I diritti della persona detenuta che rifiuta di alimentarsi e i doveri di protezione

di avv. Cristina Arata

Spesso accadimenti della vita quotidiana e relativi dibattiti offrono l’occasione per approfondimenti di più ampio respiro etico e giuridico, soprattutto quanto coinvolgono diritti personalissimi che attengono alla salute e alla stessa sopravvivenza della persona, ed il rapporto tra esercizio del potere e libertà individuale.

Tra i contributi pubblicati in queste ultime settimane, degna di nota è la riflessione dei componenti del Gruppo interprofessionale di Lavoro “UndirittoGentile” (https://undirittogentile.wordpress.com/che fa riferimento al prof. Zatti dell’Università di Padova, pubblicata il 11.02.2023 nel Quotidianosanita.it (http://www.quotidianosanita.it/studi-e-analisi/articolo.php?articolo_id=111285).

Tre i quesiti iniziali che vengono affrontati: è legittimo un intervento della pubblica autorità che, in nome della tutela della persona detenuta, ne imponga la nutrizione forzata da parte dei medici? Quali sono i doveri di protezione in capo al personale sanitario? In caso di perdita di coscienza da parte della persona detenuta, sarebbe lecito intervenire?

Il nostro sistema costituzionale garantisce anche alla persona detenuta la titolarità e l’esercizio dei diritti fondamentali, non potendo questi ultimi subire una compressione solo perché l’interessato è sottoposto al controllo dello Stato per tramite dell’ordinamento penitenziario.

Per il Gruppo di lavoro “Le limitazioni alla libertà personale e ai diritti ad essa connessi sono consentite solamente entro gli stretti limiti della Costituzione e delle leggi penali. Se così non fosse, si giungerebbe alla negazione della dignità umana, trasformando la detenzione in un trattamento contrario al senso di umanità, in contrasto con l’art. 27, comma terzo, Cost., nonché con l’art. 3 CEDU.”

Tra i diritti fondamentali non sacrificabili, vi è il diritto alla salute e all’autodeterminazione terapeutica (Corte Cost., sent. n. 438/2008): anche nel contesto carcerario si impone quindi “la necessità di rispettare la volontà della persona rispetto alle cure e ai trattamenti sanitari, in quanto espressione della sua dignità”.

L’art. 13, co. 4, Cost. prevede, inoltre, che sia punita ogni violenza fisica e morale: la nutrizione artificiale forzatamente “imposta” contro la volontà della persona trasformerebbe l’attività sanitaria in uno strumento di controllo e di repressione della libertà, contrastando con l’art. 32 co. 2 Cost. (per il quale “Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana”).

“Questa previsione costituisce il fondamento costituzionale del diritto al rifiuto di ogni trattamento sanitario. Le uniche eccezioni previste, che devono essere disciplinate dalla legge, ad oggi, sono rappresentate dalle disposizioni relative all’obbligo vaccinale (contemplato come obbligatorio, ma non coattivo) e dalla disciplina relativa ai trattamenti e accertamenti sanitari obbligatori per ragioni di salute mentale, che - come è noto - possono essere disposti solo in presenza di specifiche condizioni cliniche e nel rispetto di una serie di stringenti garanzie procedurali, a tutela della persona. Con riguardo al contesto carcerario, inoltre, la persona detenuta viene sottoposta agli accertamenti sanitari specificamente previsti dalla legge sull’ordinamento penitenziario (in particolare art. 11 o.p.).”

La conclusione cui giunge il gruppo di lavoro è che un provvedimento della pubblica autorità che imponesse un trattamento sanitario coattivo di nutrizione forzata nei confronti di una persona detenuta, che rifiuta di alimentarsi, violerebbe gli artt. 2, 3, 13 e 32 Cost. e sarebbe dunque illegittimo.

Ma violerebbe, altresì, anche l’art. 3 CEDU (Divieto di tortura e di trattamenti inumani e degradanti): la CEDU ha già ricompreso in tale disposizione i casi concernenti l’alimentazione forzata di detenuti in sciopero della fame, e ha imposto allo Stato resistente la dimostrazione convincente della necessità medica dell’intervento, della proporzionalità dei mezzi adottati, del rispetto di una serie di garanzie procedurali (es. Yakovlyev v. Ukraine, ric. n. 42010/18, sentenza dell’8 dicembre 2022, concernente la condanna dell’Ucraina per violazione del divieto di tortura e trattamenti inumani e degradanti, per aver imposto la nutrizione forzata di una persona detenuta che rifiutava di alimentarsi).

Non solo. Esistono nel nostro ordinamento dei doveri di protezione che fanno capo al personale sanitario: il d.lgs. n. 230/1999 ha inserito la medicina penitenziaria nel SSN, stabilendo che la persona detenuta ha diritto (come ogni cittadino) all’erogazione delle prestazioni di prevenzione, diagnosi, cura e riabilitazione. Il d.lgs. 123/2018 ha poi riformato l’art. 11 ord. penit., permettendo al SSN di operare direttamente all’interno delle carceri. 

“Ne deriva, in capo ai professionisti sanitari penitenziari, un dovere di protezione della salute delle persone detenute, tanto da potersi configurare anche una responsabilità penale (ex art. 40 co. 2 c.p.) in caso di mancato intervento a tutela della persona detenuta. Tale dovere incontra tuttavia un limite nel diritto di autodeterminazione terapeutica del paziente sulla base dei principi costituzionali …, che trovano espressione nella legge n. 219 del 2017, con espressione di volontà in negativo nelle forme del dissenso, rifiuto, revoca e rinuncia al trattamento”.

