Una sentenza di ripudio non è automaticamente contraria all’ordine pubblico

Commento a ord. Corte di Cassazione 17170/2020 del 14 agosto 2020.

L’ordinanza in commento tratta la vexata quaestio del riconoscimento di una sentenza iraniana di divorzio fondata sul ripudio unilaterale della moglie da parte del marito.
Come è noto, le sentenze straniere di divorzio, dato che modificano la situazione risultante dall’atto di matrimonio, vanno trascritte nei registri di stato civile italiani ai sensi dell’art. 63, lett. g), del d.P.R. 396/2000 (nuovo ordinamento dello stato civile).
Anche se la sentenza non lo precisa, pare di capire che i coniugi fossero cittadini iraniani. E’ possibile che avessero acquisito anche la cittadinanza italiana, visto che il loro atto di matrimonio era stato iscritto nei registri dello stato civile di Bari; se invece erano solo cittadini stranieri, potrebbero avere chiesto la trascrizione dell’atto di matrimonio in Italia  in quanto residenti nel nostro Paese ai sensi dell’art. 19 d.P.R. 396/2000.
Gli artt. 64 (che vale in generale per tutte le sentenze) 65 (che vale per i provvedimenti in materia di famiglia e stato delle persone) della legge italiana di diritto internazionale privato, la l. 218/1995, stabiliscono che le decisioni straniere non possono essere riconosciute quando i loro effetti sono contrari all’ordine pubblico. Come è noto, l’ordine pubblico esprime i princìpi fondamentali dell’ordinamento statale, che si ricava dal complesso della Costituzione, delle leggi e delle fonti sovranazionali vigenti nel nostro Paese e costituisce un limite alla penetrazione in Italia dei valori giuridici stranieri sia che consistano in norme giuridiche da applicare (art. 16 l. 218/1995) sia che consistano in decisioni o altri provvedimenti da riconoscere (artt. 64 ss. l. 218/1995).
In applicazione di queste disposizioni, la Corte di Appello di Bari aveva ordinato la cancellazione della trascrizione della sentenza di divorzio pronunciata dalla Corte suprema di Teheran in quanto in Iran il marito può divorziare unilateralmente (“ogniqualvolta lo vorrà”, dice l’art. 113 del codice civile iraniano) sicchè il divorzio assume le caratteristiche del ripudio, che è contrario all’ordine pubblico per violazione del principio della parità tra i sessi.
Con un ragionamento piuttosto contorto, la Corte di Cassazione ha cassato con rinvio la sentenza della Corte di Appello, chiamando i giudici baresi ad occuparsi nuovamente della questione per una serie di motivi proposti in maniera non particolarmente limpida e rigorosa.
In primo luogo, la Cassazione ritiene che non sarebbe stato dimostrato che la sentenza produceva effetti contrari all’ordine pubblico perché la Corte di Appello barese ha valutato solo il profilo contenutistico della sentenza iraniana, considerandola equivalente ad ripudio per il fatto che la moglie non può paralizzare l’iniziativa del marito, non invece i suoi effetti nel nostro Paese.
In secondo luogo,  la Corte di Appello non avrebbe tenuto conto dell’evoluzione del concetto di ordine pubblico in base alle fonti sovranazionali con particolare riferimento ai valori condivisi dalla comunità internazionale e che non risulta violato solo per il fatto che il giudice straniero abbia applicato una norma di contenuto differente da quella italiana. 

In sostanza la Cassazione ritiene che la sentenza di appello non avrebbe motivato a sufficienza la conclusione della contrarietà all’ordine pubblico della decisione per il fatto che la norma iraniana concedeva la possibilità di divorzio unilaterale solo all’uomo, non invece alla donna, così determinando una disparità di trattamento tra i sessi . 

Forse, ma bisogna fare uno sforzo di immaginazione, quello che la Cassazione voleva dire è che non bisogna giudicare i sistemi stranieri con pregiudizi, che si doveva motivare in modo più puntuale cosa significa che la moglie non può opporsi al divorzio (in fondo neanche in Italia un coniuge può opporsi), che c’è pur sempre una differenza tra il ripudio e un divorzio pronunciato da un tribunale, ma - soprattutto - che la Corte di Appello non ha tenuto conto della giurisprudenza che in materia di trascrizione delle sentenze di divorzio unilaterale impone di verificare se nell’ordinamento a quo anche la moglie ha analoga possibilità di sciogliere il vincolo escludendo, in tal caso, la violazione del principio della parità tra i sessi.
Più precisamente, sia pure in una situazione parzialmente diversa, in cui si discuteva se doveva trovare applicazione la clausola della manifesta contrarietà all’ordine pubblico prevista dalla Convenzione dell’Aja del 1970, la sentenza App. Cagliari 16 maggio 2008 ha riconosciuto un provvedimento di ripudio egiziano, valorizzando la circostanza che esso era stato emesso nell’ambito di una procedura in cui la moglie avrebbe potuto intervenire per far valere le proprie ragioni economiche e richiedere la conciliazione e – soprattutto – il fatto che anche la moglie aveva un uguale diritto unilaterale di sciogliersi dal vincolo matrimoniale anche in mancanza del consenso del marito, sicché non vi era violazione del principio di uguaglianza tra i generi. Su questa linea di ragionamento, occupandosi del riconoscimento della sentenza con cui un tribunale palestinese sharaitico aveva pronunciato un divorzio per ripudio unilaterale del marito, la Suprema Corte, con ordinanza interlocutoria 14 dicembre 2018 - 1° marzo 2019 n. 6161, ha disposto approfondimento ai sensi dell’art. 14 l. 218/1995  per verificare se la legge palestinese del 2011 che riformava la disciplina del ripudio unilaterale prevedeva l’accertamento del venir meno dell’affectio coniugalis e se era attribuita analoga facoltà anche alla moglie.

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