La vittimizzazione secondaria: l’occhio attento della Cassazione sui temi sociali più sensibili

di avv. Monica Mocellin

Con ordinanza n. 11631/2024, pubblicata in data 30 aprile 2024, la Suprema Corte nell’ambito di un ricorso promosso da una donna avverso la sentenza emessa dalla Corte d’Appello di Ancona, ha enunciato il seguente principio di diritto: “Nei procedimenti sulla responsabilità genitoriale in cui siano adottati i “provvedimenti convenienti” di cui all’art. 333 c.c., ove venga dedotto la commissione di condotte di violenza domestica (come definita dall’art. 3 della Convenzione del Consiglio d’Europa, firmata ad Istambul l’11/05/2011 e ratificata dall’Italia con l. n. 77 del 2013), il giudice, anche con riferimento a fatti anteriori all’entrata in vigore del d.lgs n. 149 del 2022, se non esclude l’esistenza di tali fatti e intenda adottare i menzionati “provvedimenti”, è chiamato a valutare, la compatibilità delle misure assunte con l’esigenza di evitare, nel caso concreto, possibili situazioni di vittimizzazione secondaria”.

Il caso riguardava una separazione in cui la moglie ne aveva chiesto l’addebito al marito, evidenziando al Tribunale i comportamenti violenti dell’uomo nei suoi confronti, tenuti sia prima che dopo la sua uscita dalla casa coniugale, ed aveva conseguentemente chiesto l’affido esclusivo della figlia minore.

Il giudice di primo grado aveva attribuito la crisi coniugale non alle violenze, ma ad una conflittualità coniugale risalente addirittura all’inizio del matrimonio: non aveva pertanto ammesso le prove della donna in ordine ai fatti di violenza denunciati e aveva rigettato la domanda di addebito.

Aveva conseguentemente disposto l’affido condiviso della figlia minore.

La sentenza veniva impugnata, la ricorrente insisteva per l’affido esclusivo della minore e chiedeva anche la sospensione del padre dall’esercizio della responsabilità genitoriale.

La Corte d’Appello di Ancona, a parziale riforma della sentenza del giudice di prime cure, confermata la causa della separazione nella conflittualità tra i coniugi, disponeva l’affido della bambina ai Servizi Sociali dando a questi disposizioni dettagliate sugli interventi da effettuare sui genitori, inclusi quattro colloqui congiunti. Si trattava pertanto di un affido in senso stretto e quindi limitativo della responsabilità genitoriale e non un affido con soli compiti di vigilanza, supporto e assistenza ai genitori.

La differenza non è di poco conto avendo questa, si sa, anche vari e importanti risvolti di carattere processuale.

Avverso tale sentenza la signora proponeva ricorso in Cassazione censurando il provvedimento di secondo grado per la mancanza di un curatore speciale del minore, che in tal caso avrebbe dovuto obbligatoriamente essere nominato essendo stata chiesta alla Corte l’adozione di provvedimenti ex artt. 330 e 333 c.c. e avendo la Corte disposto l’affido della minore ai Servizi Sociali (affido in senso stretto).

La ricorrente censurava, poi, la sentenza della Corte d’Appello di Ancona in quanto questa aveva rigettato la sua domanda di affido esclusivo della figlia, confermando che la crisi coniugale era da ricondurre alla conflittualità tra coniugi senza, invece, considerare i fatti di violenza allegati e ciò in quanto i procedimenti penali a carico del marito erano stati archiviati. Spiegava la donna che comunque dall’incidente probatorio in sede penale erano emersi fatti - quali la detenzione da parte del coniuge di materiale pornografico e pedopornografico e di sostanze stupefacenti di cui il marito aveva confessato di fare uso - che evidenziavano l’assoluta incapacità genitoriale del padre e che avrebbero dovuto indurre a disporre l’affido super esclusivo della minore alla mamma e non certo l’affido ai Servizi Sociali.

