Sul possesso della qualità di “erede”: legittimazione in senso proprio o merito del giudizio?

15 GENNAIO 2020 | Successioni e donazioni

Con ordinanza n. 31402 del 2 dicembre 2019, la Corte di Cassazione affronta due questioni interessanti: una relativa al possesso della qualità di erede in capo al soggetto agente (se sia questione di legittimazione in senso proprio o se attenga al merito), l’altra relativa alla prova di detta qualità in capo al soggetto agente.

IL CASO. Tizio, Caio, Sempronio e Mevio avevano convenuto Caia avanti il Tribunale di Messina, esponendo che, con scritture del 10.3.1994 e del 9.9.1996, quest’ultima aveva assunto l’obbligo, nei confronti del loro dante causa Filano, di trasferire la proprietà di una unità immobiliare entro cinque anni dalla stipula di una convenzione con il Comune di Messina, e lamentando che gli accordi erano rimasti inadempiuti.
Gli attori avevano quindi chiesto la condanna della convenuta al pagamento di Euro 50.000,00 a titolo di risarcimento del danno.
Caia aveva eccepito la nullità del contratto per impossibilità dell’oggetto e, in subordine, ne aveva domandato l’annullamento ai sensi degli artt. 1429, 1434, 1439 c.c..
Il Tribunale aveva accolto la domanda attorea, condannando la convenuta al pagamento di Euro 30.000,00, oltre alle spese processuali.
In seguito all’appello della soccombente in primo grado, la Corte Distrettuale di Messina aveva integralmente riformato la decisione, motivando che gli appellati non avevano dimostrato la qualità di eredi del loro dante causa Filano, avendo depositato - peraltro tardivamente - la sola denuncia di successione.
Gli appellati avevano quindi proposto ricorso per Cassazione.

LA SENTENZA. Col primo motivo di ricorso i ricorrenti hanno denunciato la violazione dell’art. 2697 c.c. e degli artt. 81, 115, 116, 167 e 183 c.p.c. ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, sostenendo che la titolarità attiva e passiva del diritto controverso va accertata sulla base della sola prospettazione contenuta nella citazione introduttiva, senza necessità di ulteriori prove.
Aggiungevano inoltre che la convenuta solo in sede di comparsa conclusionale, e quindi tardivamente, aveva contestato la loro qualità di eredi.
Inoltre, secondo i ricorrenti tale qualità era pienamente dimostrata dal certificato di morte, dal rapporto di parentela con il de cuius e dalla stessa denuncia di successione.
All’esame congiunto dei primi due motivi di ricorso, la Suprema Corte ne ha rilevato l’infondatezza, osservando che il possesso della qualità di erede, in quanto incide sulla titolarità del diritto fatto valere in giudizio, non integra una questione di legittimazione in senso proprio, ma attiene al merito ed è quindi rilevabile d’ufficio dal giudice in tutto il corso del processo.
Solo la legittimazione va verificata in base alla prospettazione della domanda, mentre l’appartenenza del diritto controverso riguarda la fondatezza della domanda.
Quanto all’eccezione dei ricorrenti relativa alla tardività della eccezione della resistente inerente al difetto della qualità di eredi in capo ad essi, secondo la Corte questa era stata invece sollevata tempestivamente nella memoria integrativa di cui all’art. 183 c.p.c..
La Corte di Cassazione ha poi precisato – al riguardo di ulteriori censure mosse dai ricorrenti alla decisione impugnata - che il Giudice di primo grado non era affatto tenuto ad attivare i poteri istruttori di indagine, non contemplati dal codice di rito, per accertare la qualità di erede degli attori, né era obbligato a sottoporre la questione al contraddittorio delle parti, poiché la carenza di titolarità del credito era stato oggetto di una eccezione di parte ed i ricorrenti erano ancora in termini per articolare le prove necessarie a dimostrare invece la qualità rivendicata, assolvendo così all’onere della prova dei fatti costitutivi della domanda.
Sul terzo motivo di ricorso, secondo cui la sentenza avrebbe omesso l’esame della valenza presuntiva della denuncia di successione ai fini della sussistenza della qualità di eredi in capo ai ricorrenti, i quali avrebbero accettato tacitamente l’eredità promuovendo l’azione, avvalendosi della loro qualità di legittimari derivante dal rapporto di parentela con il de cuius, la Corte ha precisato che i ricorrenti si erano limitati a dichiararsi eredi di Filano, senza tuttavia specificare da quale titolo derivasse detta qualità.
Né, secondo gli Ermellini, agli atti del processo risultavano comunque altre produzioni oltre a quella della dichiarazione di successione.
Pertanto, in difetto della prova del rapporto di parentela degli attori con il dante causa, non poteva attribuirsi alcuna valenza indiziaria alla dichiarazione di successione, né tanto meno riconoscere, nella proposizione della domanda, un atto di accettazione tacita dell’eredità, che peraltro era regolata da testamento. Di talché la Suprema Corte ha ritenuto che la qualità di legittimari, rivendicata dai ricorrenti, era una deduzione non formulata nei gradi di merito e, come tale, inammissibile.
In conclusione, oltre all’affermazione secondo cui la qualità di erede è una questione che attiene al merito della domanda, è rilevante l’ulteriore precisazione per cui l’onere della prova della qualità di erede che l’attore dichiari di rivestire incombe su quest’ultimo, e va assolto con mezzi di prova idonei.

 

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