Il diritto all’oblio e la rimozione dai risultati di ricerca sul Web

30 LUGLIO 2022 | Riservatezza

di dott. Fiorella Guidolin

Con l’ordinanza n. 18430 dell’8 giugno 2022, la Corte di Cassazione è tornata a pronunciarsi sul tema della deindicizzazione: argomento sicuramente attuale, considerata la riflessione in corso anche da parte delle istituzioni UE sulla responsabilizzazione delle piattaforme digitali.

Il provvedimento affronta i profili di responsabilità del provider, condannato al risarcimento del danno per non aver rimosso i contenuti di natura diffamatoria, nonostante la segnalazione dell’interessato dopo l’accertamento della falsità della notizia da parte dell’autorità giudiziaria.

Centrale nella vicenda è l’affermazione del diritto all’oblio, di cui la deindicizzazione (ovvero la rimozione dei risultati di ricerca sul Web) rappresenta una delle possibili declinazioni.

Il termine deriva dal latino “oblivium”, e qualificava in origine il diritto della persona ad essere dimenticata e, in particolare, a non essere più menzionata in relazione a fatti che l’avevano riguardata in passato e che erano stati oggetto di cronaca.

Nella sua formulazione originaria, il diritto all’oblio è stato infatti inteso come “diritto al segreto del disonore”, e quindi come diritto a non veder ripubblicate vicende passate, una volta trascorso un determinato lasso di tempo.

Successivamente, con l’avvento di Internet, il diritto all’oblio è divenuto garanzia della contestualizzazione delle informazioni in connessione all’esigenza che determinate notizie, reperibili in rete e legittimamente pubblicate in passato, vengano poi riadattate al nuovo contesto temporale.

Da ultimo ha assunto una dimensione più generale di tutela dei dati della persona, ed è stato quindi qualificato come diritto alla cancellazione di qualsiasi dato personale (inclusa l’esigenza alla non agevole reperibilità on line dei dati stessi a seguito al leading case Google Spain).

Nell’ordinamento giuridico sovranazionale centrale è la disposizione del regolamento UE 2016/679 per il quale “la protezione delle persone fisiche con riguardo al trattamento dei dati di carattere personale è un diritto fondamentale”.

La Suprema Corte nella decisione in comento affronta un caso di illecita diffusione, ai danni di un privato cittadino, di alcune notizie tra cui l’accusa di essere parente di un appartenente ad un’associazione di stampo mafioso e autore di reati: queste informazioni, caricate da un collega di lavoro nel suo sito web, si erano ampiamente diffuse attraverso la rete internet.

Per tale illecito, il collega era stato rinviato a giudizio e condannato per diffamazione dal Tribunale di Lecco con sentenza del 2017, poi divenuta definitiva.

La richiesta di deindicizzazione inviata ad un noto motore di ricerca da parte del soggetto leso era tuttavia rimasta senza esito, di modo che, attraverso una ricerca on line, era ancora possibile risalire alle URL.

Era, dunque, intervenuto il Tribunale di Milano che aveva ritenuto sussistente l’illiceità del trattamento, almeno a decorrere dalla data della diffida alla cessazione – rivolta al motore di ricerca - con allegata la sentenza penale che accertava la falsità della notizia lesiva: da quel momento il motore di ricerca non poteva più ritenersi ignaro della violazione.

Il Tribunale meneghino nell’operare il bilanciamento tra gli interessi alla libertà economica e alla manifestazione del pensiero, da un lato, e i diritti al trattamento dei propri dati personali, all’identità personale e all’onore e reputazione, dall’altro, rileva anzitutto che il gestore del motore di ricerca è un ISP (internet service provider) perché:

  • offre i servizi di un motore di ricerca indicizzando i testi in rete, e quindi in maniera organizzata ed aggregata,
  • opera come intermediario tipico dell’informazione in internet;
  • è nel contempo una “banca dati”, poiché gestisce un catalogo delle migliori pagine selezionate dal web e organizza informazioni.