Inoltre, in base alla Dichiarazione di Malta dell’Associazione medica mondiale riguardo agli scioperi della fame dei detenuti (adottata il 5 dicembre 2022), il personale sanitario eventualmente coinvolto in un intervento di nutrizione coattiva di persona detenuta che rifiuti di alimentarsi (in sciopero della fame) deve sempre far prevalere il dovere di lealtà nei confronti del paziente, rispetto all’ordine eventualmente impartito dall’autorità (par. 6). La nutrizione artificiale può essere considerata eticamente appropriata solo se la persona detenuta che rifiuta di alimentarsi vi acconsente espressamente (par. 21). 

Allo stesso modo secondo le Linee guida per i medici in materia di tortura e altri trattamenti crudeli, inumani o degradanti o in relazione alla detenzione (Dichiarazione della World Medical Association di Tokyo, adottata il 6 settembre 2022) la persona detenuta consapevole che rifiuta di alimentarsi non deve essere nutrita artificialmente. 

Lo stesso Codice di deontologia medica stabilisce all’art. 51 che “Il medico che assiste una persona in condizioni di limitata libertà personale è tenuto al rigoroso rispetto dei suoi diritti… nel prescrivere e attuare un trattamento sanitario obbligatorio, opera sempre nel rispetto della dignità della persona e nei limiti previsti dalla legge”.

Il successivo art. 53, con riferimento al rifiuto consapevole di alimentarsi, prevede che “il medico informa la persona capace sulle conseguenze che un rifiuto protratto di alimentarsi comporta sulla sua salute, ne documenta la volontà e continua l’assistenza, non assumendo iniziative costrittive né collaborando a procedure coattive di alimentazione o nutrizione artificiale”.

Sono poi noti i rischi sanitari sempre connessi al trattamento del digiuno prolungato, come la sindrome da rialimentazione (refeeding syndrome): si tratta di una complicanza grave, a volte anche letale, che insorge per interventi di nutrizione “aggressiva”, pochi giorni dopo l’inizio della stessa. Peraltro la nutrizione coattiva comporta una contenzione fisica/meccanica prolungata (o una sedazione anestesiologica): entrambe controindicate in un soggetto defedato dopo un digiuno protratto.

“In sintesi, i principi generali dell’attività medica restano immutati anche in relazione ad eventuali interventi dell’autorità che dispongano trattamenti sanitari volti alla rialimentazione o alla nutrizione artificiale e idratazione nel digiuno prolungato nel contesto della detenzione”.

Né sarebbe lecito intervenire in caso di perdita di coscienza del detenuto: il consenso al trattamento terapeutico richiede e presuppone una corretta e completa informazione che il medico è tenuto a fornire (art. 1, co. 3).  “A fronte di tale informazione, la persona esprime il consenso, che costituisce condizione di legittimità di ogni atto medico (art. 1, co. 4), oppure, se capace, “ha il diritto di rifiutare, in tutto o in parte” qualsiasi accertamento diagnostico o trattamento sanitario (art. 1, co. 5). La persona ha altresì il diritto di revocare il consenso, anche qualora tale revoca implichi l’interruzione del trattamento già iniziato. Nutrizione e idratazione artificiali sono trattamenti sanitari (art. 1, co. 5).” 

Quindi il medico è sempre tenuto a rispettare la volontà della persona, anche nel caso di rifiuto o rinuncia: dovrà prospettargli le conseguenze della sua decisione e, in ogni caso, promuovere azioni di sostegno: non è quindi lecita alcuna forma di abbandono terapeutico.

“Il chiaro impianto della legge n. 219 del 2017 non lascia spazio a dubbi: di fronte a un detenuto capace di interloquire con il personale sanitario, il medico ha l’obbligo di informarlo in modo completo, chiaro e comprensibile sulla situazione e sulle conseguenze del digiuno. Acquisita e compresa ogni informazione, la persona può rifiutare la nutrizione che gli sia eventualmente proposta e i medici sono tenuti al rispetto della sua volontà.   In previsione di una perdita della capacità, il medico, all’interno della relazione terapeutica, ha il dovere di pianificare con la persona detenuta come procedere; ciò è possibile ricorrendo allo strumento clinico della pianificazione condivisa delle cure (PCC), prevista dall’art. 5 della legge n. 219 del 2017. Analogamente, la persona detenuta, acquisite adeguate informazioni mediche sulle conseguenze delle sue scelte, può redigere le proprie disposizioni anticipate di trattamento (DAT), secondo quanto previsto dall’art. 4 della legge n. 219 del 2017.

Qualora siano assenti sia la pianificazione condivisa delle cure sia le disposizioni anticipate di trattamento “il rifiuto manifestato dalla persona detenuta, adeguatamente informata delle conseguenze cliniche che ne derivano del rifiuto , che includono la probabilità di compromettere la vita dell’interessato, mantiene il suo valore e va rispettato anche qualora l’interessato perda coscienza”.

In conclusione il rispetto della dignità personale costituisce un limite invalicabile al trattamento terapeutico coattivo, per ogni essere umano in qualsiasi condizioni si trovi: l’intangibilità del corpo così declinata nell’ordinamento italiano ed europeo è una salvaguardia di libertà morale e fisica della persona.

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