I doveri deontologici dell’avvocato nei procedimenti in materia di persone, minorenni e famiglie in presenza di violenze di genere o domestiche.

di avv. Catia Salvalaggio

Abbiamo cercato di esaminare nelle precedenti cartelle la Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica, sottoscritta a Istanbul l’11 maggio 2011, ratificata dall’Italia con Legge 27/06/2013 n°77, e le normative interne recentemente intervenute in ambito penale e civile che si pongono nel solco dalla stessa tracciato.

La violenza domestica o di genere è un fatto rilevante non solo nei procedimenti penali: gioca un ruolo fondamentale anche nei giudizi civili sulla crisi di coppia e delle relazioni familiari, definiti da decisioni che incidono anche sull’affidamento dei minori, e che degli stessi dovrebbero garantire diritti e sicurezza.

L’avvocato che, accanto alle altre figure professionali, assume l’incarico di accompagnare fuori e dentro la giurisdizione le vittime di violenza deve, quindi, essere consapevole della complessità dell’incarico, di dover essere adeguatamente preparato e formato, anche aprendosi all’acquisizione di conoscenze proprie di altre discipline (pensiamo alla capacità di ascolto attivo, alla consapevolezza dei possibili danni psichici derivanti dall’esposizione alla violenza e di come influiscano sulla percezione dei fatti da parte della stessa vittima ecc.).

Sul piano deontologico l’art. 1 comma 2 del codice deontologico forense, prevede che “L’avvocato, nell’esercizio del suo ministero, vigila sulla conformità delle leggi ai principi della Costituzione e dell’Ordinamento dell’Unione Europea e sul rispetto dei medesimi principi, nonché di quelli della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, a tutela e nell’interesse della parte assistita”.

La Cedu ha reiteratamente affermato che La Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo è uno strumento di protezione degli esseri umani anche da atti di violenza privati, o da trattamenti/punizioni inumani/ degradanti, anche inflitti da privati. Quando le autorità vengono a conoscenza di fatti di tal sorta devono valutare il rischio effettivo che la vittima corre e offrirle adeguata assistenza ad ogni livello, in modo da impedire in primis la reiterazione delle condotte violente (Talpis c. Italia 2 Marzo 2017).

Va poi considerato che la Convenzione di Istanbul è stata sottoscritta dall’Unione Europea nel mese di giugno 2017, con ciò divenendo parte dell’ordinamento interno dell’Unione.

Le finalità della Convenzione, come è già stato evidenziato, sono quelle di garantire un’assistenza tempestiva globale e integrata alla vittima di violenza domestica/di genere, di prevenire e contrastare questo fenomeno grave e diffuso, di reprimerlo anche mediante la cooperazione internazionale. La Convenzione chiede di tenere in primaria considerazione il contesto familiare o comunque il legame relazionale nell’ambito del quale spessissimo le violenze si esercitano, di considerare come le vittime e i maltrattanti vivono questo contesto; evidenzia come sia doveroso intervenire tempestivamente per impedire reiterazioni e aggravamenti delle condotte e il loro proliferare, evitando che alla violenza primaria si aggiunga quella secondaria ad opera dello stesso sistema di “protezione istituzionale”.

Rilevano quindi, sul piano deontologico, il dovere di diligenza ex art.12, il dovere di competenza ex art. 14, il dovere di aggiornamento professionale ex art. 15, il dovere di indipendenza ex art. 9 e il dovere di formazione ex art. 27.

La diligenza, la competenza e la formazione professionale dovrebbero far acquisire all’avvocato strumenti adeguati in materia penale e civile, e consentirgli di mettere in campo iniziative tempestive anche mediante l’attivazione di reti di protezione. E dovrebbero, altresì, consentire all’avvocato di praticare e tutelare la propria indipendenza, sia nei confronti del cliente, del suo vissuto, del suo riferito e della sua volontà, sia nei confronti delle istituzioni e di eventuali possibili “pressioni” (in sede giurisdizionale ma non solo) verso percorsi di definizione consensuale.

Evidente che, perché in sede giurisdizionale si riesca a differenziare la violenza dal mero conflitto relazionale, il Giudice dev’essere posto nelle condizioni di conoscerli e, in particolare, essere posto a conoscenza degli episodi di violenza, ciò che dipende dalle allegazioni delle parti in giudizio.

Infatti, spesso, sia per favorire la conciliazione e sia per volontà delle parti stesse, in particolare nei giudizi consensuali o nelle negoziazioni assistite, non vengono riferiti gli antefatti della vita coniugale e famigliare, non consentendo, dunque, al Giudice, nel caso della separazione consensuale e a volte anche giudiziale, e al PM, nel caso della negoziazione assistita, di valutare se le condizioni concordate tra le parti siano veramente idonee e tutelanti. In tal caso è l’avvocato che si assume la responsabilità di stabilire se, nonostante i vissuti anche violenti delle famiglie, le modalità di vita e/o di affidamento concordate possano essere adeguate e sufficientemente tutelanti.

La domanda da porsi in tal caso è se è legittimo e deontologicamente corretto omettere nei ricorsi e negli atti in generale informazioni in ordine a episodi di violenza di cui l’avvocato è al corrente, sia pure su richiesta del cliente al fine di favorire la conciliazione.

Dal punto di vista della legittimità, in realtà non si rinviene al momento una norma nell’ordinamento italiano che “imponga” alle parti di allegare fatti di violenza negli atti giudiziari, né nelle negoziazioni assistite, in materia di diritto di famiglia.

Neppure la recente riforma Cartabia, peraltro, prevede norme di tale genere. Infatti, il comma 23 della Legge Delega n°206/2021, alla lettera b) – non ancora in vigore -  prevede che “in presenza di allegazioni di violenza domestica o di genere” siano assicurate tutta una serie di guarentigie o misure di tutela, ma non prevede alcun obbligo di allegazione; alla lettera f) – anch’essa non ancora entrata in vigore - invece, prevede che il ricorso introduttivo debba contenere “l’indicazione di procedimenti penali in cui una delle parti o il minorenne sia persona offesa”.

Quest’ultima norma sembrerebbe effettivamente introdurre un obbligo di allegazione (sarà necessario verificare come sarà attuata), ma sembrerebbe solo con riferimento al ricorso introduttivo di un giudizio contenzioso e a procedimenti penali già sussistenti.

La previsione, tuttavia, pare non comprendere tutte le ipotesi possibili: sicuramente non le ipotesi di negoziazione assistita, mentre non è chiaro per le ipotesi di ricorsi congiunti; né tutte le frequenti ipotesi in cui le persone offese non presentano denunce e non danno avvio ad un procedimento penale, né vogliono divulgare la propria situazione.

Dunque, dal punto di vista strettamente giuridico l’avvocato che, pur sapendo dell’esistenza di fatti di violenza di genere o domestica, per i quali non sia stato ancora instaurato un procedimento penale, anche quando la Legge Cartabia entrerà in vigore, sembra poter omettere nei propri scritti difensivi o negli atti di negoziazione assistita riferimenti ai fatti di violenza di cui è a conoscenza, nel perseguimento dell’interesse alla conciliazione o dell’interesse alla riservatezza della parte stessa, sempre che in entrambi i casi sia questa la richiesta consapevole del o del della cliente. Ferma la necessità di supportare e accompagnare questa consapevolezza nel senso sopra indicato, anche aiutando la vittima ad accedere a percorsi di protezione e/o supporto.

Sul piano deontologico, nelle ipotesi in cui sia il cliente, persona offesa, a non volere diffondere notizie sui propri vissuti violenti, ma anche per l’ipotesi in cui sia il cliente l’autore dei fatti violenti, va ricordato che l’art. 28 del CDF vieta all’avvocato di divulgare tutte le informazioni che gli siano fornite dal cliente e dalla parte assistita o di cui sia venuto a conoscenza in dipendenza del mandato.

La violazione del segreto professionale è consentita, per quanto qui possa interessare, solo in due casi: 1) per lo svolgimento dell’attività difensiva, per cui è necessario il consenso e l’accordo col cliente; 2) per impedire la commissione di un reato di particolare gravità. Solo in questo secondo caso, anche senza il consenso del cliente, o addirittura contro l’interesse del cliente stesso, l’avvocato può – non deve – violare il segreto professionale e denunciare i fatti di cui è a conoscenza.

Rimane oggetto di riflessione per la gravità di ogni possibile decisione collegata, il caso del difensore al quale la parte, o le parti, chiedano di omettere la segnalazione di gravi episodi di violenza assistita dai figli minori o addirittura di casi di violenza sui minori stessi.

Inutile ricordare che l’avvocato che si occupa di diritto di famiglia dovrebbe avere quale stella polare del proprio operare l’interesse preminente del minore e, in casi come quelli ipotizzati, si tratta di un interesse che assume veste immediata, concreta ed essenziale tale da non poter essere in nessun caso trascurato e, probabilmente, sussumibili nell’ipotesi sub 2) sopra esposta.

 In tutti gli altri casi, dunque, il tacere determinate circostanze è in sé al momento lecito e deontologicamente corretto e, qualora la coscienza lo imponga, non resta all’avvocato che rinunciare al mandato.

Evidente, quindi, la tensione professionale in cui opera l’avvocato in questa materia sia in ambito civile che in ambito penale, tra sensibilità, competenze giuridiche ed extragiuridiche, fedeltà al mandato e indipendenza professionale: complessità che non pare eliminabile.

 

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