Per la Cassazione entrambi i coniugi devono contribuire al pagamento del mutuo. Il coniuge che ha pagato il mutuo per l’intero ha diritto alla restituzione della metà
Il trasferimento infraquinquennale dell’immobile in favore di un terzo non comporta la decadenza dai benefici “prima casa” se avviene nell’ambito degli accordi di separazione o divorzio
Corte di Giustizia dell'Unione Europea: le tutele della lavoratrice autonoma che cessa l'attività per la nascita del figlio
La prova della costituzione di una famiglia di fatto fa venir meno il diritto all’assegno divorzile e può essere data con la deposizione di un investigatore privato
Diverso è il regime di trascrizione dei matrimoni omosessuali a seconda che riguardino anche cittadini italiani o solo cittadini stranieri
Scioglimento dell’unione civile: la comunicazione all’Ufficiale dello Stato Civile non è condizione di procedibilità del ricorso giudiziale
Lo Stato è responsabile della mancata trascrizione nei registri dello stato civile dei matrimoni omosessuali di cittadini italiani celebrati all’estero
Nel contrasto tra i genitori sulla scelta della scuola pubblica o privata decide il Giudice senza ascoltare il minore
Il Tribunale per i Minorenni italiano è competente nei procedimenti di decadenza della responsabilità genitoriale su un minore straniero residente abitualmente in Italia
Nei procedimenti de potestate la difesa tecnica delle parti è solo eventuale e la tutela del superiore interesse del minore è garantita dalla partecipazione del PM
Il Tribunale dei Minorenni di Caltanissetta utilizza l’art. 25 del RD 1404/34 per disporre il monitoraggio di un giovane utilizzatore di wa anche al fine di verificare le capacità educative e di vigilanza della madre
Il collocamento di un minore in struttura si attua attraverso l’esecuzione forzata degli obblighi di fare
L’ex marito che non paga l’assegno di mantenimento e minaccia il coniuge da cui ha divorziato va condannato al risarcimento dei danni morali
Sulla decadenza dalla responsabilità genitoriale decide il Tribunale (per i minorenni o ordinario) adito per primo
Per la Cassazione l’omesso ascolto della minore dodicenne determina la nullità del procedimento avente ad oggetto il riconoscimento di paternità
Ammissibilità dell'impugnazione del riconoscimento del figlio naturale tra favor veritatis e interesse del minore
Un’interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 291 c.c. permette di ridurre il divario di età previsto per l’adozione di maggiorenni
Il decreto di rimpatrio del minore sottratto (Convenzione dell’Aja 25 ottobre 1980) è revocabile in caso di sopravvenuto mutamento della situazione di fatto che lo ha originato
Accesso agli atti: il Consiglio di Stato rileva un conflitto in seno alle sue Sezioni e rimette la questione all’Adunanza plenaria
L’abbandono della casa coniugale non è motivo di addebito della separazione se il matrimonio è già in crisi
Irrilevante ai fini dell’assegno di mantenimento un aumento solo temporaneo dei redditi del marito separato
Provvedimenti in tema di mantenimento del coniuge e dei figli: quali limiti per la loro impugnabilità in Cassazione?
Condannato a risarcire il danno il padre che ostacola il rapporto tra il figlio e la moglie separata (che però non è senza colpe, e ne paga le conseguenze)
Deroghe all'affido condiviso per i figli nati fuori dal matrimonio: quando è possibile ridurre il diritto/dovere alla bigenitorialità
Il diritto del genitore al rimborso delle spese di mantenimento del figlio da parte dell’altro genitore inadempiente
L’assegnatario della casa familiare è tenuto al pagamento di tutte le spese correlate al suo utilizzo
Il minore è parte sostanziale del processo che lo riguarda ed ha diritto ad esser ascoltato, ma non è necessaria la sua partecipazione formale al processo
La residenza abituale dei minori, da valutare ai fini della giurisdizione, è un quid facti che dipende anche da indici di natura proiettiva e non muta in caso di temporaneo soggiorno in un altro Paese
La validità del vitalizio alimentare è condizionata dalla sussistenza dell’alea (che dev’essere valutata in concreto)
Secondo il GT del Tribunale di Vercelli può disporsi l’inserimento del beneficiario di ADS in una residenza sanitaria assistenziale nonostante il suo dissenso
Nessun obbligo di pagare le rette dei malati di Alzheimer per i familiari: lo conferma il Tribunale di Monza
Amministrazione di sostegno e capacità di donare: il G.T. del Tribunale di Vercelli solleva questione di legittimità costituzionale
La diffamazione via internet integra l’aggravante dell’aver commesso il fatto col mezzo della stampa o con qualsiasi altro mezzo di pubblicità
Per la Cassazione non viola il diritto di difesa la nomina del difensore di fiducia effettuata dall’amministratore di sostegno espressamente autorizzato dal Giudice Tutelare
L’ex marito che non paga l’assegno di mantenimento e minaccia il coniuge da cui ha divorziato va condannato al risarcimento dei danni morali
Obbligo informativo del medico, danno da “nascita indesiderata” e possibile conflitto di interessi tra genitori e figlio minore
Per la Cassazione non viola il diritto di difesa la nomina del difensore di fiducia effettuata dall’amministratore di sostegno espressamente autorizzato dal Giudice Tutelare
Per la Cassazione al prodigo, anche se non infermo di mente, può essere nominato un amministratore di sostegno, ma per il Tribunale di Modena non è così
Non può pronunciarsi la decadenza dalla responsabilità genitoriale nonostante le risultanze della CTU (favorevoli al genitore) e senza motivare adeguatamente in ordine all’interesse del minore
La Corte Costituzionale: il porto d’armi è un’eccezione al divieto di portare le armi, non un diritto
Mediazione obbligatoria, è dovuto il compenso al difensore della parte ammessa al gratuito patrocinio?
