Prove digitali e tutela della privacy nel diritto di famiglia

di Avv. Massimo Osler

Le piattaforme social media, i servizi di smart working, le applicazioni mobili, i servizi di mobile e home banking e gli strumenti di pagamento digitale, oltre agli account mail e alle registrazioni audiovisive, sono diventati parte integrante delle nostre abitudini e del nostro modo di comunicare.

La digitalizzazione, infatti, ha rivoluzionato ogni aspetto della nostra vita quotidiana, sia personale che professionale.

Se, dunque, il processo è uno strumento per accertare fatti e responsabilità, ne consegue che i predetti strumenti digitali sono ormai inevitabilmente utilizzati anche nei contenziosi, soprattutto in quelli familiari, per dare prova dei fatti e delle circostanze poste a fondamento delle richieste delle parti.

Basti pensare alle allegazioni di e-mail e messaggi scaricati da computer o smartphone al fine di dimostrare fatti rilevanti, come l’infedeltà coniugale o il mancato rispetto degli accordi relativi all’affidamento dei minori o ancora per dare prova di un determinato tenore di vita, ai fini della determinazione dell’entità dell’assegno di mantenimento per il coniuge o per i figli, essendo ritenute fortemente indiziarie le informazioni tratte dai social media.

L'uso crescente di dispositivi digitali ha, quindi, introdotto un nuovo concetto nel campo legale: le cd prove digitali (o digital evidence), costituite da qualsiasi informazione o dato elettronico generato, memorizzato o trasmesso attraverso dispositivi elettronici, come computer, smartphone, server, reti o qualsiasi altra tecnologia digitale, caratterizzate da elementi peculiari quali l’immaterialità, la volatilità, la replicabilità, l’origine elettronica e la tracciabilità.

Infatti, è ormai di comune esperienza che, anche nei procedimenti di affidamento dei figli, di separazione o divorzio, tali mezzi di prova sono ritenuti ammissibili dal giudice, di regola attraverso l’utilizzo di due istituti giuridici.

Il primo è quello delle cd prove atipiche, ovvero quella tipologia di prove che, seppure non espressamente disciplinata dal Codice di procedura civile, può essere ammessa dal giudice per contribuire alla formazione del suo convincimento ex art. 115 cpc, qualora siano ritenute idonee a provare i fatti rilevanti per la controversia.

Il secondo istituto è quello disciplinato all’art. 2712 cc, secondo cui le riproduzioni fotografiche, informatiche o cinematografiche formano piena prova dei fatti rappresentati, salvo che la parte contro cui sono prodotte non ne contesti la conformità.

Il ricorso alle prove digitali risulta, inoltre, destinato ad assumere un ruolo ancora più centrale a seguito dell’entrata in vigore della Riforma Cartabia, la quale, con l’intento di ridurre i tempi del processo, ha modificato l’organizzazione dell’acquisizione delle prove nei procedimenti in materia di diritto di famiglia, introducendo l'onere delle parti di allegare già negli atti introduttivi, a pena di decadenza, i documenti probatori, inclusi quindi anche quelli digitali, giustificandosi così utilizzo sempre più ampio di tali prove precostituite.

In questo contesto, una delle principali questioni legate all’utilizzo delle prove digitali nel diritto di famiglia attiene al possibile conflitto tra il diritto alla riservatezza delle parti e il diritto di difesa, il quale trova nel diritto alla prova la sua più qualificata manifestazione costituzionalmente garantita.

Occorre, infatti, evidenziare che lo stesso GDPR (Reg. UE 2016/679 sulla protezione dei dati) riconosce la preminenza del diritto di difesa rispetto al diritto alla riservatezza qualora l’acquisizione del dato sensibile altrui sia necessaria per provare un fatto decisivo per la causa. Si pensi al caso del coniuge che allega in giudizio screenshot di conversazioni private, comunicazioni e-mail o conversazioni private registrate o videoregistrate, pur rappresentando ipotesi di violazione del diritto alla riservatezza della persona. Dunque, l’apprezzamento del giudice dovrà tener conto se il sacrificio della riservatezza si configura, nel caso di specie, necessario ai fini della prova del fatto controverso.

