Cambio di credo religioso: quando è motivo di addebito della separazione?

di avv. Luana Momesso

IL CASO. Il Tribunale di Napoli, pronunciava la separazione dei coniugi, rigettava le reciproche domande di addebito, e poneva a carico del marito l’obbligo di contribuire al mantenimento della moglie e del figlio.

La Corte d’Appello di Napoli confermava l’importo del contributo al mantenimento pronunciato dal Tribunale di primo grado e, in merito al mancato accoglimento della pronuncia di addebito, riteneva che il nuovo credo della moglie e la frequentazione di una congregazione religiosa durante il matrimonio non potessero assumere rilievo per la pronuncia di addebito, in quanto non vi era prova che ciò avesse comportato la violazione dei doveri coniugali e causato l’intollerabilità della convivenza.

Il marito, dinanzi alla Suprema Corte, proponeva ricorso affidato a tre motivi di impugnazione.

LA DECISIONE. La Corte di Cassazione, con l’ordinanza in esame, ritiene fondato il primo motivo riguardante la mancata revoca da parte della Corte di merito dell’assegno di mantenimento in favore del figlio, quale conseguenza dell’omesso esame dell’estratto contributivo prodotto dal padre in sede di precisazione della conclusioni, attestante che il figlio era stato assunto con contratto a tempo indeterminato.

Gli Ermellini hanno rilevato che il documento non doveva ritenersi tardivamente depositato e in ogni caso, il suo mancato esame aveva determinato una carenza di motivazione su un punto decisivo della controversia: in sostanza il giudice di secondo grado avrebbe dovuto esaminare la prova documentale poiché essa dimostrava incontrovertibilmente un mutamento della situazione di fatto, tale da far venir meno l’obbligo del padre di continuare a mantenere il figlio.

Con il secondo motivo il ricorrente lamentava come la Corte d’Appello, nel rigettare la domanda di addebito della separazione, avesse trascurato di valorizzare il fatto che la moglie, cambiando religione, avesse assunto un comportamento contrario ai doveri derivanti dall’art. 143 del codice civile, come provato a suo dire dalle prove testimoniali assunte.

La Suprema Corte ha ritenuto fondato anche questo motivo.

Per la Corte d’Appello il mutamento di fede religiosa e la partecipazione a riti di culto collettivi, di per sé, non potevano ritenersi motivi di addebito, salvo che l’adesione alla pratica religiosa non comportasse comportamenti in violazione dei doveri coniugali tali da determinare l’impossibilità di proseguire la convivenza. Nel caso in esame, invece, la Corte aveva ritenuto che il comportamento della moglie, manifestatosi in atteggiamenti di indifferenza verso il marito e le necessità della famiglia, non aveva trovato conferma nelle deposizioni testimoniali, né aveva avuto incidenza causale nella crisi della coppia che viveva di fatto separata sotto lo stesso tetto.

Gli Ermellini ricordano preliminarmente che la pronuncia di addebito implica la “prova” che l’irreversibile crisi coniugale sia ricollegabile in via esclusiva  al comportamento volontario e consapevole contrario ai doveri coniugali, ovverosia “che sussista un nesso di causalità tra i comportamenti addebitati ed il determinarsi dell’intollerabilità dell’ulteriore convivenza; cosicché, in caso di mancato raggiungimento della prova in relazione al fatto che il comportamento contrario ai predetti doveri sia stato la causa efficiente del fallimento della convivenza, legittimamente viene pronunciata la separazione senza addebito”.

La Corte sottolinea che “Il giudice di merito, tuttavia, laddove intenda sostenere che una determinata condotta, che di per sé varrebbe a integrare una violazione dei doveri conseguenti al matrimonio, non sia idonea a giustificare l'addebito della separazione ai sensi dell'art. 151 cod. civ., essendo non la causa del fallimento dell'unione matrimoniale ma la conseguenza di una situazione di crisi già irrimediabilmente in atto, deve fondare una simile constatazione su una compiuta descrizione della “situazione di vita invalsa fra i coniugi in epoca precedente” al verificarsi della condotta di cui intende sminuire il valore eziologico; ciò onde dar conto dei termini e dell'epoca in cui il rapporto matrimoniale aveva avuto la sua deriva”

La Corte di merito invece, nel caso in esame, per sostenere che la condotta addebitata alla moglie era stata la conseguenza della rottura coniugale e non la causa del fallimento si era limitata a valorizzare una situazione di “reciproca sostanziale autonomia di vita”, senza spiegare se una tale situazione risalisse ad epoca “antecedente” al momento in cui le condotte denunciate si erano verificate.

Pertanto, la negazione di un nesso di causalità tra le condotte lamentate e il determinarsi dell’intollerabilità della convivenza è rimasta affidata alla constatazione di “una situazione di fatto priva di sicura collocazione temporale in un’epoca idonea a giustificare la ravvisata esclusione del nesso di causalità”.

La Corte territoriale aveva inoltre errato nell’ignorare le ulteriori gravi condotte attribuite alla moglie dal teste escusso, che se integranti comportamenti violenti incompatibili con gli obblighi di assistenza e collaborazione ex art.143, comma secondo, c.c., avrebbero assunto “incidenza causale effettiva e preminente rispetto a qualsiasi altra causa eventualmente preesistente di crisi dell’affectio coniugalis”.

La sentenza cassata veniva rinviata per nuovo esame alla Corte territoriale.

 

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