Protezione per lo straniero con deficit cognitivo che si è integrato nella struttura di accoglienza in Italia
La prova del danno è indispensabile per il risarcimento del pregiudizio da responsabilità genitoriale
La prosecution del mercy killing e del suicidio assistito nel sistema inglese: una questione di public interest?
Obbligo informativo del medico, danno da “nascita indesiderata” e possibile conflitto di interessi tra genitori e figlio minore
La prosecution del mercy killing e del suicidio assistito nel sistema inglese: una questione di public interest?
Il valore preminente della disabilità in tema di mantenimento del figlio maggiorenne portatore di handicap
Nessun obbligo di pagare le rette dei malati di Alzheimer per i familiari: lo conferma il Tribunale di Monza
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In tema di prova della simulazione della donazione e di condizione di procedibilità del giudizio di divisione
L’acquisto del legato, con godimento dei beni, non implica la rinuncia a far valere i diritti del legittimario
L’azione del legatario in sostituzione di legittima con facoltà di chiedere il supplemento è qualificabile come actio in personam e non come azione di riduzione
Sottrazione di un minore dalla casa – famiglia: non può proporre querela il legale rappresentante della struttura
La proposta di legge governativa diretta ad abbassare l’imputabilità penale a 12 anni si confronta con la realtà
Il 6 aprile 2018 entra in vigore l'art 570 bis cp : violazione degli obblighi di assistenza familiare in caso di separazione o di scioglimento del matrimonio
Anche il genitore (già convivente more uxorio) che non versa l’assegno per il figlio minore è penalmente responsabile
Il 6 aprile 2018 entra in vigore l'art 570 bis cp : violazione degli obblighi di assistenza familiare in caso di separazione o di scioglimento del matrimonio
L’art. 570 bis c.p. riguarda anche gli obblighi di natura economica nei confronti dei figli nati fuori dal matrimonio
Commette reato chi usa le credenziali d’accesso a Facebook del coniuge per fotografare una chat privata
Diverso è il regime di trascrizione dei matrimoni omosessuali a seconda che riguardino anche cittadini italiani o solo cittadini stranieri
Nuovo Processo di nullità del matrimonio: la Santa Sede apre agli avvocati non graduati in Diritto Canonico
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Il divorzio-lampo rumeno non è contrario all’ordine pubblico (ma la Cassazione dimostra di ignorare i Regolamenti europei sull’unificazione del diritto internazionale privato)
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Il trasferimento di residenza del genitore affidatario del figlio senza il consenso dell’altro: è giusto sanzionare?
