La pandemia vissuta dagli altri

Nei Paesi in cui i cittadini hanno avuto rapidamente accesso ai presidi di protezione individuale e a corrette informazioni sanitarie, ed in cui la campagna vaccinale contro il covid-19 ha raggiunto (o sta raggiungendo) percentuali importanti, si sta registrando un numero minore di contagi e, soprattutto, meno persone che sviluppano la malattia in forma grave. Gli ospedali sono tornati a disporre di posti letto e di terapie intensive anche per i malati “non covid”, e le strutture sanitarie possono erogare le ordinarie prestazioni di assistenza, di cura e prevenzione.

Il covid-19 si è diffuso (seppur con modalità e tempi differenti) in tutto il mondo, tanto che già a fine gennaio 2020 l’OMS lo aveva dichiarato un’“emergenza globale”.

Le disuguaglianze economiche ed il deficit delle strutture socio sanitarie hanno, tuttavia, inevitabilmente comportato che gli effetti e le conseguenze della pandemia in alcuni Paesi siano stati più devastanti che in altri.

La pandemia ha reso evidente la fragilità degli Stati privi di welfare pubblico, dove la popolazione vive già in condizioni precarie, e dove il sistema sanitario non è assolutamente in grado di far fronte alla crescita esponenziale di contagi. Anche il modello di governance ha avuto un ruolo: nei paesi caratterizzati da un severo controllo di polizia o militare, la stampa interna soprattutto in primo momento ha minimizzato i rischi e pubblicato dati assolutamente sottostimati (a volte anche per la mancanza di appropriati sistemi interni di monitoraggio sanitario).

In alcuni Paesi non sono state adottate misure idonee a limitare la diffusione del virus: i venditori ambulanti hanno continuato a lavorare per strada o nelle piazze ed i mezzi pubblici hanno circolato in condizioni di sovraffollamento, né sono stati vietati i mercati di animali vivi. L’UNHCR ha dovuto anzitutto realizzare varie campagne di salute pubblica in molti paesi in diversi continenti.

L’enorme crescita dei contagi è stata anche favorita dall’elevata densità demografica, soprattutto nelle grandi megalopoli latinoamericane, africane o asiatiche; dalla presenza di periferie urbane prive di qualsiasi servizio di base e con abitazioni ammassate e fatiscenti, che non hanno consentito di porre in essere concrete misure di isolamento o quarantena: in alcuni contesti anche la cautela, apparentemente banale di lavarsi le mani risulta invece complicata.

A volte hanno inciso le scelte politiche prive di lungimiranza e base scientifica. Un esempio su tutti è il Brasile (ottava potenza economica al mondo) dove il governo ha minimizzato a lungo la pericolosità del virus: non sono state imposte misure di contenimento e protezione, sufficienti programmi di chiusure delle attività economiche ed un adeguato programma di vaccinazione. Questo ha favorito lo sviluppo (e la circolazione) di numerose varianti, ha portato conseguentemente i contagi fuori controllo e ha causato così il collasso del sistema sanitario pubblico e privato (assenza di posti letto, carenza di forniture essenziali come ossigeno, anestetici e farmaci per il trattamento dei sintomi). La conseguenza è stato un elevatissimo numero di vittime (circa 600 mila) soprattutto tra i più fragili, gli economicamente svantaggiati, le popolazioni delle zone più remote (indios dell’amazzonia) prive di strutture ospedaliere.

Estremamente drammatica anche la situazione dell’India dove la c.d. “prima ondata” ha colpito principalmente le grandi città in cui, seppur nella grande difficoltà, gli ospedali e le cliniche private sono riuscite tuttavia a fornire una risposta sanitaria. Molte persone, però, sono tornate nei villaggi di origine convinti di poter fuggire al virus, trasportando il contagio e la mortalità per l’assoluta inadeguatezza di tali piccole realtà rurali a reagire sul piano sanitario. Successivamente la scelta politica (determinata da elezioni interne al paese) di dichiarare troppo presto la cessata emergenza (il governo di Narendra Modi a marzo 2021 aveva dichiarato di “aver sconfitto il virus”) e il venir meno dei comportamenti di cautela ha determinato una seconda ondata devastante (ad aprile 350 mila contagi al giorno), lo sviluppo di una variante del virus molto più contagiosa (e rapidamente diffusasi anche in tutto l’occidente) e la necessità per il governo indiano di chiedere l’aiuto internazionale.

Il problema diventa ancora più grave per quei Paesi in cui sono presenti numerosi campi profughi, dove in pochi chilometri quadrati vivono centinaia di migliaia di sfollati in condizioni molto precarie. Due esempi su tutti: il Libano (con i suoi 12 campi profughi ufficiali) e i ben 34 campi profughi Rohingya del Bangladesh. A cui si aggiungono i campi profughi dei Siriani al confine con la Turchia.

