Non si può riconoscere e annotare nei pubblici registri una sentenza di divorzio-ripudio dello Stato del Bangladesh in quanto contraria all’ordine pubblico

di Prof. Avv. Stefano Armellini e Avv. Clelia Ceccaroni

In sede di ricorso contro l’avvenuta annotazione (nella scheda anagrafica di una cittadina del Bangladesh residente in Italia e sposata con un connazionale) di una sentenza di divorzio per ripudio emessa dall’autorità del Bangladesh, la Corte d’Appello di Ancona (Sez. II, Ord., 03/02/2025, n. 189) ha statuito che il provvedimento straniero non può essere riconosciuto in Italia, e quindi neanche annotato nei pubblici registri, in quanto il ripudio della moglie da parte del marito è contrario all’ordine pubblico internazionale.

Il caso riguarda due cittadini del Bangladesh sposati in Bangladesh e residenti in Italia.

Dopo il matrimonio i rapporti tra i coniugi sono diventati sempre più conflittuali fino a che la moglie ha deciso di chiedere la separazione; in vista di tale incombente ha richiesto al Comune di Ancona la scheda anagrafica in cui era stata annotato il matrimonio scoprendo che vi era stato annotato anche il divorzio, avvenuto seguendo il rito islamico applicato in Bangladesh che ammette il ripudio unilaterale della moglie da parte del marito, sicché la donna risultava “anagraficamente di stato civile libera”.

In mancanza di norme sovranazionali comuni ai due Paesi che regolino il riconoscimento delle sentenze tra Italia e Bangladesh, trovano applicazione le norme della legge italiana di diritto internazionale privato, la n. 218/1995, la quale, come è noto, agli artt. 64-68 ha introdotto il principio che le decisioni straniere passate in giudicato sono automaticamente riconosciute in Italia senza necessità di alcun intervento giurisdizionale, in presenza di determinate condizioni.

Ci sono però alcuni casi in cui il riconoscimento non può operare automaticamente e per i quali l’art. 67 l. n. 218/1995 prevede un controllo giudiziale delle decisioni e degli altri atti e provvedimenti stranieri. In particolare, quando l’atto o provvedimento straniero necessiti di attuazione mediante esecuzione forzata.

Al tempo dell’entrata in vigore della l. n. 218/1995 si riteneva che la trascrizione e l’annotazione nei pubblici registri delle decisioni che modificano gli atti di stato civile (come le sentenze di divorzio, ad es., o di disconoscimento della filiazione) costituissero una forma di “attuazione” per la quale l’art. 67 richiede la procedura giudiziale allo stesso modo che per l’esecuzione.

All’esito di un lungo dibattito sul punto, è invece pacifico che le formalità di registrazione non costituiscono forme di esecuzione bensì di mera attuazione delle decisioni straniere che può avvenire senza previo controllo giudiziale.

Una volta eseguita la formalità, è però possibile invalidarla esperendo un ricorso ai sensi dell’art. 67 della l. n. 218/1995 dinanzi alla corte di appello del luogo di attuazione, facendo valere che la decisione era priva dei requisiti del riconoscimento.

Ciò è quanto avvenuto nel caso oggetto della sentenza in commento.

A riguardo bisogna premettere che nel dispositivo la sentenza fa riferimento alla annotazione del provvedimento di divorzio-ripudio sui registri dello stato civile.

In realtà, la situazione era un po' diversa.

Infatti, in base agli articoli 63 e 69 del d.P.R. 396/2000 (Regolamento di stato civile), le sentenze di divorzio devono essere registrate solo se l’atto di matrimonio su cui esse incidono era stato formato in Italia oppure era stato formato all’estero ma trascritto in Italia, in quest’ultimo caso, però, solo se riguarda un cittadino italiano (art. 17).

Nessuna delle due condizioni si verificava nel nostro caso.

Infatti, l’atto di matrimonio era stato formato all’estero tra cittadini stranieri e quindi non era stato trascritto nei registri dello stato civile italiano; per verità, l’articolo 19 del reg. st. civ. attribuisce anche ai cittadini stranieri la facoltà di chiedere la trascrizione dei loro atti dello stato civile formati all’estero, ma questa forma di pubblicità non era stata richiesta e comunque ha un significato diverso da quella prevista per i cittadini italiani, perché serve allo scopo di facilitare l’ottenimento delle certificazioni, e riguarda solo gli atti dello stato civile, non anche le sentenze che incidono su di essi.