La Cassazione chiude la vicenda dei “genitori nonni”: la bambina resti coi genitori adottivi ( … ma comunque sarebbe rimasta con loro)
Il riconoscimento giudiziale può essere negato solo in caso di comprovato, gravissimo danno per il figlio
Per la Cassazione l’omesso ascolto della minore dodicenne determina la nullità del procedimento avente ad oggetto il riconoscimento di paternità
Se i genitori vivono in continenti diversi la responsabilità genitoriale può essere esercitata per delega
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I provvedimenti stranieri di affidamento in kafalah sono riconoscibili in base alle norme sulla protezione dei minori
Solo il creditore degli alimenti può scegliere di applicare la legge dello Stato di residenza abituale del creditore in alternativa a quella del proprio Stato di residenza abituale
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La residenza abituale dei minori, da valutare ai fini della giurisdizione, è un quid facti che dipende anche da indici di natura proiettiva e non muta in caso di temporaneo soggiorno in un altro Paese
Disabilità ed etica del linguaggio: lo stigma giuridico28 GIUGNO 2022 | Numero speciale Le persone con disabilità: la riforma tra progetto di vita e inclusionedi avv. Cristina Arata “Le parole possono essere muri o ponti. Possono creare distanza o aiutare la comprensione dei problemi. Le stesse parole usate in contesti diversi possono essere appropriate, confondere o addirittura offendere. Quando si comunica occorre dunque precisione e consapevolezza del significato, del senso delle parole… Non è facile, ma è necessario per parlare civile” (Il parlare civile del Redattore Sociale, 2013). Negli ultimi decenni è emersa una sempre maggiore sensibilità, nel mondo scientifico e giuridico ma anche nella società, in ordine alle problematiche dell’inclusione in condizioni di uguaglianza e parità delle persone fragili. Allo stesso tempo è stata avvertita una progressiva inadeguatezza delle espressioni utilizzate (spesso inadatte, offensive e veicolo di informazioni scorrette pregiudizi e stereotipi) per descrivere le situazioni di fragilità. “Invalidi incapaci inabili persona handicappata o portatrice di handicap, diversamente abile, disabile, persona svantaggiata…”: i linguaggi giuridico, scientifico e comune condividono il disagio di parlare “con e su” la persona fragile, perché usano parole piene di connotazioni negative, imprecise e ambigue, incentrate sui limiti piuttosto che sul riconoscimento della pari dignità. “Questo campo semantico è un campo di battaglia, dove antiche ottiche, impastate di ignoranza e pregiudizi, si scontrano con nuove conoscenze e sensibilità, con nuove esigenze di scienza, di vita sociale, di umanità” (Antonella Patente, La lunga marcia delle parole, intervista a Tullio De Mauro, Superabile Magazine, n.2/2012) La stessa Accademia della Crusca ha avuto modo di rilevare che è “dai primi anni 70 che termini come spastico, mongoloide, cerebroleso, minorato, infelice, fino ad allora usati senza troppe restrizioni per indicare persone affette da grandi deficit fisici o psichici, sono stati avvertiti come inadeguati rispetto all’aggiornamento del dibattito scientifico e sociale, ed hanno quindi progressivamente lasciato il posto prima all’iperonimo handicappato (la cui sfera semantica poteva includere situazioni molto diverse fra loro, rischiando di veicolare un’idea di omogeneità artificiosa) e poi, ma solo in certi registri, a portatore di handicap” (Federico Faloppa, Meglio handicappato o portatore di handicap? Disabile o persona con disabilità? Diversamente abile o diversabile? In accademiadellacrusca.it, 3 aprile 2013) La parola “handicap” è di origine inglese hand-in-cap (letteralmente “mano nel berretto”) e si è diffusa nel seicento per indicare il gioco d’azzardo basato sullo scambio di due oggetti di diverso valore: il giocatore che offriva quello che valeva di meno doveva aggiungere una somma di denaro per arrivare al valore dell’altro oggetto, in modo che lo scambio potesse avvenire alla pari. Il termine si è poi diffuso nel mondo dell’ippica: nel gergo delle corse di cavalli si assegnava al cavallo più forte uno svantaggio (un handicap) per rendere più equilibrata la gara. In generale nel linguaggio sportivo indicava lo svantaggio attribuito al concorrente che aveva maggiore possibilità di successo, per dare a tutti gli altri la stessa possibilità di vincere. Solo alla fine dell’ottocento il termine ha assunto il generale significato di mezzo o modo per equilibrare una situazione compensando le diversità. E solo nel primo novecento è stato associato ai fragili: la disabilità era una condizione di svantaggio conseguente ad un deficit fisico/psichico. In Italia negli anni 70’ lo ritroviamo utilizzato soprattutto nel mondo della scuola. Di qui da locuzione “portatore di handicap”, etimologicamente errata: la persona con disabilità non è un portatore di handicap ma un destinatario di handicap, ovvero delle risorse necessarie per parificare la sua situazione a quella degli altri. Perché quindi partire dalle parole? Perché le parole non riflettono solo le