Ad esempio, in un giudizio di accertamento della paternità, non è stato considerato lesione del diritto alla protezione dei dati particolari l’utilizzo, senza il consenso dell’avente diritto, dei suoi campioni biologici, perché è “la stessa legge conformativa del diritto che ne definisce i limiti, attribuendo prevalenza, rispetto al "jus arcendi" dell'interessato, al trattamento dei dati personali qualora "effettuato per ragioni di giustizia", per tali intendendosi "i trattamenti di dati personali direttamente correlati alla trattazione giudiziaria di affari e di controversie” in quanto necessari "per accertare, esercitare o difendere un diritto in sede giudiziaria o ogniqualvolta le autorità giurisdizionali esercitino le loro funzioni giurisdizionali" (Cfr. Cass. n. 8459/2020).

Nel caso in cui la prova sia stata acquisita anche illecitamente, l’orientamento giurisprudenziale si è evoluto nel tempo, essendosi la Cassazione, dapprima, pronunciata affermando la prevalenza del diritto alla privacy (Cfr., ad esempio, Cass. n. 22677/2016, che ha dichiarato la non utilizzabilità nel processo civile del “materiale probatorio sottratto in maniera fraudolenta alla controparte che ne era in possesso”). Successivamente, la giurisprudenza di merito aveva osservato che “in tema di prove documentali illecitamente acquisite per violazione della privacy, poiché manca nel codice di procedura civile una norma analoga a quella di cui all’art. 191 cpp che sancisce l'inutilizzabilità, rilevabile anche d'ufficio in ogni stato e grado del procedimento, delle prove acquisite in violazione dei divieti stabiliti dalla legge, nell'ambito civile esse sono ammissibili e liberamente valutabili dal giudice ai sensi dell'art. 116 cpc, e ciò in quanto l’eventuale illiceità si sarebbe verificata in una fase preprocessuale senza ripercuotersi sugli atti stessi, e fatti salvi i profili di responsabilità penale” (Cfr. Tribunale di Milano del 09.052018 o, nello stesso senso, Tribunale di Roma del 20.01.2017 che ha ritenuto ammissibili, quale prova dell’adulterio del marito, gli sms estratti dal suo telefono che la moglie aveva scoperto in maniera casuale, essendo rimasto il cellulare incustodito nell’abitazione familiare).

Tali orientamenti di merito sono stati poi recepiti anche dalla Corte di Cassazione che, con la sentenza n. 13121/2023[1], ha ritenuto ammissibili le prove, anche se illecitamente acquisite, per dare piena esplicazione al diritto di difesa, basandosi sul medesimo principio già espresso da Cass. n. 5105/2020, secondo cui, non esistendo nel processo civile un divieto esplicito di utilizzo delle prove illecite, queste ultime sono comunque utilizzabili.

Tale interpretazione è conforme anche alle regole stabilite dal Regolamento generale sulla protezione dei dati e dal D.lgs. n. 101/2018.

Invero, da un lato, la normativa de qua non ha previsto un divieto di utilizzo di prove formate o assunte in violazione del diritto alla privacy e, dall’altro, è lo GDPR a indicare espressamente la prevalenza del diritto di difesa rispetto al diritto alla privacy del cittadino.

Si veda, in tal senso, quanto stabilito all’art. art. 9, §§ 1 2, lett. f), secondo cui è vietato trattare dati personali sensibili “a meno che il trattamento non sia necessario per accertare, esercitare o difendere un diritto in sede giudiziaria o ogniqualvolta le autorità giurisdizionali esercitino le loro funzioni giurisdizionali” ovvero quanto stabilito agli artt. 18, § 2, 17, § 3, lett. e), 21, § 1, in cui analogo limite incontra il potere del titolare di opporsi al trattamento dei suoi dati personali e di ottenerne la cancellazione o la limitazione, che non può essere fatto valere ove il trattamento serva “per l’accertamento, l’esercizio o la difesa in sede giudiziaria”.

Residua, tuttavia, un limite importante, rappresentato dal principio di minimizzazione. Secondo questo principio, nel processo dovrebbero essere ammesse solo le prove che contengono dati essenziali, pertinenti e strettamente necessari per raggiungere il perseguimento della finalità di giustizia, sicché la legittimità dell’acquisizione probatoria contenente tali dati va valutata in base al bilanciamento tra il contenuto del dato stesso, cui va correlato il grado di riservatezza, e le esigenze di difesa.

