Il post pandemia: aprire un nuovo percorso tra nuovi modelli di sviluppo e di governance

Già prima della pandemia la civiltà occidentale si trovava di fronte a una sfida difficile e nuova: coniugare le esigenze libertarie, figlie della progressiva personalizzazione dei diritti, con le istanze comunitarie. In altre parole cercare di mantenere il senso della libertà individuale senza “tradire lo spazio dell’altro”, non solo non invadendolo ma contribuendo al suo arricchimento. (Il Cortile dei gentili, “Demografia, economia, democrazia” ECRA Roma 2020).

L’emergenza sanitaria ha reso improvvisamente macroscopiche vulnerabilità umane e disuguaglianze già esistenti, oltre alla fragilità dell’assetto istituzionale e di quello sanitario: abbiamo vissuto l’insufficienza delle risorse di cura (scarsità di cure intensive e sub intensive, di sanità di territorio e di cure palliative ..); l’impreparazione di singoli e famiglie di fronte ad un evento imprevisto ed inedito; l’asimmetria delle condizioni esistenziali di fronte al distanziamento sociale, all’isolamento domestico e al lavoro a distanza (diverso il comfort dell’abitazione, la potenza della connessione alla rete, la qualità dei dispositivi di accesso, la tipologia di lavoro). Criticità divenute ancora più importanti in un momento in cui il virtuale digitale era diventato quasi l’unico spazio praticabile (anche di relazione umana ed educativa).

Le democrazie occidentali, nonostante gli sforzi, non sono state in grado di assicurare a tutti lo stesso livello di protezione: un sistema democratico si misura, tuttavia, proprio sul trattamento riservato agli ultimi. Nella situazione emergenziale anche le regole giuridiche ed i rapporti fra istituzioni endostatali, e fra queste e i cittadini, sono entrate in crisi: in democrazia forma e sostanza delle decisioni devono cercare sempre di essere in equilibrio, e poggiare su comprensibilità e consenso diffuso.

La fisiologia delle democrazie richiede, infatti, di promuovere la responsabilità dei cittadini, affinché i comportamenti vengano liberamente scelti nella consapevolezza di essere una comunità e di condividere il medesimo destino.

Solo eccezionalmente un sistema democratico può imporre dall’alto ai cittadini comportamenti determinati, pur giustificati dalla tutela dell’interesse collettivo.

Una democrazia per mantenere la sua essenza deve affidarsi alla preparazione della classe dirigente, al costruttivo rapporto fra istituzioni e alla comune e fattiva consapevolezza dei cittadini che le regole di comportamento rispondono all’interesse di tutti.

In tale contesto la forma e la qualità del nostro futuro dipenderà dalla lezione etica che sapremo trarre dall’impegnativa esperienza vissuta.

Molti invocano il ritorno al mondo di “prima”: è tuttavia evidente che quell’assetto si è rivelato sin troppo favorevole alla diffusione delle pandemie e all’aggravarsi delle disuguaglianze.

L’OMS (Organizzazione mondiale della sanità) nel novembre del 2019 aveva già ammonito gli Stati sulla presenza di rischi pandemici gravi. Ma questo monito è caduto nel vuoto. Anche il nostro sistema sanitario ha continuato ad essere governato da principi di efficienza e di risparmio economico. La politica sanitaria non ha riflettuto sulla necessità di implementare sul territorio nazionale la produzione di tecnologie sanitarie essenziali, di farmaci e di ricerca scientifica e farmaceutica. E la scelta di affidarsi a rapporti di acquisto da produttori esteri ha determinato la grave carenza, soprattutto nella prima fase emergenziale, di materiali base come le mascherine, i respiratori o l’ossigeno.

In situazioni di crisi globalizzata, non bastano le risorse finanziarie e gli accordi contrattuali con le case farmaceutiche o i grandi produttori internazionali a tutelare i cittadini. L’emergenza innesca inevitabilmente conflitti di interessi tra Stati e reazioni di tipo egoistico e di sopravvivenza nella nell’approvvigionamento delle risorse che risultino necessarie.