relazioni, le creano: “l’uomo è un essere sociale e relazionale e gli individui attraverso la comunicazione giocano di fatto la propria identità” (Gregory Bateson, “Verso un’economia della mente”, Adelphi Biblioteca Scientifica, 1977). Il linguaggio giuridico della fragilità nell’ordinamento internazionale Solo nel 1969 nella Dichiarazione sul progresso sociale e lo sviluppo delle Nazioni Unite si stabilisce l’esigenza di assicurare il benessere e la riabilitazione delle persone “fisicamente e mentalmente svantaggiate”. Nel 1975 il termine disabile compare nella Dichiarazione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone disabili (disabled People) Nell’anno successivo, l’ONU proclama che il 1981 sarà “L’anno internazionale delle persone disabili”. Nel 1982 l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, con la risoluzione n. 37/52, stabilisce il programma di azione mondiale riguardante le persone disabili. Due anni prima, nel 1980, l’OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità) forma il documento sulla “Classificazione Internazionale delle Menomazioni, Disabilità e Handicap”, conosciuto con l’acronimo ICIDH (International Classification of Impairment, Disabilities and Handicaps): la “menomazione” è qui intesa come perdita o anomalia permanente a carico della struttura corporea o di una funzione (psicologica fisiologica o anatomica); la “disabilità” indica una restrizione, una limitazione o perdita della capacità di compiere un’attività di base (come camminare mangiare o lavorare) in maniera tale da essere considerata normale per un essere umano; “l’handicap” è la condizione di svantaggio che può conseguire alla menomazione e alla disabilità, nella misura in cui limitano o impediscono lo svolgimento di un ruolo sociale considerato normale (in relazione all’età, al sesso, al contesto socioculturale della persona). L’handicap è quindi variabile, perché il soggetto incontra ostacoli e difficoltà a seconda della società e cultura in cui vive. Lo schema per l’OMS è, quindi, una catena consequenziale che parte dalla menomazione, che a sua volta può comportare una disabilità, che può tradursi in un handicap. La disabilità è ancora considerata soprattutto una limitazione dell’agire umano, rispetto ad uno “standard umano di riferimento”; e questa limitazione dà luogo ad uno svantaggio sociale. L’equazione tra disabilità ed incapacità di agire come un individuo “normale” pone ancora l’attenzione sul limite. E questa visione ha condizionato culturalmente e giuridicamente l’individuazione degli interventi di supporto: la persona disabile, in quanto malata e minorata, era un soggetto da proteggere e sostenere con aiuti prevalentemente assistenziali e sanitari. Senza contare la difficoltà di individuare un concetto biomedico di normalità, che dipende anch’esso da fattori ambientali, storici, sociali e da altre numerose circostanze contingenti. L’ OMS nel 2001 adotta una nuova Classificazione internazionale del funzionamento della disabilità e della salute, ICF (International Classification of Functioning), con lo scopo di fornire un linguaggio universale per la descrizione e la definizione degli stati di salute, e con ciò migliorare la comunicazione e lo scambio di informazioni. In questo documento compare, per la prima volta, una diversa prospettiva di indagine e di intervento: la disabilità è il risultato di una complessa relazione tra la condizione di salute della persona, i fattori personali e quelli ambientali. In sostanza si sposta l’accento sul rapporto tra individuo e ambiente, che può non essere favorevole e quindi limitare e ridurre le sue capacità funzionali di partecipazione sociale. La disabilità esce dall’ambito medico e patologico: la persona viene, anzitutto, considerata come essere sociale, e di conseguenza la disabilità non è solo limite o menomazione fisica/psichica, ma il frutto di una non positiva relazione con il contesto in cui la persona vive ed interagisce. In sostanza una persona è sempre “relativamente disabile” a seconda del contesto in cui si trova. Viene abbandonato del tutto il termine handicap o portatore di handicap, sostituito con “persona che sperimenta difficoltà nella vita sociale”. E per la prima volta l’ICF usa l’espressione “persone con disabilità” oggi ritenuta la più adeguata e rispettosa per descrivere la fragilità. Viene specificato anche il concetto di “fattori ambientali” (elementi del mondo esterno che hanno un impatto inevitabile sull’individuo): leggi, valori, servizi, politiche; e di “fattori personali”: le qualità personali del soggetto, come età sesso e classe sociale. Se il funzionamento è l’interazione positiva tra individuo e questi due tipi di fattori, la disabilità è l’interazione negativa tra gli stessi. Nel 2006 anche la Convenzione ONU “Sui diritti delle persone con disabilità” (CRPD) riprende e ribadisce questo approdo: la disabilità è un concetto relazionale, e deve essere correlata al rapporto fra persona e ambiente: “La disabilità è il risultato dell’interazione tra persone con menomazioni e barriere comportamentali e ambientali che impediscono la loro piena ed effettiva partecipazione