E ritiene non applicabile alla vicenda il D.lgs. 9 aprile 2003 n. 70, fonte normativa che ha recepito la Direttiva sul commercio elettronico del 2000, disciplinando la responsabilità dei prestatori di servizi della società dell’informazione.

Per il Tribunale di Milano, infatti, la responsabilità dell’ISP doveva essere ricondotta alla clausola generale di cui all’art. 2043 c.c., senza che si potesse limitarne la responsabilità quale hosting provider, dal momento che questi “abbina soggetti e siti secondo una propria scelta, rendendo disponibili informazioni aggregate, con un valore aggiunto autonomo rispetto a quello offerto dai siti sorgente, tanto che resta irrilevante l’assenza di intenzionalità lesiva”.

Sussiste per il giudice il diritto dell’istante alla deindicizzazione anche degli URL riferibili ai siti gestiti da altri motori di ricerca – in quanto il gestore in questione mette a disposizione degli utenti i riferimenti necessari per identificarli –, nonché degli URL concernenti il dato della condanna per diffamazione pronunciata dal Tribunale di Lecco, poiché idoneo a rievocare la vicenda.

Il gestore del motore di ricerca è stato condannato al risarcimento del danno morale, liquidato in via equitativa nella somma di Euro 25.000,00, per le sofferenze patite dalla vittima in ragione della perdurante diffusione dei dati negativi. la rimozione dei risultati di ricerca sul Web

Contro tale decisione il gestore del motore di ricerca ha proposto ricorso in Cassazione per:

  • avere, il Tribunale, omesso completamente di definire il contenuto della misura inibitoria: non sarebbero infatti individuabili, né nel testo della motivazione né nel dispositivo, le URL da deindicizzare;
  • Il Tribunale avrebbe confuso le figure dell’hosting provider e del caching provider, essendo solo quest’ultimo il ruolo della ricorrente, che si limita ad aggregare mediante un software le informazioni pubblicate da terzi, offrendole mediante un ordine proposto da un algoritmo, non occupandosi dei contenuti; sarebbe poi stato disapplicato il regime speciale di responsabilità previsto per il caching e applicato, in sua vece, una responsabilità di tipo oggettivo;
  • Il Tribunale avrebbe poi omesso di delimitare il c.d. diritto all’oblio in rapporto alla disciplina di cui al D.Lgs. n. 70/2003, senza alcun bilanciamento tra tale diritto e l’interesse pubblico alla reperibilità della notizia, visto che non tutti gli URL facevano riferimento alla vicenda giudiziaria all’esame.
  • Il diritto all’oblio non sarebbe sovrapponibile al diritto all’onore e alla reputazione, né alla riservatezza. Esso prevale quando la notizia non sia più attuale – elemento costitutivo e centrale della tutela – dovendo perciò accertarsi se permanga un interesse pubblico alla notizia;
  • Il Tribunale avrebbe omesso l’esame di un fatto decisivo, poiché non avrebbe svolto alcun esame sui contenuti dei 129 URL contestati, mentre con riguardo a ciascuno di essi avrebbe dovuto essere operato il bilanciamento con l’interesse pubblico alla conoscenza dei dati. In proposito, il gestore del motore di ricerca avrebbe contestato come la maggior parte degli URL non fossero più presenti sulla rete e non conducessero ad alcuna informazione, oppure riguardassero contenuti certamente leciti;
  • Il Tribunale avrebbe violato gli artt. 2043 e 2050 c.c., avendo condannato la società al risarcimento del danno in assenza della prova del medesimo e del nesso causale.

La Suprema Corte ritiene il primo motivo di ricorso infondato: gli URL da deindicizzare cui il Tribunale di Milano si è riferito sono reperibili in un documento facente parte del medesimo processo e certamente a conoscenza delle parti, e ciò sulla base del principio della valorizzazione di ogni elemento sul quale l’attività giurisdizionale si è in effetti estrinsecata, sebbene il risultato non sia stato espresso in modo puntale (cfr. Cass., sez. un., n. 11066/2012).