Per questi motivi, contrariamente a quanto sembrerebbe ricavarsi dal dispositivo della sentenza della Corte anconetana, che ha ordinato la cancellazione dell’annotazione del provvedimento di divorzio-ripudio del Bangladesh dai registri dello stato civile, e come invece risulta più correttamente dalla motivazione, non veniva in considerazione l’annotazione del provvedimento nei registri dello stato civile ma la sua annotazione nella scheda anagrafica, dove sono riportate le informazioni, comprese quelle relative allo stato civile, relative alla popolazione residente sul territorio.

E tale annotazione non era stata eseguita dall’ufficiale dello stato civile, che quindi non meritava il clamore mediatico che la vicenda ha suscitato, bensì dall’ufficiale di anagrafe.

Va precisato che lo stato civile e l’anagrafe sono due sistemi di pubblicità completamente differenti: infatti, “lo stato civile registra gli status e tutte le vicende, fatti giuridici e dichiarazioni che provocano la formazione, modifica ed estinzione degli status, mentre l’anagrafe registra il movimento della popolazione che insiste in un determinato territorio, ma soprattutto l’ufficiale di stato civile non può intervenire nello schedario anagrafico e l’ufficiale di anagrafe non può operare nei registri di stato civile” (R. Calvigioni, Ripudio, Contrarietà all’ordine pubblico, annullamento di un atto che non c’è, un caso controverso, in I servizi demografici, n. 3/2025, pag. 28)

Anche l’annotazione nella scheda anagrafica presuppone comunque il riconoscimento del provvedimento straniero che, come detto, è in linea di principio automatico ma può essere escluso in caso di assenza di determinati requisiti, tra i quali quello che viene in considerazione nel nostro caso è la non contrarietà all’ordine pubblico.

L’ordine pubblico è, infatti, considerato un requisito per il riconoscimento delle decisioni straniere sia dall’articolo 64 della l. n. 218/1995, che riguarda in generale le sentenze straniere, sia dall’articolo 65 che è la norma applicata dalla sentenza in commento in quanto riguarda più specificamente i provvedimenti relativi (inter alia) a rapporti di famiglia.

Com’è noto, l’ordine pubblico è un principio generale del diritto. Viene in considerazione in tutti i casi in cui l’ordinamento statale si apre a valori ad esso estranei. La formula “ordine pubblico” si riferisce al complesso dei princìpi che non possono essere sacrificati per effetto della penetrazione di valori giuridici estranei.

Esistono due tipi di ordine pubblico: l’ordine pubblico interno è costituito dai princìpi che non possono essere sacrificati dall’autonomia privata (il contratto o il testamento, infatti, sono nulli in caso di contrarietà all’ordine pubblico); quello di cui si è occupata la sentenza in commento è invece l’ordine pubblico internazionale, che ricomprende quei princìpi fondamentali che caratterizzano l’atteggiamento etico-giuridico dell’ordinamento in un determinato momento storico e che pertanto non possono tollerare la presenza di princìpi e valori con essi radicalmente incompatibili provenienti da altri ordinamenti (Cass., Sent. 6 dicembre 2002, n. 17349).

Attesa la funzione del diritto internazionale privato, che è quella di aprirsi, nei limiti del possibile, agli altri ordinamenti, il perimetro dell’ordine pubblico internazionale è più ristretto di quello dell’ordine pubblico interno: così, ad esempio, la tutela dei legittimari è un principio di ordine pubblico interno che non può essere sacrificato dall’autonomia privata, ma non appartiene all’ordine pubblico internazionale, sicché potrebbe essere riconosciuta nel nostro ordinamento una sentenza straniera che non prevedesse tale tutela.

Il catalogo dei principi dell’ordine pubblico internazionale non è fissato dal legislatore, ma rimesso alla valutazione del giudice.

Nel nostro caso, l’ordine pubblico, o meglio, la non contrarietà all’ordine pubblico internazionale, veniva in considerazione come requisito per il riconoscimento della sentenza di divorzio-ripudio del Bangladesh.

L’ordinamento del Bangladesh ammette il ripudio della moglie da parte del marito (non viceversa), nella forma del talaq, che è “la possibilità riservata all'uomo di sciogliere il matrimonio con un atto unilaterale di volontà, non recettizio, che può quindi essere perfezionato anche senza che la moglie ne sia a conoscenza”.

La Corte anconetana ha osservato che “in molti codici del diritto islamico, il ripudio è oggi collocato all' interno di un procedimento giudiziario e che tuttavia, generalmente, l'autorità che interviene svolge solo funzioni di omologazione, talvolta anche funzioni decisorie, ma pur sempre limitate a recepire la volontà unilaterale del marito. Infatti, il provvedimento che incorpora il ripudio (talaq) si limita a recepire il potere unilaterale di ripudio con funzioni di omologa e di presa d'atto della volontà del marito di sciogliersi dal matrimonio”.

