I medici difesi in tempo di pandemia

Nel coro di voci che dicono la loro sul coronavirus poteva mancare quella degli avvocati? In Italia sono stati tacitati dagli organismi professionali quelli tra di loro che si erano fatti avanti per chiedere ai cittadini di affidare loro le cause risarcitorie da intentare contro medici e istituzioni, imputati di colpevole trascuratezza nei confronti della lotta alla pandemia. In Inghilterra gli avvocati che lavorano alla difesa giudiziaria dei medici hanno avanzato la richiesta urgente di indicazioni autorevoli per guidare i comportamenti dei professionisti nel contesto di decisioni cliniche caratterizzate da scarsità di risorse. Se un medico avvia alla ventilazione un paziente piuttosto che un altro e quello escluso soccombe al virus, i familiari potranno fare causa e rivalersi? E si potranno portare in tribunale governanti e amministratori per aver mancato di fornire direttive sui criteri per allocare le risorse salvavita, quando non bastano per tutti i pazienti? E’ lo scenario evocato dall’articolo di Clare Dyer pubblicato nel British Medical Journal il 15 aprile 2020. I medici non sono solo preoccupati di difendersi dal contagio del virus: sentono il bisogno di assumere misure difensive anche nei confronti dell’animosità dei malati e dei loro familiari. E contro questo pericolo maschere, tute e guanti sono proprio inefficaci!

L’angoscia dei medici nei confronti della propria sicurezza giuridica non è nuova. Ed è diffusa ovunque: nel giro di pochi decenni la tradizionale immunità del medico è caduta, lasciandolo esposto a denunce e contestazioni. Quella implicita promessa inclusa nella professione stessa: “Io ti salverò” (da intendersi realisticamente: “Farò quanto in mio potere per curarti, ma senza presunzione di onnipotenza, perché prima o poi la mia arte si scontrerà con i limiti della natura”) ha ceduto il posto all’accusa: “Se il malato non guarisce, se va incontro alla morte, qualcuno ha sbagliato. E deve pagare”. 

Lo scenario è inquietante ed era già presente ben prima della pandemia. Questa rischia solo di dar luogo a un giro di vite, sotto il segno della scarsità delle risorse e delle decisioni tragiche, che richiedono di scegliere tra pazienti che hanno bisogno di terapie. Culturalmente siamo consapevoli di quanto sia pericolosa questa via. Per i professionisti, naturalmente, che rischiano denunce, richieste di risarcimenti, processi che avvelenano la vita per anni, quand’anche si concludessero con un’assoluzione in tribunale. E’ comprensibile che non pochi di loro scelgano come comportamento quotidiano di praticare la medicina difensiva. Ma, pensandoci bene, il pericolo incombe anche sui cittadini. Chi auspicherebbe, da malato, di finire nelle mani di un medico che abbia fatto proprio, a priori, un atteggiamento difensivo e pratichi solo i trattamenti che gli garantiscono l’impunità nei confronti della legge?

Certo, le linee guida sono auspicabili. Così pure le raccomandazioni che nascono dalla pratica dei professionisti (pensiamo alle recenti prese di posizione di anestesisti e rianimatori della SIAARTI). Meritano un rilievo prioritario, in tal senso, le nove raccomandazioni per i cittadini e i professionisti per utilizzare con saggezza risorse sanitarie limitate formulate dal movimento Choosing Wisely e diffuse in Italia da Slow Medicine. Non scendono dall’alto e non pretendono rilevanza giuridica; nascono dal consenso di professionisti e si fondano sulla pratica quotidiana, che cercano di interpretare con dovuta prudenza. Ciò che garantiscono non è l’immunità, bensì l’appropriatezza clinica così come i clinici più responsabili sono in grado di definirla, con competenza e saggezza (“choosing wisely”, appunto).

Ma non basta. E’ indispensabile il supporto delle regole deontologiche e, in primis, dell’etica. Proprio per rispondere alla diversa situazione culturale che mette a confronto professionisti e cittadini rispetto al passato, l’etica della cura si è andata modificando. All’unico principio tradizionale – fare il bene del paziente, deciso dal medico in scienza e coscienza – si sono aggiunti due principi, ugualmente essenziali per definire la buona medicina: il rispetto dell’autodeterminazione della persona malata, che richiede informazione e coinvolgimento nelle scelte, e il principio dell’equità nella ripartizione delle risorse, senza discriminazioni. L’etica medica della modernità è diventata tridimensionale.

Un’indicazione importante in questo senso è la raccomandazione n.8 di Choosing Wisely: “Non intubare pazienti fragili senza aver parlato con i familiari riguardo alle direttive anticipate del paziente, ogniqualvolta è possibile”. Nel contesto della pandemia non si è quasi mai sentito nominare il consenso del paziente e la raccolta delle sue preferenze riguardo alle misure terapeutiche estreme, come se fossero un lusso che l’emergenza non ci permetteva di concederci. Eppure questa attenzione continua a definire il perimetro della buona medicina. “Ogniqualvolta è possibile”, certo; ma anzitutto bisogna riconoscere all’autodeterminazione il diritto di cittadinanza nella medicina del nostro tempo. 

E qual è il ruolo della legge nell’offrire sicurezza al medico? A qualcuno continuerà a sembrare lo strumento privilegiato per difendersi. Un po’ come, nel contesto americano, troviamo cittadini che, nella prospettiva di disordini sociali creati dalla crisi, pensano che la risorsa più sicura sia far incetta di armi… Ma, pur senza svalutare il ruolo della legge, è miope considerarla l’idolo a cui deve essere sacrificato tutto il resto. La protezione garantita dalle regole giuridiche si aggiunge a quella che proviene da rapporti sociali sotto il segno dell’etica, senza sostituirsi ad essa. Lo fa tanto più efficacemente quanto più si adegua al modello ideale che un gruppo di giuristi italiani ha chiamato “diritto gentile”. Non si tratta di anime belle, motivate da intenti idealistici sotto il segno dell’amabilità. Non vogliono edulcorare il diritto; il loro obiettivo molto concreto è di ricollocare il diritto sanitario là dove è di casa, ossia nella relazione terapeutica. Auspicano delle regole che evitano la violenza, compresa quella che può sviluppare la legge quando entra nell’ambito della cura, e rispettino la dignità delle persone, soprattutto nelle decisioni che riguardano la fine della vita.

Il riferimento implicito all’alleanza terapeutica può legittimamente prevedere una strategia di persuasione – i teorici del “nudging” la chiamano “spinta gentile” – offrendo un supporto di solidarietà concreta nelle situazioni di debolezza e sofferenza. Senza per questo negare il principio dell’autonomia personale, garantito dal diritto vigente nelle relazioni di cura.

Un diritto gentile di questo tipo può apparire più debole della “national policy”, auspicata dagli avvocati inglesi per la difesa dei medici, come intelaiatura per contenere e giustificare le decisioni cliniche. Debole se preso da solo; ma molto efficace se unisce la sua capacità di dar forma ai comportamenti a una corretta deontologia e a un’etica medica che abbia fatto propria la sfida della modernità. L’arsenale difensivo per la sicurezza dei professionisti è molteplice e variegato. E’ saggio utilizzarlo tutto, senza abbandonarsi alla ingenua convinzione che ci si difenda solo con le armi da fuoco.
 

dott. Sandro Spinsanti - Direttore Istituto Giano per le Medical Humanities di Roma     

Allegati

Ok
Questo website usa solamente cookies tecnici per il suo funzionamento. Maggiori dettagli