La pandemia covid-19 è il primo evento pandemico che ha investito simultaneamente, e con una velocità di contagio impressionante, tutti i continenti (“I virus come il riscaldamento globale non hanno bisogno di passaporto per fare il giro del mondo” - Joseph Stiglitz). Ed è stato per noi occidentali il primo scenario radicale vissuto dalla generazione nata dopo la seconda guerra mondiale.

Nel cercare di leggere gli eventi e di trarne utili insegnamenti per il futuro, si è evidenziata la necessità di un nuovo approccio alle situazioni complesse sia nazionali che internazionali che è stato definito di “resilienza trasformativa”: una resilienza basata sul superamento della tentazione di ritorno al “prima”, ad una economia imperiata sulla mera crescita quantitativa; e sulla consapevolezza dell’esigenza di ripensare al nostro modello di sviluppo.

Le politiche dei governi non possono, infatti, continuare ad essere incentrate quasi esclusivamente su obiettivi di equilibrio finanziario e produttivo, senza considerare che il benessere collettivo ed individuale dipende dalla salute, dal benessere psichico, dal rispetto dell’ambiente naturale, dall’equilibrio tra vita privata e lavorativa, dall’equilibrio tra specie, dalla cooperazione, dalla solidarietà, dall’appartenenza sociale e comunitaria, dalla fiducia negli altri (Pandemia e resilienza, Cortile dei gentili CNR edizioni 2020).

Abbiamo percepito quanto l’uomo sia vulnerabile davanti al carattere estremo e all’intensità di fenomeni climatici e sanitari, alla scarsità di risorse: una società resiliente in senso trasformativo deve scegliere le nuove direzioni da intraprendere.

La riflessione multidisciplinare degli ultimi anni ha evidenziato la necessità di abbandonare l’economia lineare: il 25% di tutti i beni prodotti fino ad oggi è stato realizzato dopo l’anno 2000. L’economia lineare prevede che il prodotto derivi dall’impiego di materie prime e finisca con un rifiuto, spesso difficilmente smaltibile.

Questo approccio deve essere sostituito dal c.d. “metodo circolare”, sia in campo ambientale ed economico che sanitario (la c.d. salute circolare),

Gli obiettivi strategici delle istituzioni dovranno, quindi, essere diretti a privilegiare l’economia circolare, lo smart work, la mobilità sostenibile, l’efficientamento energetico.

L’economia circolare si basa sul principio di equilibrio e sull’autocompensazione: se togli, rimetti. Fondamentale anche la riduzione degli scarti e il loro recupero.

L’economia circolare incide fin dalle modalità produttive: cerca di far nascere il prodotto con una materia seconda, e cerca di disegnarlo in modo tale che al termine della propria vita diventi un input per nuove produzioni. Durante la propria vita non deve produrre rifiuti, con grande attenzione anche ai materiali di imballaggio e alle forme di trasporto.

Nell’economia circolare la bioeconomia ricerca una connessione tra le diverse componenti naturali, favorendo la produzione naturale di sostanze e prodotti prima realizzati per via sintetica, incidendo in modo essenziale nella non produzione di rifiuti.

Cambia anche il modo di misurare la qualità di un prodotto: il valore sarà collegato alla percentuale di materia seconda, alla durata del ciclo di vita, alla sua capacità di essere a sua volta materia seconda per altre produzioni senza finire in rifiuto ecc.

Solo in questo modo riusciremo a disallineare la creazione di valori economici dalla costante distruzione delle risorse naturali ed ambientali.

Ripensare il modello di sviluppo significa ripensare alla relazione tra individuo e comunità, tra salute e lavoro, tra dimensione sociale ed economica, e soprattutto tra umanità e pianeta.

Questo è anche lo spirito che anima il nuovo piano di azione per l’economia circolare lanciato dalla Commissione Europea nell’ambito del Green Deal.

La “giustizia ambientale” è oggi un concetto in grado di confrontarsi con questioni complesse come il cambiamento climatico, l’inquinamento dell’acqua e dell’aria, i pesticidi, lo smaltimento dei rifiuti, il riciclo, l’ubicazione degli impianti industriali, la tutela della fauna, la salute.

