La Corte Costituzionale e il difficile tema della bipartizione di genere “maschile” e “femminile”

11 NOVEMBRE 2024 | Biodiritto e processo

di Avv. Monica Mocellin

Incostituzionale la necessità di autorizzazione del tribunale all’intervento medico chirurgico di adeguamento dei caratteri sessuali.

La disforia di genere, ovvero il disallineamento tra il sesso biologico attribuito alla nascita e l’identità sessuale percepita dall’individuo nello sviluppo della sua personalità, ha trovato riconoscimento e disciplina in Italia con la legge 164 del 1982.

Tale legge, infatti, ha permesso il riallineamento tra le condizioni somatiche e quelle psicologico comportamentali, consentendo la rettificazione dello stato civile in forza di sentenza del tribunale passata in giudicato che attribuisca ad una persona, a seguito di intervenute modificazioni dei suoi caratteri sessuali, sesso diverso da quello enunciato nell’atto di nascita.

Alcuni importanti interventi della Suprema Corte e della Corte Costituzionale hanno segnato in maniera profonda la materia e condotto ad una interpretazione costituzionalmente orientata, e conforme alla giurisprudenza della CEDU, degli articoli 1 e 3 (confluito questo nell’art. 31 comma 4 D.Lgs n. 150/2011) secondo cui per ottenere la rettificazione del sesso nei registri dello stato civile non può ritenersi obbligatorio/prerequisito l’intervento chirurgico demolitorio e/o modificativo dei caratteri sessuali anatomici primari.

Qualora il soggetto desideri procedere all’intervento chirurgico di adeguamento dei caratteri sessuali, questo dovrà essere autorizzato dal Tribunale competente il quale, tuttavia, non dovrà più, come in passato, procedere successivamente alla verifica che l’intervento sia stato effettivamente eseguito.

L’inequivocabilità e irreversibilità del passaggio da donna a uomo o da uomo a donna (ad esempio con la modifica dei caratteri sessuali secondari mediante trattamenti ormonali e con l’inserimento nell’ambiente sociale di riferimento come individuo appartenente al sesso opposto), costituiscono oggi per giurisprudenza consolidata, i veri e soli requisiti per l’accoglimento delle domande di rettificazione anagrafica del sesso.

Questo, in estrema sintesi, il perimetro delineato da alcune sentenze fondamentali: Corte di Cassazione n. 15138/2015 e Corte Costituzionale n. 161/1985, n. 221/2015 e n. 180/2017.

Nello stato dell’arte sopra delineato la Corte Costituzionale viene nuovamente investita di una questione di legittimità in ordine all’art 1 della legge 164/1982 e all’art. 31 D. Lgs 150/2011 (ex art. 3 legge 164/1982) “accusati” di violare gli articoli 2,3, 32 117 (in relazione all’art. 8 della Convenzione Europea dei diritti dell’uomo) della Costituzione.

Giudice rimettente il Tribunale di Bolzano in occasione del ricorso promosso da una donna che percepisce un’identità di genere non binaria e che pertanto avrebbe chiesto una rettificazione anagrafica con “passaggio ad un terzo genere”, quindi né maschio né femmina, “altro”.

La domanda della donna si scontra però, rileva il Tribunale, con il dettato dell’art. 1, implicitamente informato ad una logica di genere binario che non è suscettibile di un’interpretazione adeguatrice.

Secondo il Tribunale di Bolzano “…la psicologia sociale ha ormai acquisito una concezione non binaria dell’identità di genere, sul condiviso presupposto che il genere stesso non sia determinato unicamente dal dato morfologico e cromosomico, ma altresì da fattori sociali e psicologici”, tanto è vero che alcune Corti Costituzionali europee già si sono espresse riconoscendo il terzo genere.

Riconoscere il diritto alla rettificazione di sesso alle persone binarie e negarlo a quelle non binarie violerebbe l’art. 2 della Costituzione mentre l’ingerenza sulla vita privata e familiare della persona non binaria non risponderebbe ai canoni di necessità e proporzionalità cui la giurisprudenza consolidata si affida nell’interpretazione dell’art. 8 CEDU.

Il sacrificio imposto dalla norma, infatti, non trova giustificazione nell’interesse pubblico alla certezza dei rapporti giuridici ovvero alla differenza dei generi prevista dall’attuale sistema di diritto familiare.

Quanto all’art. 31 comma 4, Dls n. 150/2011 il Tribunale di Bolzano ritiene che la valutazione in ordine all’intervento chirurgico di adeguamento dei caratteri sessuali abbia natura esclusivamente medica e psicologica, e che pertanto dovrebbe essere sottratta ad un apprezzamento di natura giudiziale sulla necessità dell’intervento chirurgico.