Ciò premesso, la sentenza in commento ha ritenuto che la sentenza del Bangladesh fosse in violazione sia dell’ordine pubblico processuale che sostanziale.

La violazione dell’ordine pubblico processuale è stata ravvisata per il fatto che l’Autorità del Bangladesh ha pronunciato il ripudio sulla base della semplice presa ad atto della volontà del marito, e la pronuncia è divenuta definitiva in seguito alla notifica del provvedimento alla moglie, senza che quest’ultima avesse potuto partecipare al procedimento.

Nella sostanza la conclusione della Corte può essere condivisa anche se a nostro avviso non era necessario ricorrere all’istituto non codificato dell’ordine pubblico processuale, dato che l’art. 65 della l.n. 218/1995, per il riconoscimento dei provvedimenti stranieri in materia di rapporti di famiglia richiede espressamente che non siano stati violati i diritti della difesa, che invece nella fattispecie sono stati violati.

L’istituto del talaq, e quindi la decisione che lo incorporava, è stato poi considerato contrario anche all’ordine pubblico sostanziale. Ed infatti, dopo avere ripercorso la giurisprudenza della Suprema Corte dalla quale risulta che

nel concetto di ordine pubblico rientrano il principio di uguaglianza e il divieto di discriminazione tra i sessi, nonché il diritto di difesa ed il principio per il quale il matrimonio può sciogliersi solamente al ricorrere del presupposto dell'accertamento del disfacimento della comunione di vita familiare (Cass. n. 16804/2020)”, la Corte anconetana ha statuito che il ripudio sancito dalla sentenza del Bangladesh viola l’ordine pubblico poiché è “discriminatorio nei confronti della donna, posto che solo il marito è abilitato a liberarsi dal vincolo matrimoniale con la formula del talaq, senza necessità di addurre alcuna motivazione effettiva, sicché l'effetto risolutivo del matrimonio deriva da una decisione unilaterale e potestativa del solo marito”.

Tale conclusione della Corte d’Appello di Ancona può essere condivisa dato che ricade senz’altro nel perimetro dell’ordine pubblico internazionale la tutela dei diritti umani fondamentali (Cass., Sent. 14 febbraio 2013, n. 3646), tra i quali rientra il principio della parità morale e giuridica tra i coniugi.

La contrarietà dell’istituto del ripudio all’ordine pubblico internazionale è stata in passato affermata anche dalla Cassazione.

Così, occupandosi del riconoscimento della sentenza con cui un tribunale palestinese sharaitico aveva pronunciato un divorzio per ripudio unilaterale del marito, la Suprema Corte ha affermato la non riconoscibilità della decisione per contrarietà all’ordine pubblico per violazione del principio di non discriminazione tra uomo e donna e anche per violazione del principio del contraddittorio dal momento che anche in quel caso la moglie aveva ricevuto notizia del provvedimento di ripudio a cose fatte, senza avervi potuto prendere parte (V. Cass., Ord. interlocutoria 14.12.2018 / 1.03.2019, n. 6161, e successiva Sent. del 7.08.2020 n. 16884).

L’orientamento, tuttavia, non è pacifico e la valutazione circa la contrarietà o meno del ripudio all’ordine pubblico sembra dipendere dalle circostanze del caso concreto.

In particolare, una successiva ordinanza della Cassazione (Ord. n. 6920/2023), pur avendo confermato l’orientamento espresso con la sopra citata sentenza n. 16804/2020, e ribadito che l’eguaglianza dei coniugi e il diritto di difesa sono princìpi essenziali del nostro ordinamento, ha accolto il ricorso contro la sentenza della Corte d’Appello di Bari che aveva ordinato la cancellazione della trascrizione, in quel caso sui registri dello stato civile, di un provvedimento iraniano di ripudio osservando che la Corte barese aveva errato nel considerare il divorzio c.d. “rojee” iraniano equivalente al ripudio, mentre avrebbe dovuto astenersi dal sindacare il contenuto dell’atto straniero valutando invece se gli effetti concreti determinati dall’ipotetico riconoscimento del provvedimento si ponessero in evidente contrasto con l’ordine pubblico: nella fattispecie, la Cassazione ha ritenuto che non vi fosse violazione dell’ordine pubblico in quanto il divorzio “rojee” non era assimilabile al ripudio e la moglie aveva potuto partecipare al processo con l’assistenza di un avvocato.