Perché vi è uno stretto collegamento tra rischi ambientali e disuguaglianze economiche e sociali, a partire dall’accesso a beni e risorse.

E le tre fondamentali dimensioni della giustizia ambientale sono appunto distribuzione, riconoscimento e partecipazione.

Questo concetto di giustizia deve valorizzare la rete di relazioni che ci collega alla natura e agli animali, estendendosi oltre i confini della nostra specie.

Sono oggi degni di considerazione etica e giuridica anche l’ambiente e tutte le specie viventi.

Siamo parte di un ecosistema interconnesso in cui la salute di ogni elemento – umano ambientale ed animale – è strettamente dipendente da quella degli altri (c.d. sindemia).

In questo ecosistema rientrano anche le relazioni tra Stati e la necessità di elaborare un concetto di cittadinanza planetaria, in grado di adottare carte di diritti e di progettare istituzioni sovranazionali capaci di tracciare quelle che la fisolofa Martha Nussbaum definisce “le nuove frontiere della giustizia”. (L’idea di salute globale. Una sfida per la bioetica di Luisella Battaglia Direttrice Istituto italiano di bioetica).

Sul piano sanitario la salute circolare rapporta la salute non solo alla relazione persona-malattia, ma la connette alle nostre relazioni con gli altri viventi con cui condividiamo il pianeta.

È un concetto dinamico: è la capacità di mantenere il proprio equilibrio nell’affrontare gli eventi della vita e di adattarsi ai cambiamenti del proprio ambiente. E necessita di ambienti favorevoli alla vita umana, di adeguate relazioni sociali e di opportune forme di cura reciproca e organizzata.

All’inizio, molti secoli fa, parlare di salute significava occuparsi della salute dell’anima, poi è arrivata la salute del corpo, dopo centinaia di anni siamo arrivati a capire che esiste anche la salute della mente. Noi abbiamo l’ulteriore consapevolezza che la salute dell’essere umano è un riflesso di ciò che avviene nelle altre forme di vita presenti sul nostro pianeta. Ippocrate aveva capito che gli uomini devono essere in equilibrio con quello che hanno dentro e quello che c’è fuori. Ippocrate aveva già capito allora che cosa dovrebbe essere oggi la salute circolare”. (Salute circolare. Una rivoluzione necessaria 2019 di Ilaria Capua  direttrice dell’One Health Center of Excellence dell’Università della Florida)

Quali sono quindi le lezioni da trarre dall’attuale esperienza pandemica?

Anzitutto la necessità di abbandonare il “modello dell’alluvione”: si attende che l’acqua rientri nell’alveo del fiume, si rinforzano un po’ gli argini e poi si vive come prima. (“La lezione e il monito della pandemia da covid-19” di Stefano Zamagni)

C’è poi bisogno di una capacità di risorse sanitarie di emergenza (posti letto, apparecchiature, personale sanitario competente) molto superiore rispetto ai normali standard pre-pandemia.

C’è bisogno in sanità di nuovi modelli organizzativi, che comprendano una sanità di prossimità e di territorio in grado di curare prima e dopo l’arrivo in ospedale.

È necessario realizzare un sano principio di sussidiarietà: una sanità e un’assistenza sociosanitaria concentrati in grandi strutture come ospedali ed RSA per anziani o persone con disabilità si sono rivelate inadeguate a reggere situazioni come quelle pandemiche.

Bisogna, quindi, destinare più risorse alla sanità domiciliare e di territorio, individuare opzioni di cura e di residenzialità alternative e più vicine alle esigenze di umanizzazione e di prossimità e comunque al modello di vita indipendente.

Dal welfare state dobbiamo passare al welfare society o di comunità, implementando un modello relazionale ed educativo che punti a far crescere nuove generazioni di cittadini responsabili, attenti al bene comune; che abbia come obiettivo realizzare un’organizzazione sociale capace di rinnovare strumenti, metodi e spazi e di rimodularli rapidamente in caso di crisi.

Questo significa anche immaginare e realizzare luoghi di relazione e cultura capaci di rigenerare psicologicamente l’essere umano e pensarli come accessibili anche in situazione di crisi.