alla società su base di uguaglianza con gli altri”. In sintesi, come è stato felicemente sostenuto, non esistono “disabili” ma “disabilitati” dal contesto ambientale, familiare, socio culturale e giuridico in cui vivono. Il linguaggio giuridico della fragilità nell’ordinamento interno Il nostro sistema normativo ha risentito e risente dello stigma culturale che nel tempo ha accompagnato, non solo in Italia, la vita delle persone fragili. Fino al 1945 le persone disabili erano nel migliore dei casi sostanzialmente “invisibili”, e relegate al margine della società, oppure considerate pericolose, a-normali, deformi e inutili. Di conseguenza venivano fin da piccole isolate, rinchiuse, oppresse o perseguitate. Lo stesso sterminio nazista ha avuto inizio proprio con quello delle persone disabili: sono state le prime ad essere deportate, usate come cavie per le pratiche di sterilizzazione o eutanasia. Nel 1933 il Terzo Reich aveva adottato la legge sulla sterilizzazione, e nel 1935 quella che impediva i matrimoni e la procreazione tra persone con disabilità. La Carta delle Nazioni Unite (1945) e la Dichiarazione Universale dei diritti dell’uomo (1948) non menzionano mai le persone con disabilità. Per le persone affette da disagio mentale, fino al novecento inoltrato, era prevista anche l’iscrizione nel casellario giudiziale (sul presupposto che costituissero un pericolo sociale) e spesso rinchiuse in istituti spersonalizzanti e assenti di spazi di umanità. La legge Basaglia, che metterà fine a questo scandalo istituzionale, risale al 1978. Il codice civile del 1942 individua la fragilità utilizzando quasi esclusivamente suffissi privativi: in-abile, in-valido, in-validità. I concetti di capacità di agire, di interdizione e di tutela sono stati a suo tempo concepiti principalmente in funzione della tutela dei patrimoni: sono assolutamente incapaci di agire il minore di età e l’interdetto. Per gli adulti la tradizione di riferimento è quella del diritto romano, che prevedeva appunto l’interdizione dei pazzi e dei prodighi, privati dell’amministrazione dei loro beni e sottoposti alla cura degli agnati e dei gentili. La funzione del curator era essenzialmente patrimoniale. È il codice Napoleonico che adotta il meccanismo di transizione brusca tra incapacità di agire e capacità al compimento della maggiore età, inizio della vita adulta, con possibilità di stipulare un contratto (concepito come lo strumento essenziale all’autonomia della persona). “Il legame tra capacità legale di agire e contratto resta fortissimo anche nel codice italiano del 1942, al punto che il senso dell’istituto si coglie appieno nel coordinamento tra l’art. 2 e l’art. 1425 c.c., che individua le conseguenze dell’incapacità di una delle parti sul contratto. Per molteplici ragioni, l’istituto di protezione (e di esclusione) della persona dall’attività dei privati diviene generalissimo, oggetto di una previsione posta tra le norme di apertura del codice. Le ragioni di questa dimensione “totale” dell’incapacità legale di agire sono complesse e in gran parte legate ai più generali modi di evoluzione del diritto privato classico. Gli strumenti di più lunga e consolidata tradizione, pensati per attività a prevalente rilevanza patrimoniale, tendono ad essere, quasi naturalmente, “estesi” ad attività di diversa natura. Così è per l’incapacità, eccezione alla regola della piena autonomia e libertà dei privati, un’eccezione che diviene a sua volta regola, grazie alla sua idoneità a garantire certezze. Così l’incapacità legale, in origine presidio della sicurezza degli scambi, assume un ruolo totalizzante, e investe l’attività del privato nel suo complesso. La nuova dimensione dell’incapacità ne trasforma il ruolo e la rende, nella tradizionale impostazione del discorso privatistico, una di quelle figure concettuali che assumono la forza di dogma.” (prof. Francesca Giardina in Il Diritto Enciclopedia Giuridica) Il sistema privatistico viene, quindi, fondato sulla rigida distinzione tra persone legalmente capaci e persone legalmente incapaci di agire. “Grazie alla forza attrattiva del dogma si realizza una rigida e ordinata semplificazione dei ruoli del soggetto di diritto: un drastico binomio, che pone in netta alternativa capacità e incapacità legale di agire, disegna perfettamente uno strumento di razionalizzazione del traffico giuridico e di garanzia di certezza degli scambi… Per risultare efficiente, la semplificazione doveva essere totale e completa” (prof. Francesca Giardina, idem). La certezza degli scambi e delle relazioni è direttamente proporzionale alla semplificazione del criterio: la dicotomia tra capacità ed incapacità comporta l’adozione di criteri aprioristici e indifferenziati (la minore età e il provvedimento giudiziale di interdizione) e la tendenziale esclusione di una valutazione concreta. Questo legame genetico tra persone e patrimonio si riscontra nel linguaggio, dove non vi è differenza concettuale tra persone e cose: invalido è tanto l’atto quanto la persona fragile, e l’invalidità qualifica un contratto come la condizione dell’essere umano. E totalizzante è la relativa ricaduta