Il bene acquisito per scioglimento della comunione ereditaria non ricade nella comunione legale tra i coniugi

IL CASO La Corte d'appello di Roma aveva accolto integralmente la richiesta della moglie separata, soccombente in primo grado nel giudizio promosso dal marito, dopo la separazione, per sentir dichiarare che la quota di un bene immobile ricevuto per successione, era caduto nella comunione coniugale.

La moglie, infatti, a seguito della successione da entrambi i genitori e da uno dei fratelli, era divenuta proprietaria esclusiva di un appartamento attribuitole nel procedimento per scioglimento della comunione ereditaria previo versamento in favore degli altri eredi di un conguaglio di 277 milioni di vecchie lire.

Dopo la separazione personale, il marito aveva chiesto al Tribunale di Roma che fosse dichiarato lo scioglimento della comunione coniugale e che gli fosse assegnata la quota di ½ dell’immobile intestato esclusivamente alla moglie, acquisito durante il matrimonio, in seguito al procedimento di scioglimento della comunione ereditaria.

Il Tribunale di Roma aveva accolto la domanda, e quindi la moglie aveva proposto appello dinanzi alla Corte territoriale.

La Corte aveva accolto l’appello, dichiarando che il bene immobile non rientrasse nella comunione legale tra i coniugi, in quanto il pagamento del conguaglio non era assimilabile al pagamento del prezzo e l’attribuzione della quota dell’appartamento alla moglie era riferibile al testamento paterno e come tale estranea alla comunione legale.

Avverso la suddetta pronuncia, gli eredi del marito proponevano ricorso per cassazione, affidato a due motivi; la moglie resisteva con controricorso.

 

LA DECISIONE: La Corte di Cassazione con la sentenza n.14105/2021, ha rigettato integralmente il ricorso.

La Suprema Corte evidenzia in primis il consolidato principio secondo cui la natura dichiarativa della sentenza di divisione opera esclusivamente in riferimento all’effetto distributivo dei beni, viceversa opera invece la sua natura costitutiva quando a uno dei condividenti vengono assegnati beni in eccedenza rispetto alla sua quota, con lesione della quota altrui.

La Corte puntualizza poi che la sentenza che dispone, a carico di uno dei condividenti, l’obbligo di pagamento di una somma di denaro a titolo di conguaglio, non ha altro scopo che quello di riequilibrare gli assetti tra le parti, nell’ambito dell’attuazione del diritto delle stesse a ottenere lo scioglimento della comunione ereditaria.

La decisione in esame sottolinea che l’adempimento dell’obbligo del conguaglio non costituisce condizione di efficacia della sentenza di divisione (già di per sé dichiarativa dell’effetto di scioglimento) e che lo scioglimento della comunione ereditaria con assegnazione del bene ad un condividente non è qualificabile come atto di alienazione.

Dopo queste premesse, la Suprema Corte afferma che “la descritta valenza funzionale e dell’assegnazione e del conguaglio, ancorché e l’una e l’altro occasionati dalla potestas del giudice di costituire, nei casi di legge, rapporti giuridici, è tale senza dubbio da giustificare la sottrazione e dell’una e dell’altro e dunque della loro relazione all’area delle contrattazioni sinallagmatiche commutative, evidentemente inter vivos, ed è tale senza dubbio da giustificare la riconduzione del loro “titolo”, del loro momento genetico comunque all’ambito delle vicende successorie mortis causa che hanno dato origine alla comunione ereditaria”.

In questo contesto, quindi, il titolo dell’assegnazione alla moglie era da identificare nella successione testamentaria del padre, in quella ab intestato della madre ed, infine, nella successione testamentaria di uno dei fratelli, con la conseguenza che l’acquisto dell’immobile doveva essere ascritto tra i beni esclusi dalla comunione legale dei coniugi.

Conclude la Corte, in merito al secondo motivo di impugnazione, che non sussiste in ogni caso violazione tra il chiesto ed il pronunciato nella sentenza della Corte d’appello in quanto “il giudice di merito, nell’indagine diretta all’individuazione del contenuto e della portata delle domande sottoposte alla sua cognizione, non è tenuto a uniformarsi al tenore meramente letterale degli atti nei quali esse sono contenute, ma deve, per converso, avere riguardo al contenuto sostanziale della pretesa fatta valere […]”.

La Corte ha rigettato quindi il ricorso condannando le parti ricorrenti al rimborso delle spese di giudizio.

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