Molestie e minacce per ottenere il mantenimento per il figlio: condannata per atti persecutori l’ex moglie

07 GIUGNO 2024 | Atti persecutori

di Avv. Anna Silvia Zanini

La Suprema Corte, con sentenza n. 9878 del 17 maggio 2023, ha confermato la responsabilità penale dell’imputata per il reato di atti persecutori commesso ai danni dell’ex marito, oggetto di molestie e minacce da parte della donna, la quale, tra l’altro, effettuava ripetute e petulanti chiamate telefoniche, aventi ad oggetto la richiesta delle somme dovute a titolo di mantenimento così come determinate nel corso del giudizio, ed offendeva e ingiuriava l’ex marito, sia per il tramite delle comunicazioni telefoniche, sia per il tramite di scritte con vernice spray sulla saracinesca della parafarmacia di proprietà della sorella della persona offesa.

Con il ricorso in Cassazione, l’imputata lamentava la mancanza degli elementi costituitivi del reato di atti persecutori, sostenendo al più la configurabilità del reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza sulle cose o sulle persone ai sensi degli artt. 392 e 393 cod. pen.

In particolare, la difesa evidenziava come non sussisteva in capo all’imputata la volontà di porre in essere condotte di minaccia e molestia tese a cagionare nelle vittime un perdurante stato di ansia e di paura per la propria incolumità, così da indurle a modificare le proprie abitudini di vita, rilevando come la ragione del conflitto con l’ex coniuge derivasse dalla mancata corresponsione, da parte del predetto, delle somme dovute per il sostentamento familiare pattuite in sede giudiziale. Ella avrebbe pertanto agito nell’esclusivo interesse della figlia, ammalata di diabete e bisognosa di dispendiose cure, sicché le azioni della ricorrente sarebbero state causate dalla condotta antigiuridica di violazione degli obblighi di assistenza familiare da parte dell’ex coniuge.

Si precisa, preliminarmente, che per la configurabilità della fattispecie di cui all' art. 612 bis c.p., che il legislatore configura come reato abituale, si richiede che il soggetto agente ponga in essere, per un lasso apprezzabile di tempo, tutta una serie di condotte, anche di per sé non integranti fattispecie di reato ma costituenti un' interferenza illecita nella vita privata della persona offesa, condotte tutte che, nel loro complesso, hanno la capacità di porre il soggetto passivo in una condizione di disagio e di realizzare uno degli eventi previsti dalla norma.

La reiterazione degli atti considerati tipici costituisce, dunque, elemento unificante ed essenziale della fattispecie, facendo assumere a tali atti un’autonoma ed unitaria offensività, in quanto è proprio dalla loro reiterazione che deriva nella vittima un progressivo accumulo di disagio che infine degenera in uno stato di prostrazione psicologica in grado di manifestarsi in una delle forme descritte dalla norma incriminatrice, ovvero cagionare un perdurante e grave stato di ansia o di paura, ingenerare un fondato timore per l'incolumità o costringere la persona offesa ad alterare le proprie abitudini di vita.

La giurisprudenza costante afferma che la prova dell'evento del delitto, in riferimento alla causazione nella persona offesa di un grave e perdurante stato di ansia o di paura, deve essere ancorata ad elementi sintomatici di tale turbamento psicologico ricavabili dalle dichiarazioni della stessa vittima del reato, dai suoi comportamenti conseguenti alla condotta posta in essere dall'agente ed anche da quest'ultima, considerando tanto la sua astratta idoneità a causare l'evento, quanto il suo profilo concreto in riferimento alle effettive condizioni di luogo e di tempo in cui è stata consumata. Ai fini, invece, della individuazione dell'evento caratterizzato dal cambiamento delle abitudini di vita occorre considerare il significato e le conseguenze emotive della costrizione sulle abitudini di vita cui la vittima sente di essere costretta e non la valutazione, puramente quantitativa, delle variazioni apportate.

Nel caso in esame, è emerso come il complesso di atti, di varia natura, posti in essere dalla ricorrente nei confronti della parte offesa, si sono tradotti in una vera e propria attività persecutoria. Le condotte in esame, nello specifico, sono consistite in appostamenti, minacce, offese, insulti, messaggi, egualmente offensivi, pubblicati su Facebook, ripetute e ossessive telefonate, episodi di danneggiamento. Le condotte in esame sono state confermate non soltanto nelle dichiarazioni dei testi escussi ma anche in quelle dell'imputata, che aveva tentato di dar conto dei propri comportamenti alla luce delle problematiche economiche esistenti con l'ex coniuge.

Gli Ermellini osservano come le condotte dell'imputata, proseguite per anni, hanno non soltanto indotto uno stato di ansia costante nella persona offesa, ma l’hanno altresì condizionata costringendola a cambiare le proprie abitudini di vita, evidenziando come le pretese economiche rivendicate dalla ricorrente fossero un mero pretesto per umiliare e perseguitare l'ex marito, e come le condotte persecutorie abbiano di gran lunga travalicato le mere rivendicazioni economiche, acquisendo preminente rilievo rispetto a queste ultime.

La Suprema Corte ha, dunque, concluso ritenendo che, nel caso in esame, siano stati correttamente applicati i consolidati principi elaborati dalla giurisprudenza in tema di atti persecutori e confermando, pertanto, la sentenza di condanna emessa dalla Corte di Appello.

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