No alla richiesta di autorizzazione dell’A.d.S. a rifiutare trattamenti “salvavita”

di Avv. Barbara Carnio

Con un recente decreto il Giudice Tutelare del Tribunale di Ascoli Piceno ha deciso il caso di una persona, beneficiaria di amministrazione di sostegno che - a causa di un’insufficienza respiratoria acuta - necessitava di essere sottoposta ad un intervento di tracheostomia chirurgica.

Il decreto di nomina dell’a.d.s. (il fratello, nominato in sostituzione della madre) prevedeva, tra gli altri, il potere di “prestare consenso agli accertamenti medici di routine che siano necessari per la cura della salute del beneficiario” senza, quindi, la possibilità di esprimere il consenso-dissenso ai trattamenti sanitari. Rendendosi necessario per l’intervento chirurgico il relativo consenso informato, il G.T., su istanza dell’Azienda Sanitaria ha modificato d’ufficio il decreto di nomina attribuendo all’a.d.s anche il potere di rappresentanza esclusiva del beneficiario in ambito sanitario precisando, però, che tale potere non poteva essere esercitato con riferimento ai trattamenti sanitari vitali.

L’a.d.s. ha quindi chiesto al G.T. di essere autorizzato a rifiutare l’intervento di tracheostomia nei confronti del fratello, quale intervento di sostegno vitale. La questione giuridica affrontata è, quindi, quella relativa ai presupposti necessari per poter modificare un decreto di apertura di amministrazione di sostengo estendendo la rappresentanza esclusiva dell’a.d.s. anche al rifiuto di un trattamento sanitario vitale.

La Cassazione con la Sentenza n. 2178 del 2007 ha chiarito che Il Giudice può autorizzare la disattivazione di un presidio sanitario (non costituente di per sé una forma di eccesso terapeutico) solo quando “la condizione di stato vegetativo sia, in base ad un rigoroso apprezzamento clinico, irreversibile” escludendo “la benché minima possibilità di un qualche, sia pur flebile, recupero della coscienza e di ritorno ad una percezione del mondo esterno” e sempre che la richiesta “sia realmente espressiva, in base ad elementi di prova chiari, univoci e convincenti, della voce del paziente medesimo, tratta dalle sue precedenti dichiarazioni ovvero dalla sua personalità, dal suo stile di vita e dai suoi convincimenti, corrispondendo al suo modo di concepire, prima di cadere in stato di incoscienza, l’idea stessa di dignità della persona”.

In assenza di dichiarazioni anticipate di trattamento, per poter estendere la rappresentanza esclusiva dell’a.d.s. (già prevista nel decreto di nomina per l’ambito sanitario) anche al rifiuto dei trattamenti sanitari vitali è, quindi, necessario accertare l’irreversibile incapacità di autodeterminazione generale del beneficiario (intesa come una condizione irreversibile di menomazione della sfera intellettiva e volitiva tale da impedire la comprensione del significato e delle conseguenze dell’azione o dell’atto) e la presumibile volontà di rifiuto da parte dello stesso.

La volontà di rifiuto di un trattamento di sostegno vitale può essere accertata mediante  presunzioni gravi, precise e concordanti e può essere desunta “con qualsiasi mezzo (dichiarazioni dei terzi, scritti della persona, accesso ai profili dei social network, apposita consulenza psicologica) tenendo conto della “complessiva identità della persona e delle sue caratteristiche attraverso il vaglio di molteplici elementi: l’attendibilità delle dichiarazioni espresse dalla persona nel passato; le condizioni esistenziali pregresse e quelle prospettabili, la cultura di riferimento, al religione di riferimento, le caratteristiche della personalità; ecc..”.