Qui la circolazione del virus è agevolata dalle condizioni igieniche e sanitarie estremamente disagiate: mancano acqua potabile e servizi igienici, l’energia elettrica è fornita in modo ridotto, l’approvvigionamento di medicinali (anche quelli essenziali) è difficile, se non impossibile.

Sono, peraltro, realtà in cui manca ogni tipo di informazione, con conseguenze serie e preoccupanti: Medici Senza Frontiere ha, ad esempio, segnalato una significativa riduzione dei Rohingya che chiedono di accedere ai servizi sanitari perché convinti che chi riferisce un sintomo riconducibile al coronavirus verrebbe ucciso. Realtà rese ancora più invivibili dalle misure di prevenzione alla diffusione del virus, con limitazione alla circolazione e riduzione delle attività non essenziali: chi vive nei campi profughi, però, conta su lavori giornalieri, per la maggior parte svolti in nero.

Secondo il rapporto del PAM (Piano alimentare mondiale - Nobel per la pace nel 2020) a giugno dello scorso anno la situazione alimentare nei campi profughi richiedeva un’assistenza al 77% dei rifugiati. Questo valore oggi è salito al 90%. 

L’Agenzia delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR) ha evidenziato la necessità di intervenire “in aiuto dei più vulnerabili, milioni e milioni e milioni di persone che non sanno come proteggersi. Si tratta di una questione di solidarietà umana”. In base ai rapporti UNHCR nel 2019 sono stati registrati complessivamente 79,5 milioni di persone sradicate dai loro luoghi di residenza e di vita (di cui 26 milioni rifugiati fuori dal loro Paese di origine, 45,7 milioni di sfollati interni fuggiti da guerre o persecuzioni, 4,2 milioni di domande d’asilo presentate nello stesso anno). Di tutte queste persone, il 40% sono minori con meno di 18 anni.

Nel 2020 il numero dei migranti forzati è salito a circa 82,4 milioni: l’1% della popolazione mondiale ed è una cifra mai raggiunta in passato. Il numero di minori in fuga è stimato intorno ai 30-34 milioni, decine di migliaia dei quali non accompagnati. È un numero più elevato di quello dell’intera popolazione di Australia, Danimarca e Mongolia messe insieme.

Oltre otto rifugiati su dieci (85%) vivono in Paesi in via di sviluppo, generalmente un paese confinante rispetto a quello da cui sono fuggiti. Solo una piccola parte di queste persone in dieci anni ha trovato una soluzione di lungo periodo: 3,9 milioni di persone sono tornate nei loro paesi di origine, 1,1 milioni sono stati ricollocati in altri paesi, 322.400 persone si sono naturalizzate nel loro paese di approdo.

La pandemia del covid -19, che ha colpito e sta continuando a colpire il mondo, non ha portato una maggiore solidarietà verso le persone che hanno dovuto lasciare le loro case e i propri Paesi di appartenenza che, oltre ad essere in fuga, si devono ora confrontare in maniera ancora più capillare con chiusure e restringimenti sia di frontiere che di porti (sono 168 Paesi che dal mese di aprile 2020 hanno chiuso parzialmente o totalmente i loro confini per contenere i contagi). Caduto nel vuoto anche l’appello del Segretario Generale delle Nazioni Unite, Antonio Guterres, per un cessate il fuoco globale. Molto invece potrebbe fare la comunità internazionale considerato che più dell’82% degli sfollati nel mondo proviene da appena dieci Paesi e cioè dalla Siria (6,5 milioni), dal Venezuela (3,7 milioni), dall’Afghanistan (2,7 milioni), dal Sud Sudan (2,8 milioni), dal Myanmar (995 mila), dalla Somalia (910mila), dalla Repubblica Democratica del Congo (822 mila), dal Sudan (772 mila), dalla Repubblica Centrafricana (609 mila) e dall’Eritrea (514 mila).

Più in generale i c.d. “lock down” imposti dai governi nei Paesi dove la situazione era già difficile a causa della povertà, delle profonde crisi economiche, delle carenze di cibo, alloggi e strutture sanitarie, di conflitti armati (oggi nel mondo ci sono 30 tra conflitti e crisi armate) hanno avuto effetti devastanti sulle persone che si sono venute a trovare in situazione di aumentata disperazione. L’economia del Paese, già in difficoltà, è stata ulteriormente compressa. La chiusura delle scuole ha aumentato il rischio dei bambini di subire violenze.

Nei Paesi più poveri è stato difficoltoso anche dotarsi dei dispositivi di protezione sanitaria utili a prevenire la diffusione del virus (mascherine) e degli strumenti che consentono di diagnosticarlo in tempi brevi (in alcuni Paesi gli esiti dei test vengono resi noti anche dopo una settimana) o di curare i sintomi (ventilatori, bombole di ossigeno).