Questa educazione e questo modello devono rispondere a valori socialmente e ambientalmente sostenibili. Lo sviluppo deve, cioè, essere svincolato dalla massiva e sistematica distruzione delle risorse naturali, deve favorire un’economia circolare, l’efficienza energetica dei processi produttivi, utilizzare fonti di energia rinnovabili e in generale rispettare le risorse naturali e le specie animali.

La transizione verso una società più resiliente richiede trasformazioni scientifiche e tecnologiche e, quindi, bisognerà puntare molto sulla ricerca scientifica.

L’Italia in questo senso è in notevole ritardo, avendo fino ad oggi investito in ricerca lo 0,3% del Pil, che è la metà di ciò che investono Danimarca Finlandia e Germania.

Bisogna, inoltre, potenziare l’assistenza verso i fragili, anche attraverso lo sviluppo di tecnologie innovative, che promuovano la cittadinanza attiva a tutte le età e in tutti i contesti sociali, primo antidoto a sentimenti di esclusione e a situazioni di marginalità culturale e sociale.

Le nostre società sono come catene formate da tanti anelli, ed è la forza dell’anello più debole che fa la forza della catena nei momenti di crisi. È il modo in cui ci si prende cura degli ultimi che fa la cifra morale di una civiltà” (Pandemia e resilienza, Cortile dei gentili CNR edizione 2020)

È anche necessaria una collaborazione strutturata fra istituzioni e organizzazioni presenti sui territori, sia nella fase istruttoria precedente l’adozione dei provvedimenti, sia nella fase esecutiva.

I sistemi democratici moderni si basano sul principio di sussidiarietà. Nell’ordinamento italiano è previsto dall’art. 118 della Cost., che demanda ai corpi intermedi della società il compito di concorrere insieme alle organizzazioni statali alla coprogettazione e al cogestione degli interventi.

L’Italia vanta un insieme molteplice e organizzato di enti del terzo settore: a quanto noto nella crisi pandemica il governo non ha chiamato alcuno di questi enti a far parte strutturale delle varie commissioni di esperti, anche se poi ha appoggiato su molti di essi l’erogazione di servizi di assistenza socio sanitaria.

Si tratta di un mondo che, invece, avrebbe potuto contribuire non poco, se non altro per l’apparato di conoscenze e informazioni di cui può disporre solo chi opera concretamente e quotidianamente sul territorio e per il territorio.

Avrebbe, ad esempio, potuto intervenire (e potrebbe ancora farlo) sul piano dell’informazione, con vere e proprie azioni di pedagogia sanitaria e di educazione alla responsabilità, intesa come necessità di prendersi cura l’uno dell’altro.

È necessario, altresì, intervenire sulle strutture di digitalizzazione.

L’indice europeo DESI (Digital economy and society index) che misura il grado di digitalizzazione dei vari Paesi pone l’Italia al 24º posto su 28 Stati. Ovviamente queste strutture devono essere accessibili a tutti, soprattutto ai meno abbienti.

Nel welfare society o di comunità, la riscoperta del territorio e delle organizzazioni sociali che ne sono espressione, non mira a sovrapporsi o sostituirsi al ruolo dello Stato, ma a superare la divisione tradizionale pubblico e privato: la salute non è né un bene solo privato né un interesse solo pubblico, è un bene comune cioè un bene relazionale (“Nuovo coronavirus: una rivoluzione di punti di vista e priorità” di Leonardo becchetti).

La qualità della vita di relazione è uno dei fattori fondamentali, non solo per il benessere individuale ma anche per la produttività di istituzioni, organizzazioni ed imprese.

La pandemia ha prodotto una rivoluzione nella dimensione spazio-temporale della nostra comunità: prima eravamo ricchi di spazi (prendevamo treni e aerei) ma poveri di tempo, gran parte del quale era impiegato negli spostamenti.

La pandemia ci ha reso poveri di spazio, in periodo di lockdown addirittura chiusi nell’ambito domestico, ma molto più ricchi di tempo. Questa dimensione può essere valorizzata anche in futuro, per prestare i servizi essenziali: basti pensare allo sviluppo della telemedicina.