giuridica: l’atto riconosciuto invalido cessa di esistere nel mondo del diritto ex tunc. La persona interdetta è condannata alla morte civile, rappresentata da altri anche per gli atti minuti di vita e priva, quindi, di qualsiasi autonomia. Nel sistema delineato dal codice per il diritto delle persone fisiche, l’incapacità legale di agire richiede la sostituzione del soggetto incapace da parte di un rappresentante legale: quest’ultimo compie gli atti i cui effetti ricadono nella sfera giuridica del rappresentato. Come sottolineato anche da Poletti (D. Poletti, Soggetti deboli, in Enciclopedia del diritto, Annali VII, Milano, Giuffré, 2014, p. 965 ss.) il modello implicitamente assunto a livello giuridico è stato, anche nell’epoca moderna e per molti decenni, quello di origine cartesiana, che individua come centro di imputazione un soggetto autonomo, razionale, indipendente, capace di agire e di compiere, dunque, atti giuridicamente rilevanti senza il coinvolgimento di soggetti terzi. Visione che non riesce ad integrare la molteplicità delle condizioni umane. Di qui il successivo ripensamento del concetto di “soggetto” a favore di quello di “persona”, maggiormente in grado di mettere in evidenza le diversità, le peculiarità, i bisogni dei singoli: “il soggetto astratto si trasforma nella persona, anzi, nell’uomo in carne e ossa; la vita quotidiana si intride di giuridicità e porta nelle regole giuridiche la forma del suo stesso linguaggio” (D. Poletti, Soggetti deboli cit.). La condizione di disabilità è indirettamente contemplata dall’art. 3, comma 1 della Cost. che considera le “condizioni personali” tra i fattori che non possono costituire la base di trattamenti diversi da parte del legislatore. Qualche accenno, sotto altro profilo, si rinviene nell’art. 38 Cost.: il primo comma parla di inabili al lavoro (prevedendo il diritto al mantenimento e all’assistenza sociale se sprovvisti di mezzi necessari per vivere); il secondo comma parla di invalidità e malattia come condizioni che possono derivare dall’attività lavorativa e che trovano tutela attraverso il sistema previdenziale ed assicurativo. Il terzo comma richiama le condizioni di minorità ed inabilità per garantire l’educazione e l’avviamento professionale. Chiara quindi l’impostazione: le persone deboli sono oggetto di misure “speciali” di protezione e l’intervento assistenziale assume una dimensione “risarcitoria”. Anche la legislazione di settore ha, quindi, attinto e fatto uso fino agli anni 2000 di questi concetti ed espressioni, senza indagarne la ricaduta sul piano antropologico e sociale. La specialità della disciplina, pur nascendo da una volontà di tutela, finiva per comportare una sostanziale “incapacitazione della persona”, amplificando la condizione di svantaggio. La “specialità” come alternativa alla “normalità” dei diritti, invece di ridurre le diseguaglianze, accresce il divario rispetto allo standard. Sul piano dei diritti civili non era, quindi, la normativa generale - immaginata ab origine come diritto degli eguali - ad integrare nel suo momento genetico la diversità delle condizioni umane. Il diritto diseguale era, quindi, paradossalmente il mezzo pensato per realizzare l’uguaglianza sostanziale (A. D’Aloia, Eguaglianza sostanziale e diritto diseguale, Torino, Cedam, 2002). Significative le “espressioni” utilizzate dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 109/1993: “trattandosi di misure dirette a trasformare una situazione di effettiva disparità di condizioni in una connotata da una sostanziale parità di opportunità, le azioni positive comportano l’adozione di discipline giuridiche differenziate a favore di categorie sociali svantaggiate, anche in deroga al generale principio di parità di trattamento, stabilito nell’art. 3 comma 1 Cost.”. Questa impostazione stigmatizzante del nostro sistema giuridico emerge anche nella legge n.104 del 1992 (Legge-quadro per l'assistenza, l'integrazione sociale e i diritti delle persone handicappate) ancora in vigore, e ancora punto centrale di riferimento di ogni intervento a favore delle persone fragili. Nell’art. 3 si legge: “É persona handicappata colui che presenta una minorazione fisica, psichica o sensoriale, stabilizzata o progressiva, che è causa di difficoltà di apprendimento, di relazione o di integrazione lavorativa e tale da determinare un processo di svantaggio sociale o di emarginazione”. Quindi da un lato permane l’uso del termine handicappato e dall’altro l’accento è ancora posto sulle minorazioni che ostacolano l’individuo nella propria vita di tutti i giorni, e lo mettono in una condizione di svantaggio ed emarginazione. Anche il dl n. 216 del 2003 (che attua la direttiva 2000/78 /CE sulla parità di trattamento in materia lavorativa) continua a parlare di persone “portatrici di handicap”. L’accertamento della condizione di disabilità è ancora assegnato alla “Commissione invalidi” e si definisce con un “Certificato di invalidità”. E questo certificato di “non validità (umana)” è ancora l’unica vera carta di identità del fragile, che gli consente di dialogare con le istituzioni pubbliche socio sanitarie, ma anche con la