In India (uno dei Paesi maggiormente colpiti dal virus), ma anche in Bolivia, si è sviluppato un vero e proprio mercato nero (con prezzi enormemente elevati) per il rifornimento di ossigeno e di remdesivir (un farmaco antivirale che in India è stato approvato come anti-covid) per tentare le cure a domicilio in assenza di posti in ospedale.

E in tutti questi Paesi le vaccinazioni procedono a rilento.

A livello internazionale è stato organizzato il programma COVAX (COVID-19 Vaccine Global Access Facility) per la distribuzione equa dei vaccini in tutto il mondo, co-guidato da Gavi Alliance (Alleanza per i vaccini pubblico-privato) unitamente all’OMS e a CEPI (Coalition for Epidemic Preparedness Innovations). Scopo dell’iniziativa è di fornire agli Stati a reddito medio e basso l’accesso ai vaccini di diversi produttori indipendentemente dal loro potere di acquisto.

La campagna mondiale di vaccinazione contro il covid-19 dell’OMS aveva come obiettivo quello di vaccinare almeno il 10% della popolazione globale entro il 30 settembre 2021.

L’obiettivo non è stato raggiunto: a metà ottobre 2021 solo 15 Paesi su 54 hanno vaccinato almeno il 10% degli abitanti. Metà ne hanno vaccinati meno del 20% (in Africa, ad esempio, risulta vaccinato solo il 4,4%) e in due Paesi (Eritrea e Burundi) le vaccinazioni non sono nemmeno iniziate.

Il dato ancor più preoccupante è che proprio i Paesi più densamente abitati sono quelli dove il numero delle vaccinazioni è più basso (Egitto circa il 5% e in Eritrea ed Etiopia meno del 3%).

Tutto ciò nonostante nel mondo le vaccinazioni anti-Covid in totale somministrate siano quasi 6,8 miliardi. Quasi l’80% è, però, concentrato nei 10 Paesi più ricchi.

Secondo l’OMS tale sproporzione è dovuta, in parte, al fatto che Covax si rifornisce dal Serum Institute of India (il più grade centro di produzione mondiale) e che l’India dall’aprile 2021 ha bloccato l’esportazione di vaccini per far fronte al proprio fabbisogno interno (lo sblocco dovrebbe essere a breve, almeno in parte, revocato), ma anche al fatto che i paesi europei e del G7, che si erano impegnati a fornire più di un miliardo di dosi di vaccini da destinare ai paesi “poveri”, ne hanno consegnati fino ad ora meno del 15%.

Tale dato deve far riflettere, tanto più alla luce del fatto che diversi Paesi, tra cui l’Italia, hanno iniziato le somministrazioni della terza dose di vaccino, nonostante lo scorso mese di agosto il direttore generale dell’OMS avesse chiesto loro di sospendere addirittura la somministrazione della seconda dose per consentire forniture maggiori ai Paesi poveri.

Anche l’associazione Medici Senza Frontiere aveva chiesto ai Paesi in grado di procurarsi sufficienti dosi di vaccino di attuare una redistribuzione immediata delle dosi in eccesso. A Germania e Stati Uniti ha, altresì, chiesto di “fare pressione affinché le case farmaceutiche Pfizer-BioNTech e Moderna condividano la tecnologia e il Know-how sui vaccini a mRNA messaggero con i produttori nei Paesi a basso e medio reddito”.

Pochi giorni fa è intervenuto sull’argomento anche Papa Francesco chiedendo “in nome di Dio” ai grandi laboratori di liberalizzare i brevetti dei vaccini, così compiendo un “gesto di umanità” che permetta a “ogni Paese, ogni popolo, ogni essere umano” di avere accesso al vaccino.

Per accelerare la diffusione dei vaccini a livello globale da più fronti (Parlamento Europeo, Global Health Summit svoltosi a Roma lo scorso mese di maggio, Medici Senza Frontiere) è stata sollecitata le revoca (almeno temporanea) delle tutele di proprietà industriale (brevetti) da parte delle principali società farmaceutiche produttrici. Fino ad oggi, però, la resistenza delle aziende coinvolte e di alcuni dei Paesi più ricchi è ancora forte. La stessa Commissione Europea, peraltro, si è dichiarata disponibile ad esaminare la risoluzione del Parlamento ma non ha negato le proprie perplessità.

Questa chiusura dei Paesi ricchi denunciata dall’OMS rischia di impedire di porre realmente un freno alla circolazione del virus. Come hanno spiegato gli scienziati, il virus circolando muta generando nuove varianti contro le quali i vaccini attuali rischiano di non essere efficaci. Questa scarsa lungimiranza rischia, quindi, di vanificare gli effetti delle attuali politiche sanitarie anche dei Paesi dell’Unione Europea.