Va, inoltre, verificato il “presumibile oggetto effettivo del rifiuto”: può, infatti, coincidere con un rifiuto “semplice” allo specifico trattamento sanitario (perché, ad esempio, genera sofferenze insopportabili a fronte di minimali condizioni di beneficio) ovvero perché contrario alla propria fede religiosa o con il rifiuto della condizione di salute ed esistenziale che il trattamento di sostegno vitale comporta: in tal caso diviene fondamentale accertare “l’adeguata informazione e consapevolezza della persona in merito alla condizione di salute-esistenziale determinata dal trattamento oggetto del rifiuto e la consapevolezza del nesso tra rifiuto ed esito mortale

Nel caso oggetto della pronuncia in commento sono stati valorizzati anche i tentativi del beneficiario di togliersi la vita nel passato non recente, quando ancora non si trovava in condizioni di inabilità, che hanno aggiunto un elemento di complessità ulteriore nella valutazione del giudice e cioè la possibilità di qualificare il rifiuto alle cure “come forma di agevolazione di una pregressa  volontà suicidiaria non dettata dalle condizioni attuali di salute psico-fisica”: si tratta di una persona “affetta da atteggiamenti comportamentali oppositivi privi di una diagnosi psichiatrica specifica, la cui storia personale è caratterizzata da costanti rifiuti di cura; caratterizzata da una situazione di marginalità sociali; caratterizzata da un progressivo decadimento delle proprie condizioni di salute (senza che vi sia stato un passaggio repentino dalla condizione esistenziale di attività a quella di inattività).

Inoltre dalle relazioni mediche acquisite “non emerge con chiarezza ed inequivocità medico-scientifica la irreversibilità della condizione di non autodeterminazione della persona in merito ai trattamenti sanitari” che “appare necessario rivalutare, come indicano le relazioni mediche, successivamente all’intervento della tracheostomia e ai possibili benefici della auspicata stabilizzazione”.

Infine “non è inequivocabilmente emersa una volontà di rifiuto, quantomeno consapevole degli esiti mortali, del trattamento di tracheostomia di per sé considerato”.

Per tali motivi il G.T. non ha accolto la richiesta di modifica del decreto di apertura dell’amministrazione di sostegno e non ha esteso la rappresentanza esclusiva. Ha, invece, invitato l’a.d.s. ed i sanitari “ad assumere le determinazioni di competenza per l’interesse della persona” e ha chiesto di essere relazionato (dall’a.d.s. e dalla struttura sanitaria) in merito all’esito della tracheostomia.

Questa decisione pone l’attenzione sull’importanza ancora attuale di una adeguata informazione sui contenuti dell’art. 5 legge n. 219/2017 rubricato “Pianificazione condivisa delle cure” e della sua applicazione ancora troppo residuale sia in ambito medico che nell’ambito delle amministrazioni di sostegno.

In sintesi la pianificazione condivisa delle cure (PCC) consente la programmazione ex ante di trattamenti terapeutici cui essere sottoposti qualora ci si trovi nella condizione di non potersi esprimere o in una condizione di incapacità; la pianificazione è l’esito della condivisione tra medico/equipe sanitaria e paziente (affiancato se vuole da un fiduciario) in forza della quale viene condiviso il percorso terapeutico da seguire a fronte dell’evolversi di una patologia cronica o invalidante, o caratterizzata da inarrestabile evoluzione con prognosi infausta.

La PCC può aiutare enormemente tutti i soggetti coinvolti nella relazione terapeutica. In particolare al paziente permette, in un contesto dialogico protetto e fiduciario, di riflettere sulle proprie priorità, di esprimere i propri valori e quindi le preferenze su tempi, luoghi e modalità di cura e di trattamento; ai familiari di partecipare a tali vissuti e desideri preparandosi così ad assumere eventuali futuri ruoli giuridici di supporto.

La PCC non è utile solo in caso di futura incapacità della persona: è un processo che può aiutare pazienti e famiglie (ma anche ADS e GT) ad affrontare con più consapevolezza e secondo i propri valori, il tempo della vita (che può durare mesi o anni) segnato da una malattia evolutiva e degenerativa.

La PCC rappresenta uno spazio di dialogo, confronto e riflessione condivisa, libero dalla pressione di dover prendere decisioni con urgenza e in un momento difficile, e al tempo stesso svincolato dall'idea che discutere di questi temi sia sinonimo di pianificare il "fine vita".

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