Libertà e autodeterminazione del paziente: la legge 219/2017

La legge n. 219/2017, entrata in vigore il 31 gennaio 2018, ha finalmente introdotto una disciplina positiva dei principi che regolano la relazione di cura “tra paziente e medico”.
Il primo comma dell’art. 1 detta il principio ispiratore dell’intera disciplina, che riecheggia quanto previsto dal secondo comma dell’art. 32 della Costituzione per cui “nessun trattamento sanitario può essere iniziato o proseguito se privo del consenso libero ed informato della persona interessata, tranne che nei casi previsti dalla legge”.
Ed, infatti, l’incipit della disciplina rinvia al testo costituzionale ed alla Carta dei Diritti C.E.: “La presente legge nel rispetto dei principi di cui agli art. 2, 13, e 32 della Costituzione e degli articoli 1, 2 e 3 della Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea, tutela il diritto alla vita, alla salute, alla dignità e all’autodeterminazione della persona ..”.
La volontà espressa dal paziente (capace di agire) è quindi presupposto imprescindibile e condizione di legittimità dell’intervento medico e della sua prosecuzione, avendo l’interessato (art. 1 co.5°) “diritto di revocare in qualsiasi momento … il consenso prestato, anche quando la revoca comporti l’interruzione del trattamento”, e anche se quest’ultimo sia necessario per la sua sopravvivenza e/o consista nella nutrizione e/o idratazione artificiale.
È infine condizione di liceità del comportamento astensivo/omissivo dei sanitari poiché (art. 1 co. 5°) “ogni persona capace di agire ha il diritto di rifiutare, in tutto o in parte, … qualsiasi accertamento diagnostico o trattamento sanitario indicato dal medico per la sua patologia o singoli atti del trattamento stesso”, con la conseguenza che il medico “è tenuto a rispettare la volontà espressa dal paziente di rifiutare il trattamento sanitario e di rinunciare al medesimo e in conseguenza di ciò è esente da responsabilità …”.
Questo approdo normativo raccoglie gli esiti di un lungo dibattito interdisciplinare, nazionale e sovranazionale, che ha in vario modo coinvolto anche la società civile.
Il progresso del sapere medico e le conseguenti possibilità di intervento sempre più penetranti nella vita umana già nel secolo scorso  avevano determinato una riflessione sui problemi etici emergenti nelle scienze biomediche applicate, con l’intento di definire criteri e limiti della pratica medica, per garantire il rispetto di ogni persona umana e della sua dignità.
La dignità, concetto etico e filosofico prima che giuridico, indica che la persona umana merita assoluto rispetto di per sé, non potendo essere mai trattata come un mezzo, ma sempre e solo come un fine, e ciò anche e soprattutto nella relazione terapeutica.
La Carta Fondamentale dell’Unione Europea adottata a Nizza nel 2000 dedica il primo dei sei capi in cui è articolata proprio alla dignità umana, affermando all’art. 1 che essa è inviolabile e deve quindi essere tutelata e rispettata. Declinazioni della dignità sono il diritto alla vita e quello all’integrità psico-fisica, la proibizione della tortura e di ogni trattamento disumano o degradante, la proibizione della schiavitù, della pena di morte, del lavoro forzato e della tratta degli essere umani.
La Costituzione italiana annovera la dignità tra i valori impliciti (art. 2), prevedendo il rispetto dei diritti inviolabili dell’uomo e della sua “personalità” e il dovere della Repubblica di garantirli anche nella vita sociale e di relazione.
Nella giurisprudenza Costituzionale fin dagli anni ‘90 il concetto di dignità è stato evocato proprio con riguardo ai diritti del malato (con conferme recenti nella sentenza. nn. 111 e 432 del 2005 e n. 162/2007), affermandosi l’esistenza di un “nucleo irriducibile del diritto alla salute protetto dalla Costituzione come ambito inviolabile della dignità umana”.
La relazione di cura o “alleanza terapeutica” è oggi definita dalla legge (art. 1, secondo comma) come luogo di “incontro tra l’autonomia decisionale del paziente e la competenza, l’autonomia professionale e la responsabilità del medico”.
Questo concetto è l’esito di un lungo percorso storico, attraverso il quale il rapporto tra medico e paziente si è profondamente modificato.
