Brevi riflessioni sull’assistenza medica nel morire

di avv. Cristina Arata

La nostra redazione in questi anni si è spesso soffermata sulla complessità esistenziale e assistenziale dei “morenti” e delle persone affette da malattie ad esito infausto nelle fasi terminali della malattia.

Il dibattito pubblico e mediatico, a volte inutilmente polarizzato, spesso sembra non cogliere la complessità degli aspetti umani etici e giuridici inevitabilmente coinvolti: di qui l’utilità (forse) di tornare anche in questa sede a condividere alcuni spunti di riflessione.

La prospettiva etico giuridica che appare più adeguata è quella che parte dalle persone sofferenti, dalla loro fragilità: sono fragili, si percepiscono fragili e sono percepite come tali nella società, nelle istituzioni e nelle reti formali e informali di assistenza.

Rispetto e protezione sono quindi inevitabilmente i perni di ogni utile ragionamento.

Alcuni pazienti in condizione terminale rivendicano il diritto di autodeterminazione declinandolo come rispetto della loro volontà di morire in presenza di sofferenze insopportabili fisiche ed esistenziali: arrivano a parlare di “tortura” o di obbligo al martirio che derivano dall’assenza di una loro effettiva possibilità decisionale. Oppongono a chi invoca principi etici o religiosi di tutela assoluta della vita, il diritto alla dimensione naturale del percorso esistenziale, e di “essere lasciati andare” nel processo di evoluzione della malattia, senza interventi medico sanitari esterni. Invocano sul piano giuridico la laicità dello Stato tanto più in una società moderna che è inevitabilmente multiculturale e multireligiosa.

Quest’ultima obiezione è quella forse per i giuristi più immediatamente comprensibile: non pare lecito in base ai principi fondamentali del nostro ordinamento imporre in modo autoritario una volontà politica che pretenda dalle persone malate terminali di vivere costrette in rigidi dispositivi medici e sociali che le mantengano in vita contro la loro volontà nel caso in cui, se lasciate nella propria condizione naturale in un ambiente non tecnologicizzato e medicalizzato come quello attuale, morirebbero rapidamente.

L’habeas corpus è un limite fondamentale anche dell’intervento dello Stato: nessuna possibile “sovranità” sul corpo del cittadino. Gli studiosi di biopolitica da tempo ci hanno aiutato a comprendere i pericoli insiti nel “potere sulla vita del corpo” quando è sottratto all’individuo, e quali possono essere le speculazioni, oggi anche economiche, connesse a un simile potere pubblico.

La dialettica tra sacralità della vita, dignità e autodeterminazione della persona segna quindi i limiti esterni della polarizzazione, che tuttavia potrebbe trovare una via comune di pensiero, proprio laddove la preoccupazione sia genuinamente rivolta alla persona, alla sua fragilità, alla sua sofferenza e alla sua angoscia.

Compito di una comunità solidale e di coloro che svolgono un’attività di cura è approssimarsi con rispetto al sofferente e al morente, indagando anzitutto se esista un percorso di supporto (di cura o terapeutico) che sia efficace, realizzabile e sostenibile.

Questo significa aver chiaro il dovere, nella relazione terapeutica o comunque di sostegno, di verificare se sono state spiegate e offerte alla persona le cure palliative, e qualora erogate se tale presa in carico sia effettivamente adeguata. E quando tali cure non rispondano ai bisogni della persona, aver chiaro l’ulteriore dovere di cercare di comprenderne le ragioni.

Le cure palliative per legge hanno la funzione di accompagnare il malato e le persone a lui care offrendo un supporto sociale, psicologico, spirituale e morale. La comunicazione e la relazione basati sull’ascolto attivo, empatico e non giudicante sono strumenti fondamentali per supportare il malato e la sua rete relazionale.

L’aspetto più importante è questo: nel contesto delle cure palliative la persona malata è supportata dalle équipe multidisciplinari anche nel processo di comprensione dei propri valori personali (l’idea di dignità e qualità della vita per come esse vengono percepite soggettivamente), e nella traduzione di questi valori in scelte concrete sui trattamenti e sull’assistenza. Le cure palliative vengono poi attuate in vari setting di cura (domicilio, hospice, ospedale e altri luoghi di degenza territoriali).

In caso di sofferenze fisiche o psico-esistenziali refrattarie ai trattamenti, già oggi l’ordinamento prevede l’accesso alla sedazione palliativa profonda per ridurre o abolire il distress giudicato intollerabile dalla persona malata.

L’offerta precoce di cure palliative durante il percorso di malattia a prognosi infausta, può costituire di per sé un efficace strumento per scongiurare una “richiesta impropria” di assistenza medica nel morire.

La domanda di aiuto medico a morire può, infatti, conseguire a sofferenze potenzialmente trattabili da cure (soprattutto di tipo palliativo) che non sono state adeguatamente offerte o correttamente praticate alla persona malata.

Per contro proprio un contesto adeguato di offerta e pratica di cura palliativa consente alla persona malata di formare una volontà libera sull’intraprendere o meno un percorso di morte medicalmente assistita.

Indispensabile, quindi, sarebbe nell’ambito del SSN che la richiesta di aiuto medico al morire sia accolta da  professionisti appartenenti alla rete delle cure palliative che, per la loro esperienza concreta di accompagnamento, possono garantire un efficace livello di relazione e comunicazione con la persona (e, se lo desidera, le persone a lei care) relativamente al significato della sua richiesta.

In questa prospettiva il dialogo relativo alle cure palliative può costituire un passaggio di maggiore  consapevolezza per tutti: della persona malata, anche quando esse non vengano da lei percepite come una possibile alternativa all’assistenza medica nel morire, e garantisce ai professionisti della cura che siano state messe in campo, o quantomeno adeguatamente proposte, tutte le azioni volte a favorire un processo decisionale efficace, trasparente, rispettoso dei principi etici coinvolti nella relazione terapeutica.

La preoccupazione di tutti gli attori coinvolti e il fine del loro lavoro non è tanto la definizione dell’accesso alla procedura segnata dalle sentenze della Corte Costituzionale, che rimane uno dei possibili mezzi che la persona ha a disposizione nella situazione di malattia e sofferenza in cui si trova; la preoccupazione deve essere la persona.

Senza ipocrisie economiche di sistema o etico valoriali strumentali, la tutela della vita fragile perché malata terminale può ripartire da qui.

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