Infine, la situazione di emergenza ha messo in drammatico rilievo l’impreparazione delle istituzioni. Qui i possibili livelli di intervento socio-istituzionale sono tre: sussidiarietà, cultura e connessioni.

La sussidiarietà può mitigare le difficoltà della mancanza di coordinamento tra territori e livelli di governo, e può contrastare la solitudine dei fragili e dei disabili, delle famiglie numerose, degli anziani.

La cultura deve essere posta al centro delle future strategie di resilienza trasformativa: una cultura di qualità nel mondo dei media, nella scuola, nell’università.

L’obiettivo deve essere la formazione dei giovani ad una sana relazionalità, alla condivisione e alla solidarietà.

Una società matura dovrebbe offrire a tutti a qualsiasi età molti strumenti di crescita umana sociale e culturale.

Il tema delle connessioni è più complesso: la situazione emergenziale ha messo in evidenza i limiti della separazione tra cultura, discipline e territori.

Solo una piattaforma comune di valori condivisi può diventare un rapido punto di riferimento per le decisioni da prendere tra Regioni e Stato, e tra Stati in Europa e nel mondo, ma anche tra continenti e aree geopolitiche.

Nell’ambito sociale la connessione andrà ricercata nella collaborazione tra organizzazioni statali, sociali e di mercato, superando la contrapposizione tra pubblico e privato, tra vita privata e lavorativa, tra primo secondo e terzo settore economico.

La connessione dovrà operare anche tra discipline, perché solo la multidisciplinarietà potrà aiutare ad affrontare sfide complesse, integrando le riflessioni scientifiche della biomedicina e delle scienze biosociali (“Salute comunità e sussidiarietà ai tempi della pandemia” di Carla Colelli).

Vi è, in altre parole, l’esigenza di uscire dal vecchio quadro di riferimento, e di elaborare un’etica della responsabilità su scala mondiale, l’unica adeguata a confrontarsi con i problemi cruciali di sopravvivenza umana.

Nella nuova scala valoriale il nostro prossimo - inteso come le persone su cui esercitiamo potere e verso cui siamo moralmente tenuti a vincolare le nostre scelte - non potrà più essere individuato sulla sola base della prossimità.

Il prossimo si collocherà al di là della prossimità, sia essa spaziale -“la nostra tribù” -, temporale “i nostri figli” - o di specie - “la razza umana”. (L’idea di salute globale. Una sfida per la bioetica di Luisella Battaglia direttrice Istituto Italiano di Bioetica)

Sul piano giuridico occorrerà tornare alla radice dei diritti umani, coniugare libertà individuale e responsabilità, superare la separazione tra diritti individuali e diritti sociali, per concentrarsi sulla tutela della dignità delle persone.

In tutto questo la priorità assoluta sarà formare ed educare i cittadini, e prima ancora la classe dirigente, ad affrontare le sfide del futuro; implementare l’istruzione di base per promuovere un patto tra generazioni.

Uomini e donne della società civile dovranno aiutare l’azione pubblica, perché superi strutturalmente le diseguaglianze e l’impoverimento. (“Riflessioni sul futuro” di Emma Fattorini).

Tutto questo per evitare la tentazione di convincersi che solo la mano ferma di un governo autoritario possa reggere le sfide della globalizzazione, per evitare che le strategie di controllo del virus diventino un modello generale e strutturale per gestire la società globale e il rapporto tra Stato e cittadino.

Il modello autoritario nega le nostre radici nazionali ed europee, fondate sulla dignità umana e sulle libertà degli individui, sul convincimento e sul consenso, sulla solidarietà e sull’uguaglianza.

Ovviamente la resilienza trasformativa è un percorso faticoso, ma l’unico possibile in una democrazia.

Come diceva Sant’Agostino “Dal male può uscire il bene, ma solo se ci si lavora con consapevolezza”. (De libero arbitrio).

Ok
Questo website usa solamente cookies tecnici per il suo funzionamento. Maggiori dettagli