La riforma Cartabia e la violenza domestica e di genere nel processo civile: i principi della legge delega.

di avv. Monica Mocellin

Il 9 dicembre 2021 è stata pubblicata in Gazzetta Ufficiale la Legge 26 novembre 2021 n. 206 recante “Delega al Governo per l’efficienza del processo civile e per la revisione della disciplina degli strumenti di risoluzione alternativa delle controversie e misure urgenti di razionalizzazione dei procedimenti in materia di diritti delle persone e delle famiglie nonché in materia di esecuzione forzata”.

La legge in parte modifica con efficacia immediata alcune disposizioni sostanziali e processuali, in parte delega al Governo - mediante decreti legislativi da approvare entro un anno dalla sua pubblicazione in Gazzetta Ufficiale - la riforma del processo civile, dettando specifici principi e criteri direttivi.

Rispetto al progetto di legge iniziale, che poco prevedeva in materia di famiglia minori e persone, con la legge n. 206 assistiamo ad un vero e proprio riassetto del processo in questa materia - secondo molti una svolta epocale – con l’introduzione di un unico rito per tutti i procedimenti e l’accorpamento di tutte le competenze davanti ad un unico giudice.

Questa riforma, cd. riforma Cartabia dal nome della Ministra della giustizia, ha finalmente accolto le istanze che da anni giungevano da vari organismi, soprattutto dall’avvocatura, per una modifica organica e strutturale del processo civile volta ad un maggior rispetto, anche nella materia che ci occupa, del principio del giusto processo grazie ad una maggiore speditezza e all’uniformazione alle pronunce CEDU che, purtroppo, più volte hanno sanzionato il nostro paese.

In particolare, il legislatore presta grande attenzione alla violenza domestica e di genere, grazie soprattutto agli emendamenti presentati a seguito dell’importante lavoro svolto dalla Commissione parlamentare sul femminicidio che ha messo a fuoco una situazione a dir poco allarmante nei giudizi di separazione, con affido dei minori, connotati da segnalazioni di violenza domestica, criticità da ricondurre all’irrilevanza dell’evento violento nel processo civile (della Relazione della Commissione parlamentare ci siamo occupati nella Newsletter APF n.75).

 A ciò si aggiunga, o forse ne è immediata conseguenza, l’assoluta e ingiustificata disapplicazione di quanto previsto dalla Convenzione di Istanbul del 2011, ratificata dall’Italia nel 2013, volta alla lotta e alla prevenzione della violenza contro le donne e della violenza domestica. Tale disapplicazione ha comportato, come detto, alcune sanzioni per l’Italia ma la Convenzione, ora, troverà espliciti richiami nel nuovo Codice di procedura civile.

In particolare, vi saranno dei riferimenti: all’art. 31 a mente del quale, nel rispetto dei diritti e della sicurezza dei bambini e delle vittime, nelle decisioni relative alla custodia, ai diritti di visita e alla sicurezza dei figli, dovranno sempre essere considerati gli episodi di violenza; agli artt. 33 e 35 che si occupano di tutela dell’integrità psicologica e di prevenzione della violenza fisica; all’art. 48 che prevede, in caso di violenza, il divieto di adottare metodi alternativi di risoluzione dei conflitti, inclusa la mediazione e la conciliazione.

I principi cui dovranno attenersi i decreti legislativi per le ipotesi di allegazione di violenza domestica o di genere sono, in buona parte, enunciati nel comma 23, lettera b), dell’unico articolo della Legge 206/2021 e prevedono, in primo luogo, l’utilizzo - in via incidentale “su richiesta” anche nel corso dei giudizi di merito di separazione e divorzio (ampliandone quindi il campo di applicazione) -  dell’istituto degli Ordini di protezione contro gli abusi familiari (art. 342 bis e seguenti c.c.). Tale strumento, caratterizzato da un procedimento celere e a cognizione sommaria, dovrà essere utilizzato per l’accertamento in sede civile dei fatti di violenza, fatti destinati ad incidere pesantemente nelle decisioni riguardanti l’affidamento dei figli.