Ancora, la ricorrente criticava la sentenza di secondo grado in quanto le disposizioni impartite ai Servizi Sociali nella loro attuazione avrebbero comportato di fatto la violazione degli articoli 18 e 48 della Convenzione di Istanbul che, in presenza di violenza sulle donne o violenza domestica (fisica, psicologica, economica ecc.) vieta il ricorso a qualunque tipo di risoluzione alternativa delle controversie, inclusa la mediazione e la conciliazione.

La Suprema Corte di Cassazione accoglieva il ricorso, e dichiarava nulla la sentenza della Corte d’Appello di Ancona poiché la minore era stata affidata ai Servizi Sociali omettendo di nominarle prima un curatore speciale, e rinviava la causa alla Corte d’Appello di Ancona in diversa composizione.

Con la sentenza in esame gli Ermellini, essendosi svolti entrambi i gradi del giudizio di merito in epoca anteriore all’entrata in vigore della cosiddetta riforma Cartabia - che ha sostanzialmente recepito nel codice di rito i principi dettati dalla Convenzione di Istambul del 2011, sottoscritta dall’Italia nel 2013,  in materia di violenza nei confronti delle donne e violenza domestica - hanno richiamato i principi generali e le norme costituzionali grazie alle quali i trattati internazionali entrano a far parte dell’ordinamento nazionale (art. 117 co. 1 Cost.) e il giudice ha l’obbligo di interpretare le norme interne in senso conforme a quelle convenzionali.

Pertanto i giudici di merito avrebbero dovuto giudicare il caso in esame nel rispetto della Convenzione di Istanbul e in particolare degli articoli 3 (nel quale viene dato corpo al significato dell’espressione “violenza domestica”), 18 (ove gli Stati sottoscrittori si impegnano a mettere in campo misure idonee ad evitare qualunque forma di vittimizzazione secondaria o rivittimizzazione) e 48  (che, in presenza del fenomeno di violenza,  vieta il ricorso a qualunque forma di a.d.r., inclusa la mediazione e la conciliazione).   

Scrive la Corte, come anticipato che “in presenza dell’allegazione di fatti di violenza domestica, il giudice, ove non escluda tali fatti, al momento in cui adotta i “provvedimenti convenienti” di cui all’art. 333 c.c., è tenuto a valutare la compatibilità delle misure adottate con il rischio che, nel caso concreto, si verifichino situazioni di vittimizzazione secondaria”.

Il giudice civile deve, quindi, procedere ad una propria ricostruzione dei fatti a prescindere dal convincimento del giudice penale e/o dall’esito del processo penale.

Nel caso in esame i fatti di violenza non sono stati nemmeno indagati in quanto, per un costume purtroppo frequente, tutti i fatti sono stati “derubricati” nell’alveo del conflitto coniugale mentre, al contrario, gli Ermellini hanno precisato (richiamando i vari precedenti della Suprema Corte sul punto) che le violenze fisiche costituiscono violazioni talmente gravi  e inaccettabili dei doveri coniugali da fondare di per sé sole la pronuncia di separazione con addebito, esonerando il giudice di merito dal comparare le condotte dei coniugi, ovvero la loro eventuale conflittualità.

La vittimizzazione secondaria della ricorrente, purtroppo, è durata anni a causa soprattutto dell’affido della minore ai Servizi Sociali, con buona pace anche dell’interesse preminente della bambina, nel frattempo cresciuta, e dell’art. art. 31 Convenzione di Istanbul per il quale “… al momento di determinare i diritti di custodia e di visita dei figli, siano presi in considerazione gli episodi di violenza che rientrano nel campo di applicazione della presente Convenzione”.

Purtroppo questo tipo di procedimenti connotati da violenza domestica, o quantomeno da segnalazioni di violenza domestica, in passato sono stati spesso trattati frettolosamente dal giudice del merito, indifferente alle fonti internazionali che regolano una così delicata questione, e solo l’introduzione nel codice di rito di norme apposite - anzi vi è un titolo apposito anche se molte norme fondamentali si trovano al di fuori di esso - sembra avere avviato Tribunali e Corti sulla rotta giusta.

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