Il divieto di indossare il velo islamico nelle scuole non vìola la Convenzione europea dei diritti dell’uomo

di avv. Maida Milàn

Pronunciandosi su un caso in cui si discuteva della legittimità del divieto di indossare qualsiasi simbolo visibile del proprio credo religioso nel sistema educativo della Comunità fiamminga in Belgio, la Corte EDU, Sez. II, 16 maggio 2024 (n. 50681/20) ha escluso che vi fosse stata violazione dell’art. 9 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo in tema di libertà di religione, dichiarando il ricorso inammissibile.

Il divieto di indossare qualsiasi simbolo visibile del proprio credo religioso, incluso il velo islamico, nelle scuole pubbliche della Comunità fiamminga è stato introdotto nel 2009 dal Consiglio per l'Istruzione e successivamente adottato dalle istituzioni scolastiche. I genitori di tre studentesse di religione mussulmana, in qualità di rappresentanti legali, avevano avviato dei procedimenti davanti ai tribunali nazionali per far dichiarare illegale tale divieto. Questi procedimenti non avevano avuto successo. Successivamente, le studentesse avevano impugnato la normativa avanti alla Corte EDU, sostenendo che violasse il loro diritto fondamentale alla libertà di religione, protetto dall'articolo 9 della CEDU.

La Corte EDU ha riconosciuto preliminarmente l’esistenza di un'interferenza con il diritto alla libertà religiosa: ritenuto che l'uso del velo islamico può essere considerato motivato o ispirato da una religione o credo religioso, la Corte ha accertato che la misura che vieta alle ricorrenti di indossarlo costituisce un'interferenza con il loro diritto alla libertà di religione.

Tuttavia, la Corte EDU ha stabilito che tale interferenza con il diritto alla libertà di religione è giustificata sulla base di tre considerazioni:

1. Legalità: nelle due scuole in questione, la misura contestata era prevista dalle normative scolastiche del 2016-2017, che implementavano la decisione del Consiglio per l’Istruzione;

2. Obiettivo legittimo: la Corte ha rilevato che le misure che vietano agli studenti di indossare qualsiasi simbolo visibile di credo religioso in ambiente scolastico o universitario perseguono gli obiettivi legittimi di garantire la neutralità del sistema educativo, nonché la protezione dei diritti e delle libertà altrui e di protezione dell'ordine pubblico;

3. Necessità: la Corte ha stabilito che, in una società democratica, può essere limitato o vietato l'uso di simboli religiosi da parte degli studenti in ambito scolastico o universitario, senza che ciò comporti una violazione del diritto garantito dall'Articolo 9 di manifestare le proprie convinzioni religiose.

Nella misura in cui il divieto contestato è inteso a proteggere gli alunni da qualsiasi forma di pressione sociale e proselitismo, la Corte EDU ha ribadito che è importante garantire che, in conformità con il principio di rispetto del pluralismo e della libertà altrui, la manifestazione da parte degli alunni delle loro convinzioni religiose nei locali scolastici non assuma la natura di un atto ostentato che costituirebbe una fonte di pressione ed esclusione.

La restrizione contestata può, quindi, essere considerata proporzionata agli obiettivi perseguiti, ossia la protezione dei diritti e delle libertà altrui e dell'ordine pubblico, e quindi necessaria in una società democratica.

La decisione adottata dalla Corte EDU nel caso esaminato è sorretta da una giurisprudenza granitica sul punto. Conformi: Dahlab v. Switzerland (dec.), 42393/98, 15 February 2001; Leyla Şahin v. Turkey [GC], 44774/98, 10 November 2005; Köse and Others v. Turkey (dec.), 26625/02, 24 January 2006; Dogru v. France, 27058/05, 4 December 2008; Aktas v. France (dec.), 43563/08, 30 June 2009.

La vicenda riveste un’importanza trasversale, che riguarda tutti i Paesi UE e quindi anche il nostro.

Coloro che contestano la libera circolazione di donne con il viso velato si richiamano all'art. 85 del Testo Unico delle Leggi di Pubblica Sicurezza (R.D. n. 773/1931) e alla L. n. 152/1975, il cui art. 5, s.m.i., recita: "È vietato l'uso di caschi protettivi, o di qualunque altro mezzo atto a rendere difficoltoso il riconoscimento della persona, in luogo pubblico o aperto al pubblico, senza giustificato motivo”.

Sulla interpretazione della clausola "senza giustificato motivo" si è già espresso il nostro Consiglio di Stato, per il quale la matrice religiosa e/o culturale costituisce un giustificato motivo per poter circolare indossando un niqāb, un burqa, o un altro tipo di velo islamico che ricopra il viso (Cons. St., sentenza 19 giugno 2008, n. 3076).

La ratio legis di questa norma, diretta alla tutela dell'ordine pubblico, è infatti quella di evitare che l'utilizzo di caschi o di altri mezzi possa avvenire con la finalità di evitare il riconoscimento. L’uso del velo che copre il volto, generalmente, non è diretto a evitare il riconoscimento, ma costituisce attuazione di una tradizione di determinate popolazioni e culture.

Il citato art. 5 della L. n. 152/1975 non vieta, dunque, che una donna indossi il velo per motivi religiosi o culturali; le esigenze di pubblica sicurezza sono soddisfatte dal divieto di utilizzo in occasione di manifestazioni, e dall'obbligo per tali persone di sottoporsi all'identificazione e alla rimozione del velo, ove necessario a tal fine.

Resta fermo che tale interpretazione non esclude che in determinati luoghi o da parte di specifici ordinamenti possano essere previste, anche in via amministrativa, regole comportamentali diverse, purché ovviamente trovino una ragionevole e legittima giustificazione sulla base di specifiche e settoriali esigenze.

Ad esempio, la Regione Lombardia ha modificato il regolamento di accesso alle strutture regionali e agli ospedali vietando espressamente l'ingresso a chi si presenta (in generale anche indossando abiti come burqa e niqāb) con il volto coperto, motivo per il quale potrà essere respinto.

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