Se il padre violenta la figlia, la madre risponde di violenza sessuale per non averlo impedito

La Corte d’appello di Milano aveva confermato la decisione di primo grado, con la quale la madre di una figlia minore era stata condannata per i reati di cui agli artt. 81, 40 cpv, 609 bis, 609 ter n.5 c.p., perché aveva omesso di impedire gli atti di violenza sessuale compiuti dal padre su quest’ultima.

Secondo la ricostruzione operata dai Giudici di merito, la figlia minore aveva confidato alla madre le violenze sessuali patite ad opera del genitore, ma l’imputata, spinta dalla volontà di non mutare la propria situazione familiare, aveva preferito prendere le parti del marito, insultando e schernendo la minore e, soprattutto, costringendola a ritrattare le accuse con la complicità del coniuge.

La persona offesa aveva –quindi – ritrattato la sua penosa confessione perché sollecitata e pressata da entrambi i genitori, tra loro saldamente alleati.

L’imputata ha contestato tale ricostruzione, assumendo di non essersi rappresentata il fatto reato e conseguentemente di non aver avuto consapevolezza degli abusi commessi dal coniuge ai danni della figlia.

In particolare, ha precisato di aver inizialmente creduto alla figlia, ma di aver poi cambiato opinione, dopo che la minore, segretamente costretta dal padre, aveva ritrattato.

La Suprema Corte, investita del gravame, ha confermato la decisione dei Giudici di merito, evidenziando come la prospettazione difensiva si risolvesse in una mera ricostruzione alternativa dei fatti (peraltro neppure sostenuta in prima persona dall’imputata, che non si era sottoposta all’esame, ma esclusivamente dal suo difensore) rispetto a quella riferita dalla figlia, persona offesa, ritenuta correttamente credibile dai Giudici di primo e secondo grado, anche in ragione dei plurimi riscontri testimoniali acquisiti nel corso del dibattimento.

La decisione in commento ha aderito integralmente alle pronunce di merito che ben avevano evidenziato come il comportamento dell’imputata integrasse i requisiti della conoscenza dell’abuso, della riconoscibilità dell’azione doverosa su di sé incombente, della volontaria omissione del comportamento impeditivo dell’evento richiesti, secondo consolidato orientamento giurisprudenziale, per configurare la fattispecie emergente dal combinato disposto di cui agli artt. 40 cpv e 609 bis c.p..

Ancora una volta la Suprema Corte ha ribadito i principi che regolano il concorso del genitore nell’abuso sessuale commesso da altri ai danni del figlio minore oggettivamente configurabile sul piano del nesso di causalità diretta tra omissione ed evento ex art. 40 cpv c.p.: non impedire un evento che si ha l’obbligo giuridico di impedire equivale a cagionarlo.

Il precetto generale risiede nell’art. 147 cod.civ. in forza del quale il genitore è garante anche dell’integrità morale e della libertà sessuale dei figli, con conseguente obbligo giuridico di impedire, quando gli sia possibile, qualsiasi evento che attenti a questi diritti personali della prole.

Al fine di integrare l’elemento soggettivo del concorso nel reato la giurisprudenza di legittimità ha elaborato il seguente catalogo di condizioni:
a) la conoscenza o conoscibilità dell’evento;
b) la conoscenza o conoscibilità dell’azione doverosa incombente sul “ garante”;
c) la possibilità oggettiva di impedire l’evento.

Nel caso di specie tutte predette condizioni sono state ritenute sussistenti, ivi compresa la possibilità oggettiva di impedire l’evento, atteso che, secondo quanto rappresentato dalla persona offesa, le violenze del padre, seppure con minore frequenza, sono proseguite anche dopo la sua confessione alla madre.

Va segnalato al riguardo un orientamento giurisprudenziale che ha ritenuto sufficiente anche il solo dolo eventuale a condizione che sussista e, sia percepibile dal soggetto, la presenza di segnali perspicui e peculiari tali da consentire di prevedere, in termini di buona probabilità, il rischio che si verifichi l’evento illecito (Cass. pen. n. 28701/2010).

 

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