Anche in questo caso la necessaria autorizzazione all’intervento chirurgico da parte del Tribunale difetterebbe di necessità e proporzionalità in ragione di tempi di attesa e costi per un intervento già “autorizzato” dal medico e dalla cui valutazione difficilmente il Tribunale può scostarsi.

Inoltre, aggiunge il giudice a quo, esisterebbero anche interventi chirurgici irreversibili dettati da esigenze di salute che non necessitano di autorizzazione del Tribunale ma solo di una valutazione sanitaria.

Né può essere invocato l’interesse pubblico alla certezza delle relazioni giuridiche sotto il profilo della definizione di genere posto che, come detto, non è più nemmeno prevista la verifica successiva all’intervento da parte del Tribunale.

L’art. 31 in questione, anch’esso insuscettibile di una interpretazione adeguatrice attesa la chiarezza e precisione del dettato normativo, violerebbe gli articoli 2,3 e 32 della Costituzione.

Si costituiva in giudizio la parte chiedendo l’accoglimento delle censure mentre l’intervento del Presidente del Consiglio dei Ministri, a mezzo dell’Avvocatura generale dello Stato, chiedeva che le questioni venissero dichiarate inammissibili, perché implicano “…scelte affidate alla discrezionalità politica del legislatore”, o comunque non fondate.

Rilevava l’Avvocatura di stato, tra l’altro, che il Tribunale avrebbe dato per scontate risultanze scientifiche sulle quali in realtà ancora non vi sarebbe un consenso e un’opinione pienamente condivisa da parte della comunità scientifica, e che gli interventi chirurgici irreversibili non soggetti all’autorizzazione del Tribunale, a differenza di quelli di cui alla legge 164/82, sono trattamenti sanitari ininfluenti sullo stato civile della persona. L’impatto sociale della rettificazione anagrafica di sesso giustifica la prescrizione dell’autorizzazione giudiziale circa l’appropriatezza dell’intervento.

Con sentenza n. 143 del 3 luglio 2024 la Corte Costituzionale richiama i principi espressi nelle proprie precedenti decisioni e dunque delinea lo “stato dell’arte” -  già anticipato in questa nota per comodità del lettore nelle pagine precedenti - ovvero : nel 1985 in ordine ai valori di libertà, dignità e tutela della persona sottesi all’allora neonata legge 164; nel 2015 il principio per cui ciascuno è libero, con adeguata assistenza specialistica, di effettuare come crede per sé più adeguato il percorso di transizione, quindi anche senza intervento chirurgico considerato solo quale “…possibile mezzo funzionale al conseguimento di un pieno benessere psicofisico”; nel 2017 sulla necessità di una verifica giudiziale della sola inequivocità e irrevocabilità della transizione.

Ciò premesso la Corte, in ordine al “terzo genere”, concorda con l’Avvocatura di Stato nel ritenere che queste tematiche “Pur evidenziando un problema di tono costituzionale … per le ricadute sistematiche che implicano, eccedono il perimetro del … (suo)...sindacato…”  e passa comunque poi in rassegna le decisioni degli altri ordinamenti e Corti europei che hanno adottato provvedimenti che hanno riconosciuto il genere non binario (es. Germania e Belgio).

Quanto alla necessaria autorizzazione da parte del Tribunale al trattamento medico chirurgico la Corte - attese le proprie decisioni precedenti e quella fondamentale degli Ermellini del 2015 sopra richiamata, e atteso l’orientamento diffuso presso la giurisprudenza di merito, che sovente autorizza l’intervento chirurgico contestualmente alla sentenza di rettificazione, e non prima e in funzione della rettificazione stessa - ritiene che la stessa abbia “perduto ogni ragion d’essere al cospetto di un percorso di transizione già sufficientemente avanzato…”.

In altre parole, e in pratica, ritiene la Corte che, nei casi in cui il Tribunale - verificati i presupposti nel singolo caso concreto, accertata dunque una inequivoca e irreversibile transizione già in essere pur in assenza di intervento chirurgico - autorizzi la rettificazione anagrafica, non vi sarà più alcuna necessità di autorizzare l’intervento chirurgico che, a quel punto, sarà soggetto solo alle valutazioni mediche specialistiche. 

La Corte, pertanto, dichiara l’illegittimità costituzionale per irragionevolezza dell’articolo 31 in questione “…nella parte in cui prescrive l’autorizzazione del tribunale al trattamento medico chirurgico anche qualora le modificazioni dei caratteri sessuali già intervenute siano ritenute dallo stesso tribunale sufficienti per l’accoglimento della domanda di rettificazione di attribuzione di sesso”.

La Corte Costituzionale ancora una volta filtra con attenzione i bisogni di una società che si modifica velocemente e che trasforma in pochi anni la violazione penale di chi si mostra di un sesso diverso (art. 85 T.U L. Pubblica Sicurezza) non solo nel diritto di farlo ma anche di farlo a modo proprio, ampliandone le modalità oltre le forme rigide di educazione e tradizione.

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