Autodeterminazione e tutela della salute del minore: il ruolo della responsabilità genitoriale nel consenso informato

Nell'ordinamento giuridico italiano il principio del consenso al trattamento sanitario garantisce ad ogni individuo il diritto a non subire trattamenti sanitari senza essere stato prima informato in modo completo, aggiornato e comprensibile con riferimento alla propria diagnosi, prognosi, ai benefici e ai rischi, nonché con riferimento alle possibili alternative e alle conseguenze del suo eventuale rifiuto alle cure.

Pertanto, nessun trattamento sanitario può essere iniziato o proseguito se privo del consenso libero e informato della persona interessata, tranne che nei casi espressamente previsti dalla legge; a ciò aggiungasi che esso non comprende solo la possibilità di scegliere tra le opzioni terapeutiche, ma anche quella di rifiutare o interrompere le cure in qualsiasi fase della vita, inclusa quella terminale.

Il consenso informato rappresenta, quindi, sia l’espressione del diritto all'autodeterminazione e alla salute, convergendo nella tutela più ampia della libertà personale, sia il fulcro del rapporto medico-paziente, configurandosi come una vera e propria alleanza terapeutica, che impone la condivisione consapevole delle scelte di cura.

Per la sua validità, è necessario che il consenso sia espresso da persona capace di agire.

Nel caso di incapacità per minore età, il consenso informato per i trattamenti sanitari, secondo quanto stabilito all’art. 3, comma 2 della Legge n. 219/2017, deve essere "… espresso o rifiutato dagli esercenti la responsabilità genitoriale o dal tutore tenendo conto della volontà della persona minore, in relazione alla sua età e al suo grado di maturità, e avendo come scopo la tutela della salute psicofisica e della vita del minore nel pieno rispetto della sua dignità".

Invero, come richiamato dal comma 1 del citato art. 3, L. n. 219/2017, la persona, pur minore di età, “ha diritto alla valorizzazione delle proprie capacità di comprensione e di decisione” e “deve ricevere informazioni sulle scelte relative alla propria salute in modo consono alle sue capacità per essere messa nelle condizioni di esprimere la sua volontà”.

Nell’esprimere o rifiutare il consenso informato, dunque, gli esercenti la responsabilità genitoriale devono senz’altro tener conto della volontà della persona minore, in relazione alla sua capacità di discernimento.

Infine, nel caso di rifiuto dei genitori a prestare il consenso informato ad un trattamento sanitario che il medico ha ritenuto appropriato e necessario, è previsto l’intervento del Giudice Tutelare, a cui è rimessa la decisione su ricorso del rappresentante legale della persona interessata o dei soggetti di cui agli articoli 406 e ss. c.c. o del medico o del rappresentante legale della struttura sanitaria.

La prestazione del consenso (o il rifiuto al trattamento sanitario) implica sempre una scelta che si basa su un insieme di valori personali, culturali, religiosi, etici. Si tratta, quindi, di una decisione che non si basa solo su dati clinici o scientifici, ma che considera anche il proprio modo di vedere la vita, la salute, la sofferenza, la dignità personale, la fede e la libertà individuale. 

Con ordinanza n. 2549 del 03.02.2025, la Corte di Cassazione ha affrontato la questione relativa a quale sistema di valori i genitori debbano fare riferimento nell’ipotesi in cui siano chiamati ad esprimere il consenso ad un trattamento sanitario in qualità di rappresentanti del figlio minore, con particolare riferimento al caso in cui il figlio non abbia ancora sviluppato alcuna capacità di discernimento, data la sua tenera età.

La decisione in commento prende le mosse dal caso di due genitori che avevano espresso un consenso “condizionato” per una trasfusione di sangue necessaria al figlio minore, di appena due anni, richiedendo che il sangue provenisse esclusivamente da donatori non vaccinati contro il COVID-19. 

La richiesta dei genitori era motivata sia da ragioni religiose che da un asserito principio di cautela, ritenendo i medesimi che la proteina spike, contenuta nel vaccino anti-covid, avrebbe potuto causare danni al minore.

Attesa l'impossibilità per il personale medico di soddisfare tale condizione – trattandosi di richiesta contraria ai protocolli ospedalieri e alle linee guida e alla Raccomandazione del Consiglio d'Europa sulla donazione periodica ed anonima – e la necessità di procedere alla predetta trasfusione, l’Azienda Ospedaliera si era, quindi, rivolta al Giudice Tutelare, il quale nominava, con decreto, un curatore speciale per prestare il consenso in vece dei genitori. 

A seguito della conferma del predetto decreto da parte del Giudice del reclamo, i genitori proponevano ricorso per cassazione, sostenendo la legittimità del loro consenso condizionato, basata su motivazioni religiose e precauzionali riguardo alla sicurezza del sangue donato. 

La Suprema Corte, con l’ordinanza in commento, ha respinto il ricorso, affermando che il consenso condizionato equivale a un rifiuto e che le convinzioni personali dei genitori non possono prevalere sull'interesse superiore del minore a ricevere cure mediche appropriate. Inoltre, ha sottolineato che le richieste dei genitori non erano supportate da evidenze scientifiche e che il giudice tutelare ha agito correttamente nel nominare un curatore speciale per garantire il benessere del minore. 

La motivazione della Corte di Cassazione è di particolare interesse non solo perché si richiama al principio fondamentale secondo cui l’esercizio della responsabilità genitoriale in ambito sanitario deve sempre rispettare l’interesse del minore, ma soprattutto perché mette in luce i criteri per determinare il contenuto, in concreto, del cd. best interest of the child, sancito all’art. 3 della Convenzione ONU del 1989. 

