Il concetto di violenza.

di avv. Barbara Bottecchia

La Convenzione di Istanbul dà una prima e chiara indicazione agli Stati: quella di assumere misure, in caso di violenza, che proibiscano l’obbligatorietà di misure alternative al giudizio, quali la mediazione familiare, la negoziazione assistita o la pratica collaborativa e la coordinazione genitoriale.

Definire dunque cos’è la violenza di genere e cosa non lo è diviene fondamentale.

Anzitutto è ormai chiaro come non sia possibile ridurre la violenza di genere alla violenza contro le donne, perché così facendo, si rischia di rendere invisibili alcune forme di violenza che trovano la loro causa più profonda negli stereotipi di genere. Il nostro legislatore purtroppo non ha definito la violenza domestica né quella assistita.

Quando si affronta il tema della violenza nelle separazioni conflittuali, che si tratti di famiglia coniugale o di fatto o di unione civile, è opportuno chiedersi se nel conflitto ci sia sempre violenza e se la violenza implichi sempre conflitto, oltre a chiarire dal punto di vista concettuale cosa si intenda per violenza.

La chiarezza dei concetti e la traduzione o meglio la trasposizione di parole usate dalle convenzioni è necessaria per dare senso alle affermazioni teoriche, e sostanziare le scelte, differenziare i fenomeni ed effettuare analisi attente delle situazioni.

Il concetto di violenza è cambiato: dalla prima definizione dell’ONU di violenza contro le donne o domestica si è arrivati, infatti, ad usare il termine di violenza interna o di prossimità. Con questi termini si vuole mettere l’accento sulla relazione, in quanto la violenza può essere definita una patologia della relazione.

Violenza fisica, psicologica, sessuale ed economica perpetrata all’interno di relazioni sentimentali, matrimoniali, familiari - in qualsiasi forma la famiglia si manifesti - rientrano nel contenitore concettuale di violenza intima o di prossimità, che le vittime siano donne o uomini con qualsiasi tipo di orientamento sessuale.

Quanto alle modalità di espressione la violenza può assumere diverse forme da quella più evidente, che è quella fisica, a quella più subdola che si concreta nell’atteggiamento di continua denigrazione della persona, di continue prevaricazioni, verbale, sessuale, psicologica, religiosa e morale: umiliazioni, intimidazioni, isolamento, minacce, svalutazione, il controllo continuo, impedire le pratiche del credo religioso del partner o imporre le proprie feriscono profondamente e diminuiscono l’autostima,.

Questo tipo di violenza non lascia tracce apparenti, ed è la più diffusa negli adolescenti: l’obiettivo è quello della dominazione e del controllo.

Secondo la Convenzione, quando si devono determinare i diritti di custodia e di visita dei figli devono essere presi in considerazione gli episodi di violenza che rientrano nel campo di applicazione della Convenzione.

Sempre più difficile quindi è saper dare un vero e proprio aiuto a chi si trova in situazioni ad alta conflittualità che addirittura in alcuni casi le stesse vittime tentano di sminuire.

Solo un’attenta analisi del comportamento, possibilmente con il supporto anche di professionisti di discipline diverse da quella giuridica, può fornire un aiuto senza rischiare di mettere in pericolo la vita di chi è in pericolo.

Ed è qui che si inserisce il secondo intento della Convenzione: formare coloro che, a vario titolo, si occupano di violenza, perché acquisiscano un’adeguata specializzazione, frutto di un’accurata preparazione.

Sono sempre più frequenti i casi di giovani o addirittura giovanissime ragazze, spesso non sposate e con brevi convivenze, che sottovalutano comportamenti e atteggiamenti del partner che invece sono chiari segnali di violenza, presenti spesso fin dall’inizio del rapporto e che spesso esplodono quando si aspetta un figlio e ancor più quando ci si separa.

Frequentemente cercano di trovare accordi (alcune volte anche da sole o con l’aiuto di amiche o parenti) con i compagni violenti, spaventate e sotto la pressione di minacce (“ te la farò pagare ti porterò via il figlio non conti niente”):  accordi che poi non reggono e non vengono mantenuti.

Si tratta di ragazze anche con una discreta cultura, che si lasciano coinvolgere in relazioni con ragazzi con dipendenze o con disturbi della personalità, magari anche non gravi ma comunque disturbanti, con aspetti marcatamente narcisistici.

Queste relazioni erodono progressivamente lo spazio vitale e di autonomia della vittima: i tentativi di dominazione si esplicano in forme molteplici, come impedire di frequentare amici, truccarsi vestirsi in un certo modo, dare ordini controllare i movimenti, il telefono. Queste continue manipolazioni e colpevolizzazioni, ricatti, insulti e umiliazioni ledono la dignità personale e la stessa identità (intesa come percezione di sé) della vittima, che spesso finisce col guardarsi con gli occhi dell’aggressore.

Il ruolo del difensore diventa quindi fondamentale, quale sensibilizzatore delle situazioni di pericolo ed essenziale risulta suggerire e garantire un supporto psicologico adeguato.

Spesso situazioni di violenza vengono percepite e definite anche nei procedimenti giurisdizionali come meri conflitti tra coniugi: le condotte violente non sono riconosciute come tali: offese, denigrazioni, strumentalizzazione dei bambini, ma anche il tacere e il non dire. Il silenzio può essere un atto violento: chi lo subisce sa quanto possa umiliare sconfermare stordire confondere mortificare. Il silenzio assordante può essere un’espressione di violenza di emarginazione, negare il valore e l’identità, escludere il confronto: il girarsi dall’altra parte quando diventa un tratto strutturale del comportamento annienta l’altro e lo confonde.

La violenza quindi non è necessariamente aggressività, forza, conflitto.

Così come il conflitto, entro certi limiti e se c’è ovviamente simmetria tra le parti, fa parte della relazione e può anche essere positivo, potendo indurre cambiamenti costruttivi.

Nella violenza per l’aggressore il conflitto si risolve solo eliminando l’altro.

La violenza è intrisa di paura, chi la subisce teme le conseguenze si sente sempre in pericolo ed entra in un circolo vizioso che spesso comprende anche un’inconsapevole violenza economica che nel momento in cui ci si sente pronti ad uscire dalla situazione di maltrattamento impedisce la decisione.

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