Anzi, l’ambito di operatività dell’ordine di protezione viene dal legislatore della riforma esteso anche ai giudizi innanzi al Tribunale per i Minorenni (destinato in realtà a scomparire con l’introduzione di un giudice unico per la famiglia), e anche allorché la convivenza dei genitori sia cessata.

Inoltre, sempre con l’obiettivo di offrire maggiore tutela alle vittime di violenza ed evitare la cosiddetta vittimizzazione secondaria (ovvero una seconda aggressione che rende il soggetto, appunto, di nuovo vittima questa volta da parte delle istituzioni), la norma prevede, espressamente che il Governo disponga, nei casi di allegazione di violenza, “…l’abbreviazione dei termini processuali” in quanto la rapidità della risposta della giustizia è presupposto di una tutela efficace, e disponga altresì “…specifiche disposizioni processuali e sostanziali per evitare la vittimizzazione secondaria…”.

I decreti dovranno, poi, indicare “le necessarie modalità di coordinamento con altre autorità giudiziarie, anche inquirenti…” al fine di mettere il più possibile a disposizione del giudice civile informazioni complete sulla situazione della famiglia.

In realtà, nel nostro ordinamento era già previsto uno strumento di raccordo tra la giustizia civile e quella penale, in particolare tra il giudice della separazione, o del procedimento riguardante l’affidamento dei figli minori, e il giudice penale. La l.n. 69/2019, cosiddetto “codice rosso”, infatti, alle Disposizioni di attuazione del Codice di procedura penale ha aggiunto l’art. 64 bis, il quale prevede che il giudice penale trasmetta al giudice della separazione o dell’affido, gli atti relativi a procedimenti penali per reato di violenza domestica o di genere in cui siano assunti provvedimenti cautelari, di archiviazione o di condanna nei confronti di una delle parti del processo civile.

Va tuttavia precisato che, come ha avuto modo di ribadire la Suprema Corte, da ultimo con l’ordinanza n. 9143/2020, il giudice civile “accerta autonomamente i fatti con pienezza di cognizione, sottoponendoli al proprio vaglio critico, senza essere vincolato dalle soluzioni e dalle qualificazioni del giudice penale”, per cui il giudice civile, in piena autonomia di accertamento e di vaglio critico, potrà scostarsi nelle proprie decisioni dalle risultanze in sede penale.

Non va, poi, dimenticato che il comma 23 alla lettera f) dispone che il ricorso introduttivo (ma evidentemente anche la memoria di costituzione) contenga, se vi sono allegazioni di violenza, anche l’indicazione di procedimenti penali in cui una delle parti o il minore sia persona offesa, sollecitando in tal modo anche i difensori ad una particolare attenzione al fenomeno e ad una redazione di atti il più possibile completa, curata ed esaustiva. A tale proposito non va sottovalutata l’assoluta genericità del lessico utilizzato dal legislatore e le problematiche interpretative che molto probabilmente il termine “allegazioni” di violenza sarà destinato a sollevare, se non verrà meglio definito il concetto anche sotto il profilo processuale nei prossimi decreti.

Il comma 23 lettera b) prevede, per l’ipotesi in cui un figlio minore rifiuti di incontrare uno o entrambi i genitori, che il giudice accerti con urgenza i motivi del rifiuto disponendo di ampi poteri istruttori ufficiosi anche al di fuori dei limiti previsti dal Codice civile (comma 23 lettera t).

Il giudice, poi, ha l’obbligo di ascoltare il minore e deve sentirlo personalmente (con videoregistrazione come prevede la lettera s)), esclusa quindi la delega per l’ascolto sia ai giudici onorari che ai consulenti tecnici o ai servizi sociali. Solo successivamente potranno e dovranno essere adottati i provvedimenti più opportuni nel superiore interesse del minore considerando - ai fini dell’affido e del diritto di visita - eventuali episodi di violenza.

