (come è sicuramente il rifiuto/interruzione di cure utili, necessarie e appropriate).
Ovviamente per il medico il carattere vincolante della determinazione sanitaria, con conseguente scriminante sul piano giuridico, dipende dalla “validità” del consenso prestato e quindi dall’avvenuto rispetto delle norme che ne regolano la formazione e l’espressione.
Pertanto sicuramente anche il medico e/o la struttura sanitaria possono adire il GT per la verifica della validità giuridica della scelta terapeutica effettuata dal rappresentante, sotto il profilo del regolare svolgimento suo del “processo” formativo.
Ciò sulla base delle norme generali, e non del comma quinto dell’art. 3 della legge 219/2017.
Sul piano ermeneutico deve considerarsi infatti che la volontà dell’incapace è sempre rilevante quando si tratta di decidere della sua salute.

Il paziente incapace deve essere sempre aiutato, nei limiti in cui lo consentono le sue condizioni psico fisiche, ad adottare una scelta conforme alla sua personalità e alla sua dignità, alla sua visione della vita, senza subire alcuna coartazione, soprattutto da chi provvede alla sua assistenza/rappresentanza o dai sanitari che lo hanno in cura.

Egli è e rimane un “soggetto” di cura e non un “oggetto di cura”: la “reificazione del corpo del paziente incapace” è un’azione eticamente riprovevole e assolutamente antigiuridica, figlia di una cura concepita come “custodia” e della segregazione della diversità e fragilità umana.
Dopo la convenzione ONU sulla disabilità (del 2006), la Carta di Nizza (del 2000), la Convenzione dell’Aja (del 2000) sugli adulti incapaci, la dignità in campo sanitario dell’individuo incapace si fonda sul necessario riconoscimento del suo autentico valore e del suo autonomo volere (con superamento dello schema capacità-incapacità inteso come alternativa tra “pieno-vuoto”, e con costante valorizzazione delle residue capacità del soggetto debole).
Ma, se questa volontà non può essere espressa, per una sopraggiunta impossibilità di autodeterminazione, e se il paziente non ha predisposto delle disposizioni anticipate di trattamento (art 4) o non ha pianificato in modo condiviso le cure (art. 5), la ricostruzione della sua volontà rimane affidata al rappresentante legale/amministratore di sostegno, che dovrà assicurare il rispetto delle decisioni del paziente costruite o ricostruibili “con lui” e “non per lui”, sotto il potenziale vaglio del giudice tutelare.
Se la valutazione del medico e del rappresentante coincidono, quanto alla appropriatezza e necessità della cura (giudizio tecnico sanitario) e alla proporzionalità e utilità della stessa in base alle concrete condizioni del paziente nel rispetto della sua dignità (giudizio personale soggettivo del paziente e/o di chi lo rappresenta), non ci sarà bisogno di adire il giudice.
Se le cure sono futili e inappropriate, il medico dovrà astenersi (pena l’eccesso/accanimento terapeutico) e il paziente (o chi per lui) non potrà richiederle (sempre che non ritenga errato il giudizio tecnico espresso).
Se le cure sono appropriate e sono valutate dal rappresentante legale anche proporzionate e rispettose della dignità della persona, verranno erogate senza che si profili la necessità di un preventivo controllo giudiziario.
In caso di contrasto di valutazioni dovrà invece sempre intervenie il giudice: in ipotesi di disaccordo sul giudizio tecnico (di necessità ed appropriatezza), ovvero quando – pur in presenza di appropriatezza/necessità della cura – l’intervento non sia ritenuto proporzionato e rispettoso della dignità del paziente.
Il criterio da seguire per risolvere questo contrasto sarà anzitutto rigorosamente soggettivo, incentrato sulla volontà del paziente in base al criterio del substitutive judgement.
E solo ove essa non sia ricostruibile, nemmeno in via presuntiva (art. 2729 c.c.), l’interesse del paziente verrà individuato in base ad un criterio oggettivo, il best interest, e quindi mediante una valutazione di carattere tecnico (medico) sull’utilità del trattamento rispetto a sue possibili alternative, considerate anche le ricadute sulle condizioni soggettive e di qualità di vita del paziente.
Come è avvenuto nel caso deciso dal giudice mantovano.
Alla ricostruzione e all’attuazione di questa volontà potrà essere utile l’apporto conoscitivo ed informativo dei parenti e dei soggetti legati al paziente da particolari vincoli.
La partecipazione attiva dei familiari o altri fiduciari nella relazione di cura è oggi espressamente prevista nell’art. 1, commi 2 e 3 in virtù del cui disposto il paziente ha la possibilità di far entrare altri soggetti nella relazione terapeutica, sia nel momento informativo che in quello decisionale.

 

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