società (scuola, lavoro) per ottenere un abbattimento delle barriere di accesso che gli impediscono l’esercizio di diritti fondamentali in condizione di uguaglianza con tutti gli altri cittadini. Solo la novella introdotta con la l. n. 6/2004 ha introdotto l’istituto dell’amministrazione di sostegno e mitigato, in parte, la disciplina dell’interdizione. Il nuovo testo dell’art. 414 c.c. non prevede più come obbligatoria l’interdizione neppure in presenza di un’infermità di mente grave ed abituale, che impedica alla persona di provvedere ai suoi interessi. L’istituto più restrittivo può essere applicato alle persone fragili solo “quando ciò sia necessario per assicurare loro adeguata protezione”. E il giudice adito per la pronuncia dell’interdizione può disporre la trasmissione del procedimento al giudice tutelare se “appare opportuno applicare l’amministrazione di sostegno” (art. 418 c.c.). L’interdizione, anche nella sostanza, cessa di essere totalizzante: l’art. 427 c.c., co. Primo, prevede che con la sentenza di interdizione o con successivi provvedimenti dell’autorità giudiziaria “può stabilirsi che taluni atti di ordinaria amministrazione possono essere compiuti dall’interdetto senza l’intervento ovvero con l’assistenza del tutore”. È quel diritto a partecipare alla propria vita che nella disciplina dell’amministrazione di sostegno è sancito dal combinato disposto degli artt. 409 e 410 c.c. (norme che segnano la distanza più ampia dall’impostazione codicistica tradizionale): il beneficiario conserva la capacità di agire per tutti gli atti che non richiedono la rappresentanza esclusiva o l’assistenza necessaria dell’amministratore di sostegno. Indipendentemente dall’estensione delle misure di protezione, la persona fragile può sempre compiere gli atti necessari a soddisfare le esigenze della propria vita quotidiana. L’amministratore di sostegno nello svolgimento dei suoi compiti deve tener conto dei bisogni e delle aspirazioni dell’amministrato. Ma soprattutto deve sempre informarlo circa gli atti da compiere e, in caso di dissenso, rivolgersi al giudice tutelare. La protezione non implica più la perdita di contatto della persona fragile con la propria vita: ne resta protagonista, quando e come possibile. Prima di questo approdo normativo l’interdetto veniva riconosciuto titolare dei soli diritti personalissimi (inviolabili dell’uomo tutelati dall’art. 2 Cost.), che non ammettono rappresentanza, e che attengono ad es. alla sua salute. La l. n. 194/78 consente all’art. 13 anche alla donna interdetta di richiedere personalmente l’interruzione volontaria della gravidanza (autorizzata dal GT che richiede il parere del tutore). Evidente, quindi, l’impatto nel tempo sulla normativa interna di quella internazionale. Oggi la legge delega (n. 227/2021) al Governo “in materia di disabilità”, chiede (art. 1) anzitutto il rispetto dei principi della Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità e del relativo Protocollo opzionale, la conformità alla Strategia per i diritti delle persone con disabilità 2021-2030 (Comunicazione della Commissione europea del 3 marzo 2021), alla risoluzione del Parlamento europeo del 7 ottobre 2021, sulla protezione delle persone con disabilità, “al fine di garantire alla persona con disabilità di ottenere il riconoscimento della propria condizione, anche attraverso una valutazione della stessa congruente, trasparente e agevole che consenta il pieno esercizio dei suoi diritti civili e sociali, compresi il diritto alla vita indipendente e alla piena inclusione sociale e lavorativa, nonché l'effettivo e pieno accesso al sistema dei servizi, delle prestazioni”, “di promuovere l'autonomia della persona con disabilità e il suo vivere su base di pari opportunità con gli altri, nel rispetto dei principi di autodeterminazione e di non discriminazione”. Quanto alla valenza culturale e giuridica delle parole (e dei concetti che veicolano), chiaro è il disposto del successivo art. 2 che impone al Governo, una “definizione di «disabilità» coerente con l'articolo 1, secondo paragrafo, della Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità, anche integrando la legge 5 febbraio 1992, n. 104, e introducendo disposizioni che prevedano una valutazione di base della disabilità distinta da una successiva valutazione multidimensionale fondata sull'approccio bio-psico-sociale, attivabile dalla persona con disabilità o da chi la rappresenta, previa adeguata informazione sugli interventi, sostegni e benefici cui può accedere, finalizzata al progetto di vita individuale, personalizzato e partecipato e assicurando l'adozione di criteri idonei a tenere nella dovuta considerazione le differenze di genere”. Conclusioni L’evoluzione del linguaggio, soprattutto sociale ma anche giuridico, è stata significativa: da una nozione di disabilità che valorizzava il deficit si è progressivamente posto l’accento sulla persona; distinguendola dalla condizione in cui si trova ed elaborando la locuzione di “persona con disabilità”, spesso indicata con l’acronimo “pdc”. Se il focus è la persona, le sue “diversità” devono essere poste sempre solo in posizione predicativa, come