Inizialmente e per secoli il giuramento di Ippocrate (“In qualsiasi casa andrò, io vi entrerò per il sollievo dei malati, e mi asterrò da ogni offesa e danno volontario, e fra l'altro da ogni azione corruttrice sul corpo delle donne e degli uomini, liberi e schiavi”) è stato la sola base del reciproco rapporto fiduciario: il professionista era dotato della competenza tecnica che lo abilitava a decidere per conto del malato quale fosse il suo bene, mentre la tenuta del sistema era affidata alla selezione professionale che la comunità medica garantiva al suo interno.
L’atteggiamento “paternalistico” che affidava il potere decisionale esclusivamente al medico è stato messo in discussione a partire dal secondo dopoguerra. Il codice di Norimberga (1947) all’esito dei tragici esperimenti nazisti su bambini e persone inermi, ha affermato per la prima volta la necessità del consenso del paziente (“Il soggetto volontariamente dà il proprio consenso a essere sottoposto a un esperimento”).
Dopo cinquant’anni la comunità internazionale, grazie all’impegno del Comitato Etico del Consiglio d’Europa (che riunisce 47 Paesi), ha elaborato la Convenzione sulla Biomedicina, sottoscritta ad Oviedo nel 1997, stabilendo all’art. 5 (Cap. II – Consenso) che “un intervento nel campo della salute non può essere effettuato se non dopo che la persona interessata abbia dato consenso libero e informato. Questa persona riceve innanzitutto una informazione adeguata sullo scopo e sulla natura dell’intervento e sulle sue conseguenze e i suoi rischi. La persona interessata può, in qualsiasi momento, liberamente ritirare il proprio consenso”.
Allo stesso modo l’art. 3 della Costituzione europea (sostanzialmente ripresa nel successivo Trattato di Roma del 2004) sancisce che ogni individuo ha diritto alla propria integrità fisica e psichica e deve essere rispettato “il consenso libero ed informato della persona interessata, secondo le modalità definite dalla legge”.
E’ bene sottolineare che queste previsioni, nel 1948, erano state anticipate dall’inequivocabile disposto del già citato secondo comma dell’art. 32 della Costituzione Italiana.
In questo contesto normativo nazionale ed internazionale la Corte Costituzionale e la Corte di Cassazione hanno progressivamente chiarito nel nostro ordinamento i termini di operatività del principio di autonomia decisionale del paziente in molte storiche decisioni (Corte Cost. 438/2008; Cass. 21748/2007; 2847/2010).
Tuttavia l’assenza fino ad oggi di una compiuta disciplina legislativa ha determinato non poche incertezze applicative, compensate solo in parte dallo sforzo di codificazione deontologica delle categorie professionali sanitarie. La pratica clinica ha trovato alcune importanti indicazioni (anche se prive di valore cogente) nel lavoro del Comitato Nazionale di Bioetica e dei Comitati Etici Regionali, oltre che nell’attività dei Comitati Etici locali (per la pratica clinica e per la sperimentazione) istituiti presso le Ulss.
Di qui la progressiva elaborazione dei principi quali quelli di proporzionalità della cura, di divieto di eccesso terapeutico, di limite della cura, di desistenza terapeutica, di cura palliativa, di divieto di comportamenti eutanasici.
Le scelte di bilanciamento operate dalla nuova legge recepiscono in gran parte questi approdi: la libertà e l’autodeterminazione del paziente, perno dell’attuale disciplina, si incontrano con la libertà di esercizio in scienza e coscienza dell’ars medica, com’è dimostrato, ad esempio, dal fatto che “il paziente non può esigere trattamenti sanitari contrari a norme di legge, alla deontologia professionale o alle buone pratiche clinico assistenziali; a fronte di tali richieste il medico non ha obblighi professionali” (art. 1, comma sesto).
Le libertà non sono comprimibili e la legge non può che operarne un bilanciamento: nessun principio costituzionale infatti può pretendere di valere fino al punto di annullare gli altri, come si ricava dal consolidato insegnamento della giurisprudenza della Corte Costituzionale (si veda in proposito, a solo titolo di esempio, da ultimo: Corte Cost. n. 94/2013, 81/2013; per un’esauriente trattativa di questa tematica: Cartabia M., I principi di ragionevolezza e proporzionalità nella giurisprudenza costituzionale italiana, in www.cortecostituzionale.it).
La nuova legge è il tentativo, in parte riuscito, di ricercare un ragionevole punto di equilibrio fra i diversi interessi di rango costituzionale di cui tali principi sono espressione.

 

Allegati

Ok
Questo website usa solamente cookies tecnici per il suo funzionamento. Maggiori dettagli