Secondo la Corte, infatti, la decisione di prestare o meno il consenso informato in ambito sanitario è strettamente collegata non solo alla tutela della salute e della vita, ma anche alla libertà di autodeterminarsi e, in definitiva, al rispetto della dignità della persona umana, che costituiscono diritti da assicurare anche alla persona minorenne, la quale nel momento stesso in cui nasce acquista la capacità giuridica e, quindi, la titolarità di tutti i diritti della personalità.

In questa prospettiva, occorre pertanto interrogarsi sui criteri dell'esercizio della responsabilità genitoriale che, secondo la Corte, costituisce un munus, ovvero una funzione, che rappresenta un aspetto qualificante della relazione familiare tutelata anche dall'art 8 CEDU, da preservare da indebite ingerenze da parte dello Stato, il quale tuttavia ha l'obbligo di porre il miglior interesse del minore, e anche quello dei minori quale gruppo, al centro di tutte le decisioni che incidono sulla loro salute e sul loro sviluppo.

Il punto di equilibrio indicato dalla sentenza in commento è, quindi, rappresentato dal rispetto della personalità del minore.

Infatti, se da un lato è vero che i genitori contribuiscono alla costruzione dell’identità del figlio, sia sotto il profilo biologico che attraverso l’esercizio dei compiti di cura ed educazione, è altresì vero che la legge stessa – e, nello specifico, l’art. 315 bis cc – impone ai medesimi dei criteri guida, rappresentati dal rispetto delle capacità (intese come potenzialità in divenire), dalle inclinazioni naturali e dalle aspirazioni del minore, che sussistono a prescindere dall’età del figlio, potendo anche un bambino piccolo possedere capacità e inclinazioni che devono essere rispettate e ascoltate e in considerazione del fatto che il medesimo, crescendo ed entrando in contatto con il mondo esterno, può sviluppare valori e scelte diverse da quelle familiari.

Il corretto esercizio della responsabilità genitoriale richiede, quindi, in primis, che il genitore accolga questa evoluzione in fieri del minore, senza imporre rigidamente i propri schemi.

Nel caso di specie, ove il consenso espresso dai genitori alle cure del figlio è stato subordinato al rispetto dei valori religiosi impressi dalla famiglia, la Corte – richiamandosi, sul punto, alle sue precedenti decisioni (Cass. n. 21916/2019; Cass. n. 12954/2018) - non ha ritenuto che i ricorrenti avessero effettuato una corretta applicazione di detto criterio, evidenziando che: “se pure è compito e prerogativa dei genitori dare al figlio una educazione anche sotto il profilo religioso, non può non considerarsi che le scelte religiose future del minore potrebbero essere diverse e pertanto non è accettabile che i genitori adottino decisioni per il minore in cui la loro fede religiosa sia assolutamente condizionante e prevalga in ogni caso sempre e comunque sugli altri interessi del minore”.

In ragione di quanto riportato dalla Corte, il best interest del minore, ovvero il principio ordinatore di tutte le decisioni che lo riguardano, cui è subordinato il corretto esercizio della funzione della responsabilità genitoriale, deve necessariamente tenere conto della personalità del bambino.

Ciò implica non solo il dovere di rispettare l’opinione fornita dal figlio nel caso in cui abbia già maturato una propria capacità di discernimento, ma anche il dovere – nel caso in cui il bambino sia ancora incapace di esprimersi – di interpretare la sua personalità in senso evolutivo, considerando la possibilità che, in futuro, le scelte del minore potrebbero essere diverse da quelle che i genitori vorrebbero assumere solo sulla base del loro sistema di valori.

L’ulteriore criterio informatore delle decisioni che il genitore deve assumere in vece del figlio in materia di consenso sanitario informato è rappresentato dalla necessaria aderenza delle medesime a evidenze scientifiche e conoscenze mediche validate.

Invero, nella decisione in commento, la Corte ha precisato che nel caso di “… contrasto tra l'opinione dei genitori e quella dei medici” l’interesse del minore va individuato nella letteratura scientifica e nei protocolli sanitari, che garantiscono “… meglio la salute del minore, in conformità all'art 3 cit. secondo il quale lo scopo da perseguire è "la tutela della salute psicofisica e della vita del minore nel pieno rispetto della sua dignità".

In conclusione, l’ordinanza de qua riconosce al minore – anche in tenera età – una soggettività giuridica piena e un interesse giuridicamente tutelato alla salute, alla dignità e all’autodeterminazione progressiva.

La Corte, invero, affrontando il delicato bilanciamento tra la responsabilità genitoriale e l’interesse superiore del minore, riafferma con chiarezza che l’esercizio della funzione genitoriale in ambito sanitario non è assoluto, ma deve essere orientato da criteri oggettivi e razionali, quali il rispetto della personalità in evoluzione del figlio e l’adesione alle evidenze scientifiche disponibili al momento della decisione, al fine di garantire la tutela concreta della salute psicofisica e della vita del minore, nel rispetto della sua dignità.

In questo quadro, il consenso informato prestato dai genitori non può tradursi in un rifiuto di cure fondato solo sulle loro convinzioni soggettive o ideologiche, che rischiano di comprometterne la salute, senza tener conto che le scelte future del minore potrebbero essere diverse. 

La decisione della Suprema Corte si configura dunque come un importante richiamo all’equilibrio tra autodeterminazione genitoriale e responsabilità pubblica nella tutela dei diritti fondamentali dei soggetti vulnerabili, e costituisce una guida nell’applicazione del principio del best interest of the child nelle controversie sanitarie che coinvolgono minori.

 

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