Il Giudice non può prescindere dall’osservazione e dall’ascolto del minore anche quando è chiamato a valutare la miglior scelta per la sua educazione religiosa

IL CASO. Nel 2014 il Tribunale di Como, nel pronunciare la separazione giudiziale tra E.L. e V.M., affidava un minore ad entrambi i genitori, lo collocava presso la madre, ma precisava che, stante il contrasto tra i genitori in materia religiosa (padre cattolico e madre testimone di Geova), spettava al giudicante la decisione ex art. 337 ter c.c., decidendo di aderire alla scelta del padre perché più rispondente all’interesse del piccolo, “consentendogli più agevolmente l’integrazione nel tessuto sociale e culturale del contesto di appartenenza, il quale, benchè notoriamente secolarizzato, resta pur sempre di matrice cattolica“. A tal fine avrebbe dovuto essere il padre ad accompagnare il bambino nel percorso di educazione religiosa prescelto, mentre “la madre dovrà responsabilmente astenersi, onde non destabilizzare il bambino, dall’impartirgli ulteriori insegnamenti della dottrina geovista e dal condurlo alle relative cerimonie”.  

Proponeva appello la madre censurando esclusivamente le prescrizioni in ordine all’educazione religiosa del figlio, di cui chiedeva la revoca, previa sospensione. Lamentava l’appellante che l’ordine impartitole dal Tribunale contrastasse con i principi della Costituzione e con quello della laicità dello Stato, oltre che con le norme del diritto comunitario e internazionale, non avendo la sentenza motivato in alcun modo il pregiudizio che il figlio avrebbe subito per effetto degli insegnamenti religiosi della madre; la decisione si sarebbe posta, inoltre, in contrasto col principio della bigenitorialità e col suo diritto a trasmettere i propri valori religiosi, così da consentire al figlio, in età adulta, di scegliere consapevolmente il proprio credo. Lamentava altresì un vizio di ultrapetizione perché reputava inesistente il conflitto tra lei e il padre del bambino.  

La Corte d’appello di Milano, nel 2016, respingeva l’impugnazione della madre, ritenendo da un lato esistente il conflitto emerso chiaramente anche nel corso del giudizio e accertato che il bambino fosse stato battezzato ed educato secondo la religione cattolica per scelta comune e condivisa fino alla fine della convivenza tra i genitori, ritenendo  più rispondente all’interesse del minore mantenere tale scelta fino alla Cresima ed escludendo la frequentazione delle adunanze della Sala del Regno e altri insegnamenti contrastanti con la religione cattolica.

Ricorreva per Cassazione la madre del minore per tre motivi: a) violazione del preminente interesse del minore ad una relazione significativa con entrambi i genitori e a ricevere la loro eredità culturale e religiosa, in assenza di danni per il minore e dei presupposti legali per proibire alla madre di fargli frequentare le attività religiose dei Testimoni di Geova; b) violazione del principio di libertà religiosa, del principio di non discriminazione e di laicità; c.) omesso esame di un fatto decisivo oggetto di discussione tra le parti e cioè la circostanza che la ricorrente era sempre stata Testimone di Geova già da prima del matrimonio ed aveva sempre trasmesso i suoi valori religiosi al bambino fin dalla nascita.

LA DECISIONE. La Corte, con un’ampia e approfondita motivazione, ritenuto che i motivi meritavano congiunta trattazione, tenuto conto della loro evidente connessione, ha cassato la sentenza di secondo grado, rinviando alla Corte d’appello di Milano in diversa composizione perché rivalutasse la controversia alla luce dei seguenti principi di diritto.

In tema di affidamento dei figli, richiamata la propria precedente giurisprudenza (in particolare Cass. civ. n. 12594/2018), il criterio fondamentale per il giudicante è

“sempre quello del superiore interesse del minore, stante il suo diritto ad una crescita sana ed equilibrata, sicchè tale obiettivo può dover comportare anche l’adozione di provvedimenti, relativi all’educazione religiosa, contenitivi e restrittivi dei diritti di liberta dei genitori, ove la loro esplicazione determinerebbe conseguenze pregiudizievoli per il figlio, compromettendone la salute psicofisica e lo sviluppo.”

Tuttavia, in caso di contrasto tra genitori in tema di trasmissione di tradizioni e riti religiosi la possibilità per il giudice di emettere provvedimenti restrittivi, non può fondarsi “su un’astratta valutazione delle religioni cui aderiscono i genitori o che esprima un giudizio di valore precluso all’autorità giudiziaria dal rilievo costituzionale e convenzionale Europeo del principio di libertà religiosa”, né su valutazioni relative a scelte o a modifiche successive del proprio credo. 

Da ciò discende l’obbligatorietà per il giudice, prima di adottare provvedimenti restrittivi o contenitivi dei diritti individuali di libertà dei genitori in tema di libertà religiosa e di esercizio del ruolo educativo, di accertare in concreto le eventuali conseguenze pregiudizievoli per il figlio che possano ledere il suo sviluppo o compromettere la salute psico-fisica, e “tale accertamento non può che basarsi sull’osservazione e sull’ascolto del minore in quanto solo attraverso di esse tale accertamento può essere compiuto”.

Nella motivazione molto approfondita e con ampi richiami a propri precedenti, la Corte sottolinea, con riferimento alla sentenza del Tribunale di Como “l’inaccettabile valutazione di disvalore della religione dei testimoni di Geova” e con riferimento alla Corte d’appello di Milano il fatto che nonostante questa fosse obbligata a sentire il minore, “non abbia proceduto ad alcuna audizione, né direttamente né attraverso esperti, non dando alcuna contezza della loro mancanza”.

Non possono però non colpire i tempi, nei quali è stata decisa una controversia così delicata, risalente al 2014: quasi un anno per il deposito della decisione (interlocutoria) della Corte.

 

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