L’azione di impugnazione del riconoscimento del figlio: il termine annuale decorre dalla scoperta della non paternità

Con la sentenza n. 133 del 2021, la Corte Costituzionale ha dichiarato costituzionalmente illegittimo, per contrasto con l’art. 3 della Costituzione, l’art. 263, terzo comma, cod. civ. nella parte in cui non prevede che, per l’autore del riconoscimento, il termine annuale per proporre l’azione di impugnazione decorra dal giorno in cui ha avuto conoscenza della non paternità, e non solo dalla scoperta dell’impotenza, poiché è irragionevole in sé e comunque discriminatorio rispetto all’azione di disconoscimento di paternità dei figli nati dal matrimonio ex art. 244 c.c. 

Il quadro normativo

L’impugnazione per difetto di veridicità è disciplinata dall’art. 263, ed è applicabile a tutti i casi in cui, al di fuori del matrimonio e a prescindere dallo stato soggettivo di buona o mala fede, sia stato effettuato un riconoscimento di paternità in contrasto con la verità biologica della procreazione. Al rapporto di filiazione sorto nell’ambito del matrimonio si applica invece la disciplina del disconoscimento di paternità prevista dagli artt. 243 bis e seguenti del codice civile.

Sopravvive nel nostro ordinamento, anche dopo la riforma della filiazione intervenuta con la legge 10 dicembre 2012 n.219 e con il decreto legislativo 28 dicembre 2013 n.154 che ha unificato lo stato di figlio, la distinzione tra le due azioni di stato, che discende dal permanere della presunzione di paternità, secondo la quale chi nasce o è concepito durante il matrimonio si presume figlio del marito della madre, laddove per l’acquisizione dello stato di figlio da parte del nato da genitori non coniugati è indispensabile il  riconoscimento volontario oppure un provvedimento giudiziale.

L’art. 263 cod. civ., nella sua formulazione oggi ritenuta incostituzionale, prevede che l’autore del riconoscimento che intenda impugnarlo per la sua non veridicità debba farlo entro un anno dal giorno dell'annotazione del riconoscimento sull'atto di nascita oppure dal giorno in cui ha avuto conoscenza della propria impotenza, non essendo previste altre possibili ragioni che abbiano determinato la conoscenza della non paternità.

Prevede inoltre che l'azione di impugnazione, imprescrittibile per il figlio, debba essere proposta dagli altri legittimati nel termine di cinque anni dal giorno dall'annotazione del riconoscimento sull'atto di nascita.

La questione di legittimità costituzionale

Con ordinanza del 30 giugno 2020, il  Tribunale di Trento ha sollevato la questione di legittimità costituzionale dell’art. 263, comma 3 c.c sotto diversi profili in riferimento agli artt. 376 e 117, comma 1, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 8 CEDU.  

La Corte Costituzionale, operando ancora una volta un bilanciamento tra i due  principi costituzionali del favor  veritatis e del favor filiationis, ha ritenuto la questione parzialmente fondata.

Ha ritenuto infatti irragionevole, in primo luogo,  la disparità di trattamento fra autori del riconoscimento che possano provare la propria impotenza, e autori del riconoscimento che non siano affetti da tale patologia, pur essendo ugualmente venuti a conoscenza della non veridicità della paternità biologica quando oramai era decorso il termine annuale.

In secondo luogo ha ritenuto irragionevole la disparità di trattamento rispetto alle regole previste per il padre che agisca per il disconoscimento di paternità.

A norma degli artt. 243 e segg. c.c., infatti, il padre coniugato, oltre alla prova dell’impotenza, può avvalersi anche di altre prove per  sottrarsi al dies a quo che altrimenti decorre dalla nascita: tra queste, oltre alla più classica prova dell’adulterio, viene da pensare oggi alle varie possibili implicazioni legate alla fecondazione assistita.

Tale diversità di trattamento, ha argomentato la Corte, finisce per rendere irragionevolmente più stabile lo status filiationis sorto al di fuori del matrimonio rispetto a quello del figlio concepito o nato durante il matrimonio.

La Consulta ha così ritenuto fondata la questione e stabilito il principio per cui, anche nella filiazione al di fuori del matrimonio, il termine annuale di decadenza decorre per l’autore del riconoscimento dalla mera scoperta della non paternità, che in sé abbraccia qualsivoglia ragione l’abbia determinata.

Ha invece dichiarato non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 263, terzo comma, cod. civ., nella parte in cui prevede che «l’azione non può essere comunque proposta oltre cinque anni dall’annotazione del riconoscimento», sollevata, in riferimento all’art. 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 8 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà (CEDU).

E’ vero, ha spiegato la Corte, che nell’interpretazione del diritto al rispetto della vita personale e familiare, la Corte EDU, in vari precedenti, ha ritenuto che le discipline statali volte a far decorrere un termine di decadenza per l’impugnazione dello stato di filiazione dal momento costitutivo dello stesso, anziché da quello in cui il richiedente abbia maturato la consapevolezza della sua possibile non paternità,  non realizzino un bilanciamento proporzionato, tra gli interessi rilevanti.

Tuttavia, l’interpretazione sopra richiamata era, in quei casi, correlata in maniera inscindibile a termini (semestrali o annuali) decisamente più brevi rispetto a quello quinquennale previsto dall’art. 263, terzo comma, ultima parte, cod. civ.

Un così lungo decorso del tempo (cinque anni dal riconoscimento) radica il legame familiare e sposta il peso, nel bilanciamento attuato dalla norma, sul consolidamento dello status filiationis, in una maniera tale da giustificare che la prevalenza di tale interesse sia risolta in via automatica dalla fattispecie normativa.

La verità biologica è peraltro garantita dal fatto che, per il figlio, l’azione di impugnazione del riconoscimento è imprescrittibile.

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