È invece generalmente riconosciuto che anche il ripudio potrebbe non essere ritenuto contrario all’ordine pubblico se analoga facoltà fosse riconosciuta dalla lex causae alla moglie come avviene nei divorzi rabbinici israeliani e in taluni divorzi islamici (App. Cagliari, Sent. 16.05.2008, con riguardo ad un provvedimento di ripudio egiziano della moglie da parte del marito, riconosciuto in base alla Convenzione dell’Aja del 1970).

Ciò è quanto ha provato a sostenere in giudizio il marito facendo valere che, a suo avviso, non c’era una violazione del principio di uguaglianza tra i coniugi in quanto egli, nell’atto di matrimonio, avrebbe concesso anche alla moglie lo specifico potere di ripudio.

La Corte d’Appello di Ancona ha peraltro escluso la validità di tale argomento, osservando che “la concessione alla moglie di un potere di divorzio, peraltro subordinato dall'atto di matrimonio alla violazione dei doveri coniugali da parte del marito, non consente di equiparare i diritti dei coniugi, posto che la moglie rimane soggetta al potere unilaterale, non recettizio e sostanzialmente immotivato, di ripudio del marito, permanendo, quindi, una chiara discriminazione per ragioni di sesso, in violazione dell'art. 14 della CEDU e del principio di uguaglianza di cui all'art. 3 Cost.”.

Non condivisibile, invece, l’altro argomento in forza del quale la sentenza della Corte anconetana ha escluso il riconoscimento della sentenza di divorzio per ripudio, costituito dal fatto che il provvedimento non conteneva statuizioni relativamente ai figli minori. Può considerarsi ormai pacifico che i provvedimenti sull’affidamento e il mantenimento della parola possono essere chiesti in un separato processo, anche perché in queste materie i criteri di giurisdizione non sono gli stessi del divorzio e quindi può essere che il giudice italiano abbia competenza per lo scioglimento del vincolo ma non per i provvedimenti relativi ai figli (Cass., Sent. del 30.07.2012 n. 13556; la possibilità di chiedere in Italia l’assegno divorzile a seguito di una sentenza straniera che ha pronunciato solo lo scioglimento del vincolo - perché nello Stato del giudice l’assegno può essere chiesto in un separato giudizio- è stata ammessa da Cass. Sent. 1.02.2016, n. 1863).

In definitiva, sulla base degli argomenti sopra riportati, la Corte d’Appello di Ancona ha ordinato la cancellazione del provvedimento dai registri dello stato civile (in realtà, come abbiamo detto, anagrafici) del Comune di Ancona per contrarietà all’ordine pubblico.

Resta un’ultima considerazione da svolgere.

Sebbene la clausola di ordine pubblico sia sempre contemplata nei vari sistemi di d.i.p. interni, convenzionali e comunitari, la tendenza riscontrabile a livello internazionale ed europeo è quella di farne un uso moderato, per evitare il rischio che i giudici cedano alla tentazione di applicare il limite anche nei casi in cui la legge o l’atto straniero introduca nell’ordinamento del foro princìpi diversi ma non radicalmente incompatibili facendo così venir meno quell’apertura del nostro ordinamento ai valori stranieri che costituisce il proprium del sistema di diritto internazionale privato (c.d. concezione dell’ordine pubblico attenuato).

In questa prospettiva, ci si può domandare se, dato che il ripudio è previsto da una norma di matrice religiosa prevista nello Stato del Bangladesh, e visto che la questione riguardava due cittadini del Bangladesh, non sarebbe stato possibile evitare di affermare la contrarietà all’ordine pubblico di un istituto che fa parte della tradizione e della religione di un altro Paese.

La risposta è negativa.

Infatti, anche la Risoluzione sulle differenze culturali e l’ordine pubblico nel d.i.p. della famiglia adottata nel 2005 a Cracovia dall’Institut de Droit International, che pure tende a salvaguardare quanto più possibile le diversità culturali fra i vari Paesi e suggerisce addirittura di non applicare la clausola di ordine pubblico quando la fattispecie presenta un collegamento tenue con l’ordinamento del foro (per esempio perché riguarda solo cittadini stranieri), riconosce però anche che la clausola va applicata quando le persone interessate, anche se sono cittadini stranieri, presentano un collegamento con lo Stato del foro significativo quale quello costituito dalla residenza e quando la regola religiosa si pone in contrasto con i principi di uguaglianza e di non discriminazione, due circostanze che ricorrono entrambe nel caso oggetto della sentenza in commento.

 

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