La previsione, tuttavia, potrebbe non essere particolarmente funzionale alle esigenze di tutela del minore stesso, poiché il giudice potrebbe non avere la stessa esperienza di ascolto del consulente o dei servizi, e la stessa capacità di creare un’utile relazione/affidamento con chi viene ascoltato. L’applicazione pratica, e la necessaria specializzazione della magistratura, segnaleranno il risultato di tale norma.

Nell’intenzione del legislatore questa fondamentale disposizione dovrebbe contribuire a contrastare una certa consuetudine secondo la quale - con estrema superficialità - in caso di rifiuto del minore ad incontrare un genitore la responsabilità viene attribuita tout court ad un presunto comportamento ostacolante dell’altro, senza indagare sulle effettive ragioni del rifiuto. Spesso, infatti, i casi di violenza domestica sono stati derubricati a conflitto genitoriale, con conseguenze a volte devastanti sia sui figli che sul genitore vittima.

Il legislatore, inoltre, ha ritenuto necessario prevedere che, nel caso in cui il giudice ritenga di disporre l’intervento dei servizi socio assistenziali e sanitari (per i quali è prevista una puntuale e innovativa  regolamentazione, anche nel rispetto del fondamentale ruolo degli avvocati), tale intervento potrà essere disposto solo se necessario per proteggere il minore e la vittima di violenza, e il provvedimento giudiziale dovrà non solo essere motivato, ma indicare altresì specificamente i presupposti e i limiti dell’affidamento ai servizi.

Ancora, qualora il giudice intenda avvalersi di un consulente tecnico, quest’ultimo dovrà essere “dotato di specifiche competenze…”, come prevede il comma 23 lettera ee), e la nomina del perito dovrà avvenire con provvedimento motivato contenente l’indicazione puntuale degli accertamenti da svolgere. Il consulente nell’espletamento dell’incarico dovrà attenersi “…ai protocolli e alle metodologie riconosciuti dalla comunità scientifica senza effettuare valutazioni su caratteristiche e profili di personalità estranee agli stessi…”.

Non solo, e direi quasi soprattutto, il comma 34 dell’art. 1 aggiunge all’elenco delle specializzazioni dei consulenti tecnici materie fondamentali quali la neuropsichiatria infantile, la psicologia dell’età evolutiva e la psicologia giuridica o forense prevedendo altresì specifici requisiti perché si possa riconoscere al consulente tecnico la “speciale competenza tecnica” richiesta.

Infine, ma non certo per importanza, il legislatore della riforma, allorché vi siano allegazioni di violenza domestica o di genere, alla lettera l) del più volte citato comma, esclude che il giudice possa esperire il rituale tentativo di conciliazione dei coniugi e alla lettera n) esclude che il giudice possa invitare le parti ad esperire un tentativo di mediazione familiare, novità quest’ultima introdotta con la riforma, anche se ha già fatto il suo ingresso nella più recente prassi di alcuni Tribunali.

Qualora, poi, nel corso della mediazione familiare emergano fatti di violenza, il professionista incaricato ha l’obbligo di interromperla (art. 1 comma 23 lett. p)).

Si intende così evitare alla vittima, o probabile vittima, non solo la penosa esperienza di sentirsi costretta alla conciliazione per paura di ritorsioni o di perdere l’affidamento dei figli, ma si evita anche una soluzione solo apparente alla crisi familiare, lasciando in realtà le vittime senza alcuna protezione e ancora esposte al pericolo.

Anche tale previsione presenta evidenti profili di perplessità, che dovranno essere sciolti dall’applicazione concreta della disposizione, posto che le allegazioni di violenza, che impediscono il tentativo di conciliazione, potrebbero essere proposte in modo strumentale.

Già da questo brevissimo e parziale excursus, appare evidente la portata innovativa della riforma Cartabia anche per il tema qui di interesse, riforma che, pur modificando solo le regole del processo e non incidendo sul diritto sostanziale di famiglia, ne incrementa sensibilmente le garanzie in giudizio recependo così le indicazioni della normativa sovranazionale.

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