Secondo la stima di un ricercatore dell’OMS, Bruce Aylward, la pandemia proseguirà ancora per tutto il 2022, principalmente a causa della scarsità delle dosi di vaccino ricevute dai Paesi più poveri.

I Paesi più ricchi tendono a concentrarsi esclusivamente sulle necessità interne, ma ragioni etiche e di autotutela dovrebbero portarli a preoccuparsi (ed occuparsi) anche del “resto del mondo” maggiormente in difficoltà.

Né la soluzione può essere quella di chiudere le frontiere fino a quando il virus scomparirà. L’Australia, ad esempio, dopo ben 18 mesi (nel corso dei quali ha vietato ai cittadini di viaggiare all’estero senza specifica autorizzazione) sta ipotizzando di riaprire le frontiere nelle prossime settimane, seppur senza consentire (almeno per ora) l’accesso agli stranieri.

Né le politiche finalizzate a limitare la diffusione del virus possono non tener conto delle migrazioni necessitate di tutte quelle persone che sfuggono alle guerre civili ed alle persecuzioni.

Conclusivamente potremmo dire che questa crisi pandemica ha reso più evidenti due profili problematici, che già stavano emergendo nelle democrazie contemporanee: la giustizia sanitaria e la giustizia tra generazioni.

Responsabilità sociale, trasparenza, reciprocità e cooperazione non sono dimensioni che possono essere mantenute all’interno del territorio nazionale o dei confini dell’Unione Europea, ma devono assurgere ad una dimensione globale. La lungimiranza della politica sanitaria della stessa UE si misurerà sulla capacità di proteggere i propri cittadini all’interno dei nuovi assetti geo-bio-politici.

Ma per comprendere questa interrelazione universale è necessario riaffermare i principi di precauzione, appropriatezza delle cure, di accessibilità, di giustizia distributiva, che sono il cardine della giustizia sanitaria e che, come tutti i principi etici, dovranno confrontarsi nei prossimi decenni con casi sempre diversi e sempre più interconnessi a livello globale.

Altro aspetto è il patto tra generazioni che in Italia trova fondamento nell’art. 3 Cost. (“Tutti cittadini hanno pari dignità sociale e sono uguali davanti alla legge senza distinzione di sesso di razza di lingua di religione di opinioni politiche di condizioni personali e sociali. È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti lavoratori all’organizzazione politica economica e sociale del paese”).

Sia la crisi climatica che la pandemia hanno chiesto alle nuove generazioni di adultizzarsi in fretta, coniugando i valori del rispetto della solidarietà e della cura con la responsabilità civile. Richiedono agli educatori di fondare l’insegnamento sui due pilastri dell’esclusione dalle discriminazioni e dell’inclusione nella responsabilità. Aspetti che coinvolgono anche il rapporto tra cittadini e Stato, tra società liberaldemocratiche e società totalitarie o autoritarie nelle quali l’utilizzazione, l’allocazione e la redistribuzione delle risorse pubbliche avviene sempre secondo il solo giudizio di chi detiene il potere. (“Etica pubblica e nuovo coronavirus: una duplice questione di giustizia” di Alberto Pirni e Cinzia Caporale)

E come detto non si tratta di porre attenzione al solo livello micro allocativo (che attiene all’accessibilità di tutti i cittadini di un paese alle risorse di cura), ma anche alla macro allocazione (che attiene alla distribuzione universale in tutti i paesi del pianeta degli strumenti di cura), considerata la profonda interrelazione che esiste e deve esistere tra le politiche sanitarie nazionali per arginare le diffusioni pandemiche.

Per far questo è necessario vedere più ciò che ci unisce che ciò che ci divide. Papa Francesco ha sottolineato che non c’è felicità senza altruismo. Lo stesso concetto è insito nell’obbligo devozionale islamico della Zakat (l’elemosina che va a purificare la ricchezza individuale per aiutare chi ha bisogno); ma anche nel buddhismo si valorizza il concetto di interdipendenza delle vite umane e di queste con l’ambiente: se ci si preoccupa della pace, della propria felicità è indispensabile tener conto dell’altrui disagio. (“Uno sguardo al di là del nostro giardino” di Francesca Maria Corrao)

Questa spinta verso una cittadinanza universale può derivare dal fatto che in questi tre anni i popoli del mondo hanno condiviso anche l’esperienza della morte, e quindi i sentimenti di precarietà e fragilità della condizione umana svelando al contempo quanto può essere effimera la protezione derivante dalla sola ricchezza e dalla sola tecnologia. E ciò nonostante il fatto che la pandemia ha segnato l’affermazione della ricerca scientifica e della tecnologia, e delle infrastrutture digitali che hanno svolto un ruolo fondamentale.

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