Ad ogni modo, anche nel caso in cui, come nelle ipotesi sopra richiamate, il diritto di difesa prevalga sul diritto alla privacy, occorre chiarire che l’eventuale illiceità delle prove assunte non viene meno per la sola circostanza della loro acquisizione al processo.

Di conseguenza, la parte che intenda avvalersi di una prova digitale acquisita illecitamente potrà comunque subire le sanzioni amministrative e risarcitorie previste dal Codice privacy per la lesione del diritto alla privacy, oltre alle conseguenze penali qualora la condotta integri un reato.

Se, ad esempio, una parte processuale accede abusivamente ad una chat altrui e ne deposita poi i relativi contenuti nel procedimento civile per provare un fatto decisivo in relazione ad una domanda proposta o ad un’eccezione sollevata, la medesima può essere imputabile del reato di cui all’art. 616 cp, che tutela la segretezza della corrispondenza.

In ogni caso, l’art. 167 del Codice privacy stabilisce che “salvo che il fatto costituisca più grave reato, chiunque, al fine di trarre per sé o per altri profitto ovvero di arrecare danno all'interessato, operando in violazione di quanto disposto dagli articoli 123, 126 e 130 o dal provvedimento di cui all'articolo 129 arreca nocumento all'interessato, è punito con la reclusione da sei mesi a un anno e sei mesi” e che la persona danneggiata, ai sensi dell’art. 152 del medesimo codice, ha diritto al risarcimento del danno ai sensi dell'art. 82 del GDPR, da far valere mediante ricorso all'autorità giudiziaria ordinaria.

Sul punto, vale la pena richiamare che la Corte di Cassazione penale – con sentenza n. 23808 del 29 maggio 2019 – ha precisato che, per la configurabilità del reato di cui all’art. 167 del Codice privacy, occorre provare il danno. La sola produzione di dati sensibili a fini difensivi in un processo civile non è, infatti, elemento sufficiente ad integrare la fattispecie di reato. La Corte infatti ha rilevato nella citata sentenza che: “il necessario requisito del nocumento richiesto per configurazione del reato dell’art. 167 d.lgs 193/2003 non può ritenersi sussistente, in caso di produzione in un giudizio civile di documenti dati personali, ancorché effettuata al di fuori dei limiti consentiti per il corretto esercizio del diritto di difesa, in assenza di elementi fattuali oggettivamente indicativi di una affettiva lesione dell’interesse protetto, trattandosi di informazioni la cui cognizione è normalmente riservata e circoscritta ai soli soggetti professionalmente coinvolti nella vicenda processuale, sui quali incombe l’obbligo di riservatezza“.

Diversamente, solo l’utilizzo in giudizio di post di social network comporta rischi nel caso in cui la persona a cui sono riferiti abbia adottato restrizioni sulla pagina in cui sono comparsi, trattandosi, in caso contrario, di commenti pubblici. Quanto, poi, alle registrazioni audio e video effettuate senza il consenso di una o più delle persone interessate, occorre distinguere: se si registra con il proprio cellulare una telefonata a cui si partecipa non vi è violazione del GDPR, in quanto la registrazione avviene per uso personale ai sensi dell’art. 2, § 2 lett. c) del GDPR; nel caso in cui si registri un colloquio telefonico avvenuto tra terzi, la condotta configura intercettazione, punibile dagli artt. 617 e 617 bis cp; infine, nel caso di registrazione a viva voce, tale comportamento può integrare il reato di illecite interferenze nella vita privata di cui all’art. 615 bis cp, a meno che non avvenga in luogo pubblico o aperto al pubblico.

In conclusione, è chiaro come le prove digitali stiano assumendo un ruolo sempre più centrale anche nei procedimenti che riguardano il diritto di famiglia. Tuttavia, il loro utilizzo - fermo il fatto acquisito e indiscutibile che non possono essere travalicati i limiti consentiti per il corretto esercizio del diritto di difesa – solleva questioni complesse legate alla privacy e alla riservatezza delle parti, che richiedono, per ogni caso concreto, un attento bilanciamento per coniugare il diritto alla prova con il rispetto dei diritti fondamentali delle persone, garantendo al contempo un processo equo ed efficiente.

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