Per quanto la Cassazione ammetta che la tecnica redazionale della motivazione della sentenza impugnata sia sul punto imprecisa (non essendo possibile per i consociati estranei al giudizio accedere a tutti gli atti processuali e quindi in spregio alla possibile funzione, comunque propria di tutti i giudici, di regolamentazione ed indirizzo delle condotte dell’intera collettività) essa non si pone al di sotto del livello minimo costituzionale richiesto.

Il secondo motivo di ricorso è in parte inammissibile - laddove ripropone un giudizio sul fatto - ed in parte infondato sotto il profilo giuridico: pur dovendosi correggere la motivazione, il dispositivo è conforme a diritto.

Né viene accolta la censura per cui il Tribunale di Milano, correttamente inquadrando il gestore del motore di ricerca quale hosting provider, avrebbe poi errato nel non ritenere applicabile il regime di responsabilità previsto dal D.Lgs. n. 70/2003.

La Cassazione, in proposito, dichiara di avere già affermato che “il prestatore del servizio di hosting è responsabile con riguardo al contenuto delle informazioni ai sensi del D.Lgs. n. 70 del 2003, art. 16, quando:

  1. sia effettivamente a conoscenza del fatto che l’attività o l’informazione è illecita; e per quanto attiene ad azioni risarcitorie, sia al corrente di fatti o di circostanze che rendono manifesta l’illiceità dell’attività o dell’informazione;
  2. non agisca immediatamente per rimuovere le informazioni o per disabilitarne l’accesso appena a conoscenza di tali fatti, su comunicazione delle autorità competenti (cfr. Cass. n. 7708/2019).

Secondo la Corte sussiste già la prima delle fattispecie di responsabilità, che collega il sorgere dell’obbligazione risarcitoria alla conoscenza, da parte del prestatore del servizio dell’illiceità dell’informazione, vista la diffida a cessare l’attività illecita indirizzata dal privato leso all’ISP, in uno con la sentenza penale del Tribunale di Lecco.

Per tale motivo, una volta corretta la motivazione, quanto all’inapplicabilità del D.Lgs. n. 70 del 2003, la Suprema Corte ha ritenuto disatteso il motivo sul punto, essendo il decisum conforme a diritto.

Il terzo motivo viene ritenuto inammissibile: una volta ravvisata la responsabilità dell’ISP, rimane irrilevante la questione relativa all’attualità o meno della notizia in questione.

Il quarto e quinto motivo sono invece infondati: il Tribunale ha svolto l’esame su tutti gli elementi di causa e con riguardo a tutte le questioni, ivi comprese quelle dei contenuti delle URL; e ha correttamente fatto uso della liquidazione equitativa del danno morale.

Per la Suprema Corte, in presenza di una lesione ai diritti personalissimi come quelli invocati dal soggetto leso, il danno morale è per definizione un danno che non può essere provato nel suo preciso ammontare, ai sensi dell’art. 1226 c.c. (richiamato dall’art. 2056 c.c. comma 2) perché pertinente al ristoro del pregiudizio rappresentato dalla sofferenza interiore, “sub specie di dolore dell’animo, vergogna, disistima di sé, paura, disperazione”.

Trattasi, dunque, di un tipo di danno in riferimento al quale più che altrove si rende necessario il ricorso alla liquidazione equitativa, compiuta dal giudice di merito con la valutazione del danno stesso, mediante la sua “personalizzazione”.

Per la Cassazione, quindi, la responsabilità dell’hosting scatta quando lo stesso non si attiva immediatamente per disabilitare l’accesso alle informazioni illecite di cui ha avuto conoscenza. E il diritto alla deindicizzazione, declinazione del più generale diritto all’oblio, comprende anche la pretesa alla rimozione delle URL dei siti sorgente. Il danno morale che ne consegue andrà liquidato in via equitativa, non potendosi provare ex sé nel suo preciso ammontare.

Allegati

Ok
Questo website usa solamente cookies tecnici per il suo funzionamento. Maggiori dettagli