Circonvenzione di incapace nei confronti della sorella: la Suprema Corte chiarisce in quali circostanza il rilascio di una delega bancaria integri il reato in esame

di avv. Anna Silvia Zanini

La Suprema Corte, con la sentenza n. 33293 del 14 giugno 2024, depositata in data 29 agosto 2024, ha disposto l'annullamento con rinvio della sentenza di condanna emessa dalla Corte d’Appello di Venezia nei confronti dell’imputato, accusato del reato di circonvenzione di incapace ai sensi dell'art. 643 c.p., per aver abusato della condizione di vulnerabilità della sorella, soggetto dichiarato invalido al 100% a causa di gravi disturbi psichici, al fine di ottenere una delega bancaria per operare sul suo conto corrente.

Si rileva preliminarmente che il reato di circonvenzione di incapace, disciplinato dall’art. 643 c.p., punisce chi, abusando dello stato di infermità o deficienza psichica di una persona, la induce a compiere atti che comportano un pregiudizio economico per sé o per altri. Per la configurazione del reato, la giurisprudenza richiede la compresenza di tre elementi costitutivi: la condizione di vulnerabilità della vittima, che può derivare da uno stato di infermità o deficienza psichica tale da compromettere la capacità di autodeterminazione negli atti patrimoniali; l’attività di induzione da parte dell’agente, ossia un'attività di pressione morale o psicologica che persuada la vittima a compiere un atto dannoso per il proprio patrimonio; e il danno patrimoniale conseguente, che può consistere in una disposizione patrimoniale lesiva per il soggetto passivo.

La Suprema Corte ha più volte ribadito che la sola condizione di infermità della vittima non è sufficiente a integrare il reato de quo, essendo necessario provare la presenza di un comportamento manipolativo significativo da parte dell’agente. È proprio su tale aspetto che la Corte di cassazione ha concentrato la sua attenzione nella pronuncia in esame.

La vicenda giudiziaria origina dall'accusa secondo cui l’imputato avrebbe indotto la sorella, in condizioni di accertata infermità psichica, a rilasciargli una delega bancaria che gli consentiva di operare sul suo conto corrente senza obbligo di rendiconto. Tale delega avrebbe poi permesso all’imputato di effettuare numerosi prelievi di denaro, ritenuti indebiti dall'accusa.

Con sentenza del 28 novembre 2023, la Corte d'Appello di Venezia aveva confermato la pronuncia di condanna, ritenendo provata la sussistenza di una condotta manipolatoria da parte dell'imputato, in quanto "la situazione complessiva familiare e le modalità e i tempi con cui l'imputato si è fatto rilasciare la delega" indicavano un abuso della condizione di vulnerabilità della vittima.

Il ricorrente, per il tramite del proprio difensore, ha impugnato la sentenza di appello deducendo, tra l’altro, la violazione di legge per l’assenza di atti di induzione e/o manipolazione attribuibili all'imputato che potessero configurare il reato contestato, e il vizio di motivazione, ritenuta insufficiente e illogica rispetto alla dichiarata sussistenza di atti di pressione psicologica o morale.

La Corte di cassazione ha accolto i predetti motivi di ricorso, rilevando che la motivazione della Corte d'Appello era fondata su deduzioni non suffragate da elementi probatori adeguati.

In particolare, la Suprema Corte ha rilevato che la Corte d'Appello aveva desunto la condotta di induzione illecita dal solo fatto che l'imputato avesse successivamente prelevato somme di denaro dal conto corrente della sorella e le avesse utilizzate per scopi personali.

Tuttavia, la Cassazione ha chiarito che "non può dedursi sic et simpliciter l'attività di induzione illecita dall'esistenza di atti di disposizione dannosi per la persona offesa", evidenziando la necessità di provare l'effettiva esistenza di una manipolazione psicologica antecedente al rilascio della delega.

Difatti, in tema di circonvenzione di persone incapaci, il rilascio di una procura generale alla gestione del patrimonio, atto di per sé "neutro", integra l'elemento materiale del reato laddove, all'esito di una valutazione complessiva di tutte le circostanze del caso concreto, si accerti che l'imputato abbia indotto la persona offesa a conferirgliela attraverso la manipolazione della sua volontà vulnerabile, onde compiere successivamente atti di disposizione patrimoniali contrari all'interesse del delegante.

La Suprema Corte ha ribadito come "il rilascio di una delega ad operare sul proprio conto corrente non è di per sé un atto dispositivo dannoso per il delegante", ponendo l'accento sull'importanza di distinguere tra atti giuridicamente neutri e condotte penalmente rilevanti.

E’ stata, pertanto, ritenuta viziata la motivazione della sentenza impugnata, non emergendo la prova circa l'esistenza di una pressione psicologica esercitata dall'imputato sulla sorella e non essendo stati tenuti in considerazione elementi fattuali e testimonianze che avrebbero potuto indicare la spontaneità del rilascio della delega da parte della vittima, come, ad esempio, le dichiarazioni degli impiegati bancari che avevano raccolto la delega, nonché  il contesto familiare e le condizioni in cui era avvenuto il rilascio della delega stessa.

Con l’annullamento della sentenza impugnata, la causa è stata rinviata ad altra sezione della Corte d'Appello di Venezia, onerata di fornire “una adeguata motivazione in ordine all’eventuale condotta di induzione, attenendosi ai principi sopra descritti”.

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