Libere professioniste e tutela della maternità

01 AGOSTO 2023 | Filiazione e adozione

di Avv. Maida Milàn

Il d.lgs. n. 105/2022 ha esteso alle libere professioniste la possibilità di percepire l’indennità di maternità anche per i periodi antecedenti i due mesi prima del parto, nel caso di gravi complicanze della gravidanza o di persistenti forme morbose, che si presume possano essere aggravate dallo stato di gravidanza (cd. “maternità aggravata”).

La l.n. 379/1990 aveva riconosciuto, per la prima volta, in favore delle iscritte ad una cassa di previdenza e assistenza per i liberi professionisti, il diritto ad una indennità di maternità, per cinque mesi. Il d.lgs. n. 151/2001 (T.U. maternità) era poi intervenuto recependo, tra le altre, la legge appena citata.

La l.n. 289/2003 aveva novellato il T.U. maternità, prevedendo che l’indennità fosse pari all’80% dei cinque dodicesimi del reddito professionale denunciato ai fini fiscali, nel secondo anno precedente il parto.

La Consulta aveva poi dichiarato l’illegittimità del T.U. maternità, nella parte in cui non disponeva che al padre libero professionista spettasse il diritto di fruire dell’indennità di maternità in alternativa alla madre, professionista anch’essa (Corte Cost. n. 385/2005).

La tutela della maternità delle libere professioniste consiste, dunque, nell’unico diritto a ricevere una prestazione indennitaria commisurata al reddito dichiarato da lavoro autonomo per cinque mesi, pari alla durata del congedo ordinario delle lavoratrici subordinate.

La differenza di regime è evidente: per le lavoratrici subordinate, vige l’obbligo per il datore di lavoro di assicurare l’astensione dall’impiego, rafforzato dal diritto a tornare a ricoprire il proprio posto di lavoro senza modificazioni, appena terminato il periodo di congedo obbligatorio, e il divieto di licenziamento fino al compimento del primo anno del figlio. Le professioniste possono, invece, continuare a lavorare, nella misura e con le modalità compatibili con le proprie condizioni di salute e con il prevalente interesse del figlio (Cass. civ. n. 4344/2002).

Per la lavoratrice subordinata l’obbligo di astensione dal lavoro si configura come garanzia primaria, per la professionista vale l’esatto opposto, sull’assunto che, se le si impedisse di lavorare, uscirebbe dal mercato, rischiando di perdere l’avviamento professionale, il livello reddituale, la fiducia ed il credito ottenuti prima della maternità.

La nuova normativa del d.lgs. n. 105/2022, riconoscendo protezione all’ipotesi di c.d. “maternità aggravata”, rappresenta, dunque, un passo avanti rispetto alla promozione e alla protezione della maternità e al rafforzamento delle tutele per le professioniste.

Resta tuttavia pressante per le professioniste il problema di conciliare famiglia e lavoro, come dimostrano i dati che seguono.

Nel 2020 la differenza di reddito fra professionisti e professioniste è stata pari a circa il 55%: ponendo a 100 il reddito degli uomini, quello delle donne è stato di 45 (XI Rapporto Adepp, Focus sulle donne).

Mentre all’avvio dell’attività professionale la differenza di reddito è poco percepibile (il che farebbe supporre l’irrilevanza di una pregiudiziale di genere) col passare degli anni tende ad aumentare: la motivazione è verosimilmente la difficile coesistenza tra impegni di lavoro e impegni familiari.

Se si analizza il rapporto tra reddito e fatturato, si rileva che il gap è maggiore per i professionisti uomini, rispetto alle colleghe donne il cui fatturato coincide quasi completamento con il reddito. Ciò perché, in molti casi, per le donne l’attività professionale è svolta in favore di altri professionisti, con modalità non dissimili a quelle della lavoratrice dipendente e/o con pochi costi di struttura.

Le professioniste, dunque, di fatto, sono spesso ancora poste dinanzi ad una scelta. Chi decide di non rinunciare né al lavoro né alla famiglia, si ritrova ad essere discriminata rispetto ai colleghi uomini, dal punto di vista della fiducia del mercato e della capacità reddituale, e rischia di essere discriminata anche rispetto alle donne che abbiano scelto percorsi lavorativi differenti, perché priva di alcune fondamentali tutele.

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