mero attributo. E questo per evitare la “sineddoche”, ovvero la confusione tra la parte e il tutto: una condizione personale non esaurisce mai una persona; la diversità è solo uno stato, una caratteristica della persona, non la persona. Ciò che serve è quindi, anzitutto, non trasformare l’attributo in un sostantivo: è così che si confonde la parte con il tutto e si riduce, umiliandola, la persona al suo eventuale limite. Oggi la locuzione “persona con disabilità” usata dalla convenzione ONU del 2006 è diventata uno standard internazionale, ed è in genere preferita a qualsiasi altra espressione. L’uso di questa locuzione deve ovviamente accompagnarsi ad una precisa consapevolezza su ciò che deve essere evitato per non umiliare e offendere: non identificare una persona con la sua condizione di disabilità, perché l’individuo resta sempre in primo piano, e una persona non si identifica con la sua carrozzina o con la sua “menomazione”. Questo consente di cogliere l’identità sostanziale di tutti i membri della comunità: siamo tutti persone e, invero, tutti siamo portatori di condizioni particolari. Deve essere evitato il termine handicappato o portatore di handicap. La disabilità non è una patologia, non è una malattia: è una condizione esistenziale che emerge come limite solo per l’insufficiente struttura sociale, perché il contesto non mette a disposizione gli strumenti appropriati perché la persona possa convivere con il proprio limite in condizioni di parità con tutti gli altri cittadini. Per queste stesse ragioni (la disabilità non è una malattia) è sbagliato usare espressioni come “affetto da disabilità” oppure “soffre di..”. Non è rispettoso usare un linguaggio compassionevole e inutilmente pietistico: sono parole incentrate sulla posizione di sofferenza e di vittima (es. costretto sulla carrozzina…”). Né ha senso l’opposto e quindi descrivere le persone con disabilità come speciali o come eroi, e considerarle di ispirazione unicamente per il fatto di essere in una condizione di disabilità. Anche questo è uno stereotipo abilistico. Né va utilizzata l’espressione “diversamente abile”, che nasce negli Stati Uniti all’inizio degli anni 80. Anche in tal caso con l’intenzione di accentuare la positività delle abilità delle persone, anche se diverse da quelle comunemente riscontrate o attese da soggetti di parità e condizioni. È tuttavia un atteggiamento linguistico sleale, perché mette in secondo piano il deficit che invece esiste. Franco Bomprezzi (giornalista impegnato nelle tematiche della disabilità, direttore della rivista Mobilità e fondatore del portale Superando.it, portavoce di Ledha “Lega per i diritti delle persone con disabilità”, nominato Cavaliere della Repubblica nel 2007) aveva a suo tempo sottolineato come in Italia, più che altrove, la disabilità è stata nel tempo connotata negativamente, come un fardello ingombrante un peso, un carico di sfortuna di sofferenza di diversità e di dolore. Le persone con disabilità in Italia si dividono in due: o sono eroi o sono vittime. La normalità, invece, non esiste e viene sacrificata sull’altare di una comunicazione fuori registro, spesso ignorante e superficiale, incapace di trovare la sintonia tra le parole e le cose. Non ha senso, secondo Bomprezzi, ritenere la disabilità quasi una terza abilità, cioè una capacità speciale rispetto alla cosiddetta normalità: in questo modo si ricorre ad un artificio semantico, ancora una volta per non registrare la realtà per quello che è. Ci avvertiva già vent’anni fa che continuare a pensare alla disabilità come a qualcosa di diverso, addirittura una grande opportunità per sviluppare diverse abilità, è fare un grave torto a milioni di persone che nel mondo ogni giorno si battono solo per vedere rispettati i propri diritti di cittadinanza alla pari degli altri (Franco Bomprezzi “Caruso Adriano, sei diversamente bravo”, in Invisibili, Corriere.it 2 ottobre 2012). Abbiamo bisogno di parole oneste: un linguaggio onesto e inclusivo è quello che riconduce ad una dimensione ordinaria e normale tutte le condizioni e caratteristiche umane. È un linguaggio che sul piano normativo declina i bisogni, i rapporti e le strutture sociali su questo presupposto antropologico, scientifico, medico e culturale. L’Italia sta affrontando quest’anno una fase “costituente” della normativa sulla fragilità. Il nostro auspicio è che sia all’altezza della sfida e delle aspettative della comunità nazionale ed internazionale. La rotta è quella tracciata dalla Convenzione ONU che all’art. 12 stabilisce il superamento del concetto tradizionale di capacità legale, riconoscendola a tutte le persone con disabilità (senza alcuna differenza tra disabilità fisiche e mentali), affermando il diritto di tutti gli individui con ogni tipo di disabilità al loro pieno riconoscimento quali “persone” “capaci” davanti alla legge. Un paradigma nel quale l’elemento razionale dell’uomo è considerato, ma senza una valenza escludente a priori, e dove vi è spazio per modulazioni diverse, comprese le forme di supporto per l’